All’inizio è stato come un fulmine a ciel sereno. L’epidemia, prima relegata nei giornali alle pagine degli esteri e creduta limitata alla sola Cina, è sbarcata di prepotenza in Italia, il grande vicino della Croazia. È scattata dunque una rincorsa alle dichiarazioni dei politici, alle misure straordinarie, ai controlli ai confini e poi allo stop ai traghetti e agli autobus in provenienza dall’Italia. Per me, giornalista italiano a Zagabria, sono stati giorni un po’ confusi, incerti sul da farsi, in attesa (come per tante altre persone) dell’evoluzione degli eventi. Ma non si è dovuto aspettare molto: un paio di settimane più tardi, i primi casi di Coronavirus venivano registrati in Istria, poi nella capitale. La Dalmazia resisteva ancora qualche giorno ma alla fine il virus si è esteso, lentamente, a tutto il Paese. Mentre scrivo queste righe, la Croazia conta poco più di 1.200 casi e 16 decessi, ma la crescita continua, anche se fortunatamente in modo lineare e non esponenziale.

In quale atmosfera si è introdotto il lockdown nel Paese e con quale stato d’animo si attraversa questo momento difficile per tutti, a ogni latitudine? Mi sento di poter dire ‒ col rischio di essere contraddetto, anche brutalmente, dalle prossime settimane ‒ che finora la crisi sanitaria è stata gestita in Croazia senza grosse scene di panico e senza isterismi da parte delle autorità. E, questo, nonostante il 22 marzo la capitale croata sia stata colpita da un forte sisma. C’è stata, certo, un’iniziale e buffa corsa alla carta igienica, al lievito e alla farina (fenomeno a quanto pare globale), ma dal punto di vista governativo si è deciso fin da subito ‒ forti del precedente italiano ‒ di imporre delle misure piuttosto rigide. Il 9 marzo sono stati vietati tutti gli eventi con più di mille persone ed è stata introdotta una quarantena di due settimane per i cittadini in arrivo dalle «zone rosse», pochi giorni dopo hanno chiuso le scuole e infine è toccato ai negozi e ai trasporti pubblici.

Sembrava quasi che la gestione del virus potesse andare avanti così, senza scosse, invece è arrivato il sisma di domenica 22 marzo. Alle 6:24, tutta Zagabria è stata buttata giù dal letto da un terremoto di magnitudo 5,3 della scala Richter, con epicentro a soli 7 km di distanza. Non devastante ‒ avremmo scoperto più tardi ‒ ma abbastanza per fare un morto, una trentina di feriti e dei danni stimati a oggi a 260 milioni di euro. E la conseguenza più grave è stata forse quella, immediata, sul morale dei cittadini, corsi in strada impauriti e sbalorditi dalla coincidenza di due cataclismi quantomeno rari: la pandemia e il terremoto. Mi ricordo benissimo l’espressione di stupore del mio vicino di casa, un arzillo 80enne uscito in vestaglia sul suo terrazzo. «Šta još?», mi ha detto. «Cos’altro» deve ancora arrivare? Ed è un po’ quello che ci siamo chiesti tutti domenica 22 marzo, mentre dalla protezione civile arrivano messaggi a prima vista contraddittori: uscite di casa ma non assembratevi.

L’incertezza dei primi giorni è dunque tornata a far capolino nelle nostre vite, colpevole anche la nevicata che ha imbiancato Zagabria all’indomani del sisma. Molte persone ‒ la stampa ha parlato di centinaia di zagabresi ‒ hanno lasciato la capitale per recarsi da amici, parenti o presso le seconde case sulla costa, mentre veniva aggiornato al rialzo il numero degli edifici inagibili, ora arrivato a quota 1.900. Alle precauzioni dovute alla pandemia, agli apericall e alle missioni al supermercato, si sono aggiunte conversazioni sullo stucco, sulle crepe, sul camino pericolante del vicino e quel balcone sospetto davanti casa. Per dare un’idea dall’ampiezza del problema, la protezione civile croata ha ricevuto finora 26mila domande di ispezione di edifici danneggiati dal sisma e 10mila di queste riguardano abitazioni private. I reparti di alcuni ospedali, alcune facoltà e lo stesso parlamento sono stati dichiarati inagibili. Molti marciapiedi sono ancora transennati.

Gli ultimi giorni hanno riportato il sole, un po’ di calma e la fine delle scosse di assestamento. Sono arrivate le prime misure economiche di sostegno a imprese e lavoratori, mentre continuano il lockdown e le discussioni sulla ricostruzione del centro storico di Zagabria. Il dibattito pubblico e quello privato si indirizza dunque verso il «dopo», con lo spettro che incombe di un annus horribilis che potrebbe mettere in ginocchio l’economia croata, dipendente per un quarto del suo Pil dal turismo. Fiume (Rijeka) ne ha già fatto le spese. La capitale europea della Cultura per il 2020 (con Galway in Irlanda) ha già dovuto cancellare gran parte della sua programmazione. E a inizio aprile, è arrivata la doccia fredda da parte del governo: «Vista la situazione […] non potremo rispettare gli impegni finanziari assunti con Fiume 2020». Insomma, per l’ultimo Stato membro dell’Unione europea, che in questo primo semestre dell’anno assicura per la prima volta anche la presidenza del Consiglio dell’Ue, le brutte notizie sembrano non voler finire.

C’è da sperare che almeno dal punto di vista sanitario la situazione rimanga sotto controllo e che tra qualche mese si possa uscire da questa crisi con anche qualche voce positiva in bilancio.

 

 

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