«Siamo in guerra». L’eco di questa affermazione, più volte rimbalzata nei social, nei giornali e nelle tv in queste settimane, ha un suono particolarmente stridente a Trieste, città che con la guerra – quella vera – e le sue drammatiche conseguenze ha avuto più volte contatti ravvicinati nel secolo scorso; non solo durante le due guerre mondiali, ma anche con i conflitti sorti nei Balcani a seguito della dissoluzione della Jugoslavia.

La città fatica a sembrare un campo di battaglia: Trieste oggi è perlopiù deserta, ma il clima primaverile è lo stesso che, in un week end qualsiasi, avrebbe portato migliaia di persone a prendere una boccata d’aria salmastra in riva all’Adriatico, a passeggiare sull’Altipiano carsico, a frequentare le osmize – tradizionali rivendite dirette di vino, salumi e formaggi – nelle quali cantare Viva l’A e po’ bon, verso intraducibile di una nota canzone popolare che invita a prendere con leggerezza gli accidenti della vita.

La leggerezza, in effetti, si è riscontrata soprattutto in luoghi dove – a maggior ragione in situazioni come queste – ci si aspetterebbe di non trovarla. Come tanti altri amministratori locali di ogni colore politico, infatti, anche il presidente della Regione Fedriga e il sindaco Dipiazza hanno reagito in maniera tutt’altro che lineare all’inizio di questa emergenza sanitaria.

Il 2 marzo, per esempio, mentre era già stata disposta la chiusura di scuole e università, peraltro contestata dal sindaco («Riapriamo, altrimenti ci faremo del male da soli»), la Regione lanciava lo slogan “FVG aperto per vacanza”, garantendo lo skipass gratis a chi avrebbe soggiornato almeno due notti nei siti sciistici della Carnia e del Tarvisiano. Nelle settimane successive viceversa l’inseguimento ossessivo del consenso, più che un processo decisionale informato da pareri scientifici, ha portato lo stesso Fedriga a emanare ordinanze ancora più restrittive di quelle nazionali.

In Friuli-Venezia Giulia per ora il Covid-19 ha colpito meno che in altre aree del Nord Italia, ma a Trieste i contagiati e i morti sono superiori alla media regionale, con un’incidenza particolarmente alta nelle case di riposo. Nelle pieghe di quella che in ogni caso resta una situazione di per sé drammatica, emergono anche altre storie. Quelle di chi già prima di questa crisi sanitaria stava facendo i conti con la povertà, o più in generale con le diverse dimensioni – non solo materiali – della marginalità. O ancora, le storie di chi in questi giorni sta soffrendo più di altri la nuova routine imposta dalla quarantena: da un più banale appartamento affollato alla convivenza forzata con parenti violenti. Qualche giorno fa una signora è stata fermata – e pesantemente multata – per aver viaggiato senza meta per quattro ore su un autobus: «Non ce la facevo più a stare in casa», avrebbe detto agli agenti di polizia. Per citare il manifesto del 2018 della Barcolana, la regata velica più grande del mondo che si svolge proprio nel Golfo di Trieste ogni seconda domenica di ottobre, “siamo tutti sulla stessa barca”, ma sicuramente cabine, ponti e classi non sono tutti uguali.

Ne La nave Giorgio Gaber, all’anagrafe Gaberščik, padre triestino e famiglia istriana, aveva messo in musica la metafora scelta anni dopo da Marina Abramović per quel manifesto, mettendola in tensione e in contraddizione. Anche l’album nel quale compariva quella canzone – Far finta di essere sani – è un’altra buona traccia per capire cosa sta succedendo intorno a noi, oltre il metro di distanza che rispettiamo l’uno dall’altro.

Le inevitabili limitazioni alla libertà di movimento e il distanziamento sociale stanno infatti sicuramente già producendo effetti sulla salute psicologica di molte persone, e questa è una delle grandi questioni sottovalutate nella gestione dell’emergenza, in particolare in una città caratterizzata da un’età media molto avanzata, da un numero altissimo di famiglie mononucleari e da diffuse condizioni di solitudine. Nel capoluogo giuliano, ad esempio, nonostante un calo negli ultimi decenni, permane un tasso di suicidi doppio rispetto alla media nazionale (dati 2014). Fortunatamente, Trieste è stata e continua a essere anche un contesto di sperimentazione avanzata nell’ambito dell’intervento socio-sanitario, ad esempio tramite le Microaree, presidi nei quartieri di edilizia popolare co-promossi da Comune, Azienda Sanitaria e Ater. Chissà che la fase 2 della gestione della pandemia non possa essere l’occasione per potenziare ed estendere servizi come questi.

