Nelle telefonate con gli amici lontani spesso lo faccio notare: girando per le strade non è che la situazione, in questi giorni, sia così drammaticamente diversa dal solito. Mi sia consentita questa iperbole per cercare di descrivere la vita in Molise al tempo del Coronavirus. Gran parte di questa regione soffre di una malattia che, fatte le debite proporzioni e con tutto il rispetto per il dramma di chi la sta vivendo, di chi ha perso i propri cari e di chi la sta combattendo in prima linea, è forse più grave della pandemia in atto: lo spopolamento.

Lo ha in qualche modo preconizzato uno studio dello Svimez, ipotizzando nel 2060 una popolazione in contrazione di circa ottantamila unità. Ottantamila su trecentomila. Insieme con l’invecchiamento, una prospettiva drammatica. I giovani, la parte dinamica, emigrano, al Nord o all’estero. E il Molise invecchia. Paesi desertificati, negozi e aziende chiuse, capannoni dismessi e in disuso, locali con cartelli vendesi o affittasi a ogni passo, l’erba che nasconde parte dei binari ferroviari: queste sono solo alcune istantanee che ritraggono la cruda realtà di gran parte della regione più piccola d'Italia (dopo la Valle d’Aosta).

Certo, nella zona della costa adriatica la situazione è sensibilmente diversa: lo stabilimento ex Fiat, uno dei più produttivi d’Italia tra quelli del gruppo automobilistico disseminati lungo tutta la penisola, l’autostrada, il mare, il turismo. Ma il Molise non è, purtroppo, solo Termoli e il suo entroterra. È una terra di trecentomila anime, suddivise in due province e ben centotrentasei comuni, per lo più di piccole dimensioni.

Una terra solo lambita dall’epidemia. Pochi casi, infatti, in valori assoluti; tanti, però, in rapporto alla popolazione residente, concentrati in alcuni centri, riferibili ad altrettanti focolai accesi in prossimità di strutture sanitarie e residenze per anziani. Nemmeno nelle modalità della diffusione del contagio il Molise è riuscito a essere originale.

La sanità, dunque, croce e delizia dei molisani: ridimensionato il sogno delle classi dirigenti del dopoguerra di fare del Molise un luogo di “centri di eccellenza”, sfruttando la posizione geografica felice e la relativa prossimità ai grandi centri urbani del Centro Sud (Roma, Napoli, Pescara), restano tre ospedali pubblici, due strutture private accreditate e tre nosocomi declassati a ospedali di comunità. E, soprattutto, resta un deficit spaventoso, tanto pesante da indurre il governo nazionale – dodici anni fa - a commissariare la sanità con la speranza di applicare finalmente un serio piano di rientro.

Croce e delizia, si diceva. Perché quando la minaccia del Covid-19 si è affacciata in Italia, la maggiore preoccupazione dei molisani riguardava la tenuta del sistema sanitario regionale, falcidiato da anni di tagli e razionalizzazioni: quanti i posti disponibili in terapia intensiva nel settore pubblico? Se necessario, come risponderanno i privati accreditati? E qual è la situazione nella diverse Rsa disseminate sul territorio?

Non è un caso se le immagini simbolo di questa emergenza resteranno, probabilmente, due: una è quella delle tende allestite per il pre-triage presso l’ospedale Cardarelli di Campobasso crollate sotto l’improvvisa, tardiva nevicata di fine marzo; l’altra, la colonna di autoambulanze che, a fine giornata, trasporta d’urgenza (qualcuno osa dire di soppiatto) gli ospiti di una Rsa agnonese (paese in provincia di Isernia, famoso per la fabbrica millenaria di campane), tutti positivi asintomatici, presso l’ospedale di Venafro, ormai dismesso. Il gestore della residenza aveva, infatti, riconsegnato le chiavi. Sulla vicende sta cercando di fare luce la magistratura.

Per il resto i molisani hanno risposto all’emergenza in maniera tutto sommato ordinata: nessun assalto ai supermercati nelle ore immediatamente successive al varo delle prime misure anti-epidemia, poche e organizzate le file davanti ai negozi, sparute auto in giro per le città, nessun colpo di testa. Rispecchiando appieno la propria indole, i molisani si sono anche dati da fare: una piccola ma dinamica azienda tessile, nata dalla ceneri di un’esperienza industriale che per anni ha dettato legge nel settore nazionale e internazionale della moda, ha immediatamente riconvertito la produzione buttandosi a capofitto a cucire mascherine protettive, vendute a prezzi equi e bloccati.

Un’altra azienda, meccanica, ha immediatamente messo in produzione, grazie all’impiego di stampanti 3D, i raccordi per trasformare comuni maschere da snorkeling in respiratori per terapia sub-intensiva, donando il prodotto alle strutture sanitarie. E di esempi virtuosi ce ne sono altri. Il Molise ha dunque cercato di fare la sua parte, sia pure dalla periferia, in un momento drammatico. Con l’ansia e la preoccupazione che l’epidemia di Covid-19 sia il definitivo colpo di grazia e di non riuscire a rialzarsi. Ma, in fondo, con la speranza che dalle ceneri si possa rinascere. In un modo o nell’altro.

 

 

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