La storia di Napoli è segnata dalle pandemie: di peste in età moderna, di colera in età contemporanea. Nel corso del XIX secolo si ebbero ben sei infezioni di colera: la più devastante, nel 1884/85, con più di 7.000 vittime, ebbe come conseguenza la radicale trasformazione dell’impianto urbano con il risanamento dell’insalubre "città bassa". Quel colera contribuì all’emersione della Questione meridionale nel giovane Regno d’Italia, trasformando Napoli in città simbolo del sottosviluppo. Colera che si ripresentò nel 1911 e, ancora, nel 1973, quando la città fu il teatro dell’ultima epidemia del Secolo breve in Europa occidentale. Quello partenopeo, dunque, è un tessuto urbano che sembra possedere degli anticorpi storici alle conseguenze complesse delle epidemie, che hanno permesso alla città, in momenti diversi, di risollevarsi dal fondo della storia, dal grado zero dei disastri antropici. Tuttavia, come mai nel passato, il lockdown del 9 marzo 2020 ha aggredito e messo in crisi tanto un tessuto economico traballante e incerto, quanto le strutture e le pratiche radicate nella società partenopea.

È il silenzio la conseguenza più spaesante dell’attraversare, in questi giorni di distanziamento sociale, i quartieri di Napoli. Un silenzio che rende spettrale la luce del sole di primavera. Dal centro antico alle periferie di edilizia economica e popolare è scomparso il brusio di fondo che caratterizzava il quotidiano prima della chiusura. Negli ultimi anni il suono della città si era arricchito di dialetti settentrionali e idiomi stranieri arrivati a traino del boom turistico. Gli arrivi e le partenze continue hanno stimolato la nascita di una infrastruttura dell’accoglienza e dell’intrattenimento di dimensioni notevoli che ha trasformato rapidamente la città.

Uno degli effetti principali della turistificazione di Napoli è stato, senza dubbio, la riconversione di abitazioni e negozi in B&B e locali per la ristorazione. Decine di appartamenti sono stati liberati dai precedenti inquilini, ristrutturati e suddivisi in stanze con bagno per una permanenza veloce e cangiante. Tutta la città è diventata una sorta di albergo diffuso: dai bassi offerti come abitazione tipica napoletana, alle ville vista mare con discesa privata. L’improvvisa interruzione del flusso turistico ha svuotato i palazzi. In parecchi condominî del centro antico interi piani sono, oramai, vuoti. Gli appartamenti, ancora abitati dagli stanziali, sono distanziati tra loro dai B&B disabitati. Il lockdown ha reso evidente il diradarsi della prossimità sociale che, per secoli, ha caratterizzato l’abitare nei quartieri popolari della città. I decumani turisticizzati sono vuoti tanto di turisti quanto di abitanti. I residenti rimasti nelle zone maggiormente interessate dalla turistificazione sono costretti ad approvvigionarsi in quartieri limitrofi, dal momento che empori e salumerie sono diventati pizzerie, trattorie tipiche, rivendite di souvenir: oggi tutti con le serrande abbassate. Eppure, nonostante gli effetti del turismo di massa, il centro storico di Napoli continua a ospitare isole di abitato popolare.

E per provare a capire come la popolazione meno agiata e precaria sta affrontando gli effetti della clausura, è necessario entrare pe’ dint’ e’ viche addò nun trase o’ mare (dentro i vicoli dove non entra il mare), dal titolo di una poesia in musica degli Almamegretta del 1994. Si tratta di budelli urbani dove si continua a vivere in modo insalubre e sovraffollato, il sole continua a non entrare e spadroneggiano gli afrori del quotidiano. Strade dove il proletariato marginale locale convive con i migranti in bassi e appartamenti in cui il “restiamo a casa” diventa un complicato esercizio di irrobustimento del corpo e dello spirito. Parlo di soluzioni abitative e non di case, in cui generalmente solo si dorme e la vita è all’esterno. Una o due stanze in cui si sovrappongono le necessità diverse che esprime un nucleo familiare di quattro o più persone. La musica ad alto volume dei nipoti diventa un martellio assillante per il nonno allettato in cucina. I tubi del gabinetto distillano gocce di umidità attraverso le pareti di cartongesso che separano i servizi igienici dal resto della “casa”.

Gli appelli scomposti del #restiamoacasa fatti da figure, più o meno pubbliche, si rivelano inopportuni se non molesti quando la casa è un garage adattato ad abitazione senza finestre né pavimenti. Restano a casa bambini privati di ogni sfogo, anziani non autonomi, disabili, persone afflitte da patologie croniche, pazienti oncologici, sofferenti psichici, ragazze madri, adulti agli arresti domiciliari o adolescenti cresciuti troppo in fretta, come Ugo Russo, freddato, poco prima del lockdown, da un carabiniere fuori servizio per un tentativo di rapina.

