Brescia e la sua provincia sono state letteralmente travolte dall'epidemia del Covid-19 per 5 settimane. L'andamento del virus, anche dal punto di vista psicologico, rispecchia ciò che è accaduto in altre province italiane e per certi versi, almeno fino al week-end dell'8 marzo, ha ricalcato quell'approccio di scetticismo che ha caratterizzato anche altre realtà europee. La città capoluogo e la sua provincia hanno invocato maggiore attenzione e sostegno per fronteggiare una situazione tragica soprattutto tra metà marzo e la prima settimana di aprile. La tensione sanitaria si è subito tradotta in tensione politica sia con la Regione Lombardia sia con il governo.

Solo studi scientifici futuri potranno far luce sulle dinamiche del contagio. Ma per raccontare del Coronavirus nel Bresciano non si può non partire dalla porzione sud-occidentale della provincia, che confina con Cremona e Crema. Da lì sarebbe arrivato il contagio, tanto che secondo molti abitanti della zona, in particolare quelli di Orzinuovi (12mila abitanti, 190 contagiati e 54 "morti ufficiali"), il punto del contagio sarebbe stato il mercato del fieno. Nella Bassa Bresciana occidentale sono molti gli operatori che arrivano da Codogno e dalla provincia di Lodi, che dista poco meno di 25 chilometri, per trasportare proprio il fieno. Un'ipotesi, questa, presa in considerazione e confermata in qualche modo anche dai sanitari del Sacco di Milano.

Il Covid-19 ha iniziato a uccidere nei paesi della Bassa e poi si è allargato a tutta la provincia, mentre a Brescia, come a Milano e Bergamo, nella prima settimana di marzo la reazione è stata quella dello slogan “la città non si ferma”. Quindi mercato del sabato mattina per le vie del centro storico, bar e ristoranti aperti, anche se con la limitazione della distanza di sicurezza tra i clienti, e addirittura la presentazione ufficiale dell'edizione 2020 della Mille Miglia, che si sarebbe dovuta correre a maggio (ora rinviata a ottobre). Nelle settimane successive questo atteggiamento un po' lassista è stato pagato a caro prezzo: secondo alcuni infettivologi, i ritrovi del sabato sera tra giovani sono stono tradotti in anziani infettati in famiglia.

Così poi, dopo la sindrome da orchestra del Titanic, ci si è fermati davvero. Per forza. Da un lato per l'oggettiva situazione di emergenza, con la crescita di vittime e positivi al Covid-19, e dall'altro per le prime misure stringenti del governo.

Con il passare dei giorni di marzo, il bollettino quotidiano è peggiorato in maniera esponenziale. Dal primo morto ufficiale del 29 febbraio, a ridosso di Pasqua i decessi hanno superato ampiamente quota 1.800. Si tratta dei numeri ufficiali (i casi conclamati di Covid-19), ma le prime stime indicano che nel marzo di quest'anno i morti sono quadruplicati rispetto allo stesso mese dell'anno scorso. Con gli ospedali e il personale sanitario allo stremo, la necessità di materiale medico (dalle mascherine ai respiratori) e numeri simili a quelli bergamaschi (i contagiati sono oltre 10 mila), Brescia ha però affrontato l'emergenza purtroppo senza il clamore di Bergamo e l'iperattenzione di Milano. Con il risultato che la città inizialmente non era stata inserita nelle pieghe del Cura Italia per sospensione dell'Iva per le aziende, nonostante, oltre al problema sanitario, vi sia obiettivamente una questione economica da tenere in considerazione, con gran parte delle fabbriche, grandi e piccole, a oggi ferme.