In città c’è anche chi si occupa di coloro i quali, per ragioni evidenti, non hanno potuto conformarsi allo slogan imperante “restate a casa”, per il semplice fatto di non aver un tetto sotto il quale ripararsi. Le associazioni Linea d’ombra e Donk, ad esempio, hanno continuato anche dopo l’esplosione della pandemia a intervenire con supporto medico, cibo e vestiario a favore dei migranti in arrivo dalla rotta balcanica. È però il caso di usare il passato, perché il 27 marzo la Protezione civile ha impedito ai volontari di proseguire con la loro attività, mentre l'Amministrazione comunale prometteva l’organizzazione di soluzioni alternative che però al momento latitano. Un nuovo centro diurno gestito dalla Caritas, infatti, non è una risposta sufficiente a fronte di un flusso migratorio che, pur essendo diminuito, non si è di fatto mai fermato.

Nel frattempo, procede anche la conta dei danni economici determinati dalla pandemia. Prima dell’arrivo del Covid-19 era la cosiddetta nuova Via della Seta – nelle ciacole al bar, nei manifesti affissi in città e nei dibattiti in Consiglio comunale – il filo conduttore che legava Trieste con l’Estremo Oriente. Il filo non si è certo rotto, e nonostante l’inevitabile contraccolpo ai traffici su scala mondiale il porto continua a lavorare, forte della garanzia delle condizioni di sicurezza dei propri lavoratori. La società di Stato cinese CCCC ha donato 10.000 mascherine all’Autorità portuale, con la quale collabora da un anno per aumentare il traffico ferroviario dello scalo giuliano; quello di CCCC è solo uno dei tanti carichi di dispositivi di protezione arrivati in città anche grazie all’impegno della comunità cinese triestina, in primis dell’associazione culturale Nihao Panda.

E, per tornare al porto, proprio in questi giorni è tornata in funzione una linea ferroviaria che collega in maniera più diretta la città con il Carso e da lì con il suo retroporto naturale, a Nord e ad Est oltre il confine. Un’eredità del vecchio Impero austro-ungarico recuperata grazie a una – bizzarra, ma forse non così tanto – coincidenza di interessi tra la Banca europea degli investimenti e il nuovo impero che si è affacciato sulla sponda orientale dell’Adriatico. Sponda lungo la quale non si vedrà più la fiamma dell’altoforno di Servola, l’impianto siderurgico che l’8 aprile ha ultimato la procedura programmata di spegnimento dell’area a caldo, dopo ben 123 anni di attività, gli ultimi dei quali particolarmente contestati e burrascosi. Un evento storico per Trieste, messo anch’esso in sordina dalla pandemia.

Si è decisamente fermato anche il flusso turistico che negli ultimi anni aveva innescato una corsa frenetica per accaparrarsi immobili di pregio da trasformare in alberghi di alta fascia. Gli hotel inaugurati, quelli in via di apertura e gli edifici del centro città oggetto di trattativa non si contano sulle dita di due mani, e oggi il loro destino potrebbe essere appeso all’evoluzione della pandemia. Così come sono centinaia gli appartamenti riconvertiti a b&b e affittacamere desolatamente vuoti; alcuni dei quali sono stati messi gratuitamente a disposizione del personale sanitario arrivato in città per fronteggiare l’emergenza. Il Coronavirus ha messo in luce l’assoluta fragilità di un settore economico, quello turistico, che può subire fluttuazioni significative lasciando da un giorno all’altro senza lavoro moltissime persone, spesso già impiegate in forma intermittente o precaria: sono 4.000 i posti a rischio in città, secondo le stime dei rappresentanti delle categorie interessate. Questa situazione eccezionale potrebbe avere il pregio di imporre una riflessione seria sull’effettiva solidità della “rinascita economica” che stava investendo la città.

È stato invece per ora rinviato solo di qualche mese Esof, il forum europeo sulla scienza che Trieste avrebbe dovuto ospitare a luglio in un’area del Porto Vecchio – altra eredità, questa ancora irrisolta, del passato emporiale della città. Il carico di aspettative che gravitava intorno all’evento – inclusa la speranza che non si limitasse a essere, per l’appunto, un grande evento isolato dal contesto nel quale si sarebbe svolto – non si è certo disperso. Anche perché il tema scelto dagli organizzatori, Freedom for science, science for freedom, risulta ancora più attuale alla luce della pandemia: la comunità scientifica, che a Trieste ha un peso numerico consistente ma viene spesso percepita come isolata dal resto della società, dovrà sicuramente giocare un ruolo determinante nel ripensare la nostra vita in comune in un momento in cui tornare alla normalità sembra così impossibile, forse proprio perché era la normalità a essere il problema.

 

 

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