Non si tratta di un Popolo degli abissi o della plebe del Ventre di Napoli, la pandemia di Covid-19 ha fatto emergere la nebulosa indistinta di lavoratrici e lavoratori sommersi. Operai invisibili del terziario, dell’edilizia, della piccola impresa. Collaboratrici domestiche, commessi, sarti, addetti alle pulizie, camerieri, cuochi, baristi, garzoni, autisti, trasportatori, manodopera del turismo rigorosamente in nero, privi di contratti e garanzie, spesso formalmente disoccupati o ricettori di misure contro la povertà. Oltre agli ambulanti, i micro-commercianti e i muratori di cantieri “inesistenti”. Che se ne voglia dire, a Napoli e nel Mezzogiorno si lavora molto e male. Il lockdown ha cancellato migliaia di posti di lavoro invisibili. Adulti senza salario ma con affitti e bollette da pagare, così come bambini e ragazzi senza scuole e privi degli strumenti minimi per usufruire della didattica telematica. La pandemia di Covid-19 manifesta, alle latitudini partenopee, un’ulteriore conseguenza, non sanitaria ma economica: la diffusione a macchia d’olio del prestito a usura, che soffoca tanto le imprese quanto le semplici famiglie, fenomeno che nessuna terapia intensiva riuscirà ad alleviare, nel breve periodo. La clausura forzata ha infranto i freni inibitori che nascondevano l’insostenibile precarietà del quotidiano. Il lockdown ha lacerato il velo di vergogna che occultava la povertà diffusa, ha costretto decine di persone a rendere evidente la propria condizione di indigenza.

Eppure, nel disastro antropico, si manifestano quegli anticorpi sociali sotto forma della miriade di pratiche di mutuo appoggio e soccorso. Fin dal 9 marzo 2020 sono comparse iniziative a sostegno alla popolazione: gruppi autorganizzati che hanno iniziato a distribuire gratuitamente alimentari, pannolini, detergenti e altri generi di prima necessità. Attività non caritatevoli ma, al contrario, indirizzate al contenimento del fatalismo, quindi coadiuvate da sportelli dedicati alle questioni relative al sostegno al reddito, al caro affitti, alla violenza domestica, al sostegno psicologico e sanitario.

Nello spicchio di città compreso tra Montesanto e Montecalvario, che ho avuto modo di osservare da vicino partecipando direttamente alla brigata di mutuo soccorso dello spazio sociale Lo Sgarrupato di Vico Lepre ai Ventaglieri, in poco più di tre settimane sono state distribuite spese sociali a più di 130 famiglie, raggiunte attraverso volantini e reti sociali. Più di 50 militanti e volontari hanno dato vita a una filiera spontanea di recupero e distribuzione di generi alimentari e di base, sostenuta da donazioni private e dalla solidarietà di commercianti della zona, che hanno messo a disposizione prodotti a prezzi assai calmierati. Il lavorio solidale viene animato da donne e uomini di estrazione sociale, politica e culturale eterogenea: agiscono, spalla a spalla, il militante dei gruppi di disoccupati organizzati e il cantante lirico del San Carlo, l’attivista radicale e il sarto rimasto senza lavoro (nero) abitante del quartiere. Una configurazione collettiva complessa che richiama analogie e continuità con quanto accaduto durante e dopo l’epidemia di colera del 1973.

La gemmazione di decine di attività di base ha costretto il comune a organizzare un servizio – claudicante e approssimativo – di approvvigionamento alimentare e una distribuzione di buoni alimentari. È da sottolineare che il fenomeno delle brigate di mutuo soccorso ha preso corpo soltanto grazie a donazioni private o piattaforme dedicate di raccolta fondi, in assenza di alcun aiuto istituzionale. Condizione che mette a nudo l’inadeguatezza della classe dirigente locale, così come l’insipienza del ceto riflessivo, a leggere la complessità sociale ed elaborare proposte concrete per intervenire nell’emergenza.

Sulla stampa nazionale e locale, così come nel flusso opinabile dei commenti delle reti sociali, si è insistito sulla presenza in strada di persone nei quartieri popolari. La (presunta) folla è stata usata come manifestazione di indisciplina popolare e assunta a ennesimo stigma folkloristico della metropoli partenopea. Al contrario, il lockdown è stato accettato con un’insolita compostezza considerando, anche, l’intelaiatura urbanistica dei quartieri popolari, fatta di vicoli e dalla natura del tessuto commerciale articolato in piccole rivendite concentrate in strade e rioni specifici. Condizioni che impediscono, di fatto, il rigido mantenimento delle distanze di sicurezza anticontagio. È chiaro che, come altrove, si sono manifestate storture e comportamenti irresponsabili, tuttavia in misura decisamente contenuta – se non per assembramenti inevitabili di migranti e richiedenti asilo ospitati in fatiscenti strutture alberghiere, dove è davvero impossibile restare sigillati all'interno. Ma tant’è. Quando si pontifica partendo da una prospettiva agiata e genuflessa sui propri privilegi, le parole non possono che essere vacue.

Che cosa riaprirà prima? Il laboratorio di sartoria invisibile o l’insieme di servizi domestici rigorosamente in nero? Il cantiere edile con operai a giornata oppure i driver della logistica invisibile? La pandemia terminerà e lascerà macerie sociali. Sarà impossibile ripristinare l’economia turistica dal punto in cui si è interrotta. Si dovrà impedire il ritorno del meccanismo malato del lavoro nero e sommerso. Il “dopo” dovrà essere l’opportunità per sanare le disfunzioni di un capitalismo selvaggio e deregolamentato, fino a oggi mascherato dietro il paravento dell’arretratezza. A lockdown concluso si assisterà, forse inevitabilmente, a un ritorno di fenomeni di microcriminalità e illegalità diffusa, che compenseranno il deserto delle attività produttive sommerse su cui, in modo ipocrita, si reggeva l’equilibrio sociale della Napoli meta del turismo internazionale e avanguardia del laissez faire amministrativo.

Nonostante tutto, il lockdown ha regalato un inimmaginabile miglioramento delle acque del mare e della qualità dell’aria cittadina, due pilastri su cui iniziare a ricostruire.

 

 

 

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