Proprio l'aspetto industriale merita un discorso a parte: l'effetto Covid-19 sull'economia bresciana vale le 5.000 aziende che hanno chiesto la cassa integrazione per far fronte all'emergenza, una misura che coinvolge quasi 50 mila lavoratori metalmeccanici (oltre ai dipendenti del tessile, del legno, della chimica e del turismo), mentre quelle aperte perché appartenenti a settori strategici sono poco meno di 4.500 (solo l'11% di tutte quelle lombarde). Una prima stima indica una perdita di 5 miliardi per il solo mese di marzo, con eventuali ripercussioni ulteriori se le chiusure dovessero protrarsi oltre aprile: è per questa ragione che gli industriali bresciani e lombardi spingono per una riapertura rapida, seppur in sicurezza. Certo, la configurazione della produzione industriale bresciana, che è prettamente manifatturiera e soprattutto siderurgica e meccanica, spiega perché gran parte delle aziende bresciane hanno dovuto fermare la produzione. E in particolare i siderurgici guardano con preoccupazione all'approccio meno restrittivo tenuto dai competitor europei, come Francia e Germania, che continuano a produrre, con grossi interrogativi sulle fette di mercato a disposizione una volta che la produzione bresciana (e italiana) ripartirà.

Tornando alla questione dell'immagine e della percezione distopica da parte del governo centrale sul caso Brescia, le istituzioni cittadine, a partire da metà marzo, hanno cercato in vari modi di richiamare l'attenzione sulla situazione emergenziale che vive una provincia di oltre un milione e 200 mila abitanti: con il risultato che, dopo il mancato arrivo del contingente sanitario cubano (che è approdato a Crema) e di quello russo, in città sono arrivati 30 medici e paramedici albanesi (dovrebbero essere a disposizione per un mese) e una quindicina di polacchi. Varsavia ha infatti inviato 4 medici di terapia intensiva, 9 paramedici e tre infermieri; ma si sono fermati una settimana: una presenza poco più che simbolica che a Pasqua sarà già conclusa.

La società civile ha dimostrato una reattività non comune: start-up hanno realizzato respiratori e mascherine con le stampanti 3d, ma soprattutto sono state realizzate poderose raccolte fondi per l'acquisto di materiale sanitario ad ampio spettro, a partire da quella promossa della Fondazione della Comunità Bresciana e dal “Giornale di Brescia”, che a inizio aprile aveva già un budget di 16 milioni di euro: un'operazione provvidenziale che di fatto si è sostituita alle mancanze delle istituzioni. Intanto in città si è ragionato sull'ipotesi di un ospedale da campo, sulla falsa riga di quello bergamasco realizzato con la collaborazione degli alpini e di quello milanese allestito in Fiera. Dopo varie ipotesi, si è scelto su uno spazio specifico all'Ospedale Civile (ma molto dipenderà dall'andamento dei contagi nelle prossime settimane), mentre sono state individuate altre strutture da destinare per l'isolamento post-ricovero.

La tensione politica che è montata marca una volta di più la distanza tra le municipalità a guida centrosinistra nei confronti della Regione a trazione centrodestra e troppo milanocentrica: dopo un mese di pace armata dettata dall'emergenza, i sindaci del centrosinistra di Brescia, Bergamo, Milano, Cremona, Lecco e Mantova chiedono al Pirellone interventi sul territorio sul modello veneto o su quello emiliano, che va da un maggior numero di tamponi a maggiori garanzie per ospiti e personale delle Rsa.

Proprio nelle case di riposo, anche in provincia di Brescia, si è assistito a una vera e propria strage di ospiti ultraottantenni, falcidiati dal Coronavirus. E ancora nella tragica conta quotidiana emergono tante piccole storie di paese: come i gruppi di amici uniti dalla passione del gioco delle carte tutti deceduti per il Covid-19, o coppie di anziani morti lo stesso giorno dopo una vita trascorsa insieme, o ancora le venti suore operaie che vivono in un convento alle porte della città tutte contagiate, e metà delle quali uccise dal virus. Oltre ai numeri della sanità e dell'economia, quindi, i 40 giorni più difficili per Brescia hanno portato con loro tante piccole storie di lutti quotidiani. Se da un lato si vuole reagire come comunità, dall'altro Brescia spera in una progressiva normalizzazione nelle prossime settimane, con un calo dei contagi e dei decessi e la riapertura progressiva delle sue attività.

 

 

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