Le aule e le biblioteche dell’Università di Leiden sono ormai deserte. I pochi colleghi che ancora si avventurano per le vie della piccola città universitaria raccontano di un’atmosfera surreale: dai primi di marzo, i tanti studenti stranieri che in tempi normali affollano i caffè del centro storico sono scomparsi – molti, ho appreso, si sono imbarcati sugli ultimi aerei in grado di riportarli sani e salvi dalle famiglie, nei Paesi d’origine. Alcuni sono partiti lasciando dietro di sé ricordi e amicizie, senza aver avuto il tempo di un ultimo saluto ai compagni di corso. Di certo temevano l’imminente chiusura dei voli internazionali, oppure il rischio di vedersi costretti a settimane di quarantena una volta rientrati a casa.

Quanto a noi, siamo stati informati della chiusura dell’università solo poche ore prima che il provvedimento diventasse esecutivo. Uno alla volta, ci viene data la possibilità di entrare nell’edificio per recuperare alcuni effetti personali. I tempi sono contingentati: riesco a portare con me un paio di libri che, senza averci pensato troppo, reputo «essenziali» nelle settimane o mesi di lavoro da casa che mi attendono.

Insegno all’Università di Leiden da circa due anni. Un tempo che non mi è bastato per abituarmi del tutto alle asperità della lingua e della cultura olandese. Eppure, l’università dove lavoro è per molti aspetti un simbolo: la più antica del Paese, istituita al termine della sanguinosa guerra di liberazione dagli spagnoli, è legata indissolubilmente alla storia nazionale olandese. Qui hanno studiato i membri della famiglia reale e una manciata di primi ministri. E ogni anno si celebra la cacciata delle truppe cattoliche al termine della guerra degli ottant’anni, preludio alla dichiarazione di indipendenza e all’inizio dell’«età dell’oro» olandese.

Leiden è insomma lo specchio della storia del Paese, forse persino della sua identità. Un luogo a tratti conservatore, ma capace di accogliere (e far prosperare) alcune delle figure più rilevanti del panorama intellettuale europeo negli ultimi tre secoli. Inconsciamente, credo sia stata proprio la reputazione di luogo tollerante e cosmopolita che accompagna i Paesi Bassi una delle ragioni che mi hanno indotto a fare domanda per un posto da docente qui.

Non mi sfugge certo che le identità nazionali sono per loro natura complesse; sarebbe ingenuo dare troppa importanza a quello che è senz’altro uno stereotipo un po’ pigro (la proverbiale tolleranza degli olandesi). E tuttavia non ho mai avuto ragione di mettere in dubbio il mio pregiudizio benevolo per questo Paese. L’armamentario retorico usato per celebrare le origini della nazione (e la sua università), i monumenti, le bandiere mi parevano qualcosa di polveroso e innocuo: poco più di una giustificazione per festeggiamenti e ricorrenze.

In questi giorni, però, i miei sentimenti sono più contrastanti, meno lineari. L’arrivo della pandemia in Europa ha riportato in auge un po’ dappertutto discorsi che sembrano alimentarsi di una retorica identitaria e bellicosa. Ognuno ha la sua “guerra” da combattere contro il virus, e con la “guerra” riaffiorano frammenti di quelle mitologie che l’invenzione dei nazionalismi ha lasciato in eredità a questo continente.

Bastano pochi giorni per rendersi conto che sta accadendo anche qui. E così in Olanda, a inizio marzo, il governo si dichiara contrario a provvedimenti simili a quelli adottati fino a quel momento in Italia. A sostegno della decisione, il comitato scientifico offre un argomento che lascia disorientati: la chiusura delle scuole e le altre misure di distanziamento non sarebbero necessarie data la naturale predisposizione del popolo olandese a seguire le indicazioni delle autorità sanitarie. Il sottotesto è fin troppo chiaro: all’assenza di disciplina degli italiani, si contrappone l’ordinata osservanza delle regole da parte degli olandesi.

Pochi giorni dopo, per venire incontro alle richieste degli alleati di governo, il premier Rutte decide di adottare misure ulteriormente restrittive, non prima di aver definito il nuovo provvedimento come un «intelligent lockdown»: un assetto più morbido che non vincola i cittadini a restare a casa, ma si limita a invitarli al rispetto delle distanze. Per contrastare l’avanzata del virus ci si affida dunque alla buona volontà dei singoli; non a divieti o sanzioni. Ancora una volta si esalta la naturale inclinazione del popolo olandese al rispetto delle regole. Non solo: il governo sembra scartare il ricorso a misure che restringano la libertà di circolazione (il «lockdown» all’italiana), visto che una limitazione così radicale dei diritti mal si concilia con l’attitudine liberale delle istituzioni nei Paesi Bassi.

Da giurista dedito allo studio dei rapporti tra stato e individuo, l’argomento mi pare affascinante. D’altronde, le dinamiche di trasmissione del virus non sono ancora del tutto chiare e ciò lascia ampi margini d’azione ai decisori politici. Non sorprende – mi dico – che il governo abbia deciso di seguire la strada di un lockdown moderato, forse l’unico capace di essere digerito da una popolazione abituata a uno stato da sempre rispettoso delle libertà dei singoli.

La rivendicazione dell’«eccezionalismo» olandese mi sembra però stonare con le raccomandazioni dell’Oms. Mi chiedo: che importanza possono avere gli orientamenti culturali dei singoli Paesi di fronte a evidenze epidemiologiche che mostrano una propagazione del virus del tutto analoga anche in contesti geografici molto diversi? Poi sento le dichiarazioni di un noto virologo olandese e penso che in fondo delle differenze vi siano: in Italia e Spagna – afferma – gli anziani rivestono un ruolo «diverso» rispetto a quello che hanno in Olanda, e ciò può spiegare il differente criterio usato per l’ammissione alle terapie intensive «tra noi e loro».

Le frasi vengono riportate malamente tradotte da un giornale spagnolo, il quale afferma tranchant che gli olandesi hanno scelto di far morire i propri anziani in casa. Anche se sembra chiaro che in quelle parole qualcosa è stato travisato, colpisce il riferimento a fattori culturali (e dunque non scientifico-epidemici) per spiegare la strategia di risposta al virus. Sembra quasi che siano gli stessi responsabili locali dell’emergenza a volere cercare un confronto con noi (l’Italia «mollacciona e inetta» di cui ha scritto Mario Del Pero): ma solo per prenderne le distanze, ovvio.

Il clivage culturale torna nuovamente ad allargarsi, pochi giorni dopo, con le ormai celebri affermazioni del ministro Hoekstra. Il giovane politico centrista, autocandidatosi alla successione del rivale e alleato Rutte, sembra fare il verso alle frasi poco lusinghiere che il connazionale – ed ex presidente dell’Eurogruppo – Dijsselbloem aveva usato all’indirizzo dei Paesi dell’Europa meridionale, accusandoli di spendere i soldi «in alcol e donne». L’emergenza economica è il terreno dove più profonda è la diffidenza nei nostri confronti: e non posso fare a meno di chiedermi se anche qui la retorica dell’«eccezionalismo» abbia contribuito ad allargare fratture che, senza dubbio, erano già profonde.

Mai come oggi, l’ammirazione per questo popolo si mescola a una disillusione profonda per la nostra capacità di comprensione reciproca. Come in un litigio familiare in cui ci si rende conto di essersi spinti troppo lontano, anche noi apprendiamo di esserci conosciuti ma di non di riconoscerci più. La speranza è che ciascuno possa tornare sui suoi passi scegliendo la strada necessaria, ma anche difficile e faticosa, della riconciliazione.

 

 

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