Un terreno alluvionale e instabile: «Chilometri di sabbie e ghiaie con sotto montagne in movimento», ha titolato un mensile scientifico per spiegare il terremoto del 2012 e quello ancor più devastante dell’epoca di Tasso, in seguito al quale la città risultò a lungo spopolata. Alluvionale e instabile si potrebbe definire anche l’economia ferrarese nei secoli: dalle bonifiche rinascimentali fino alla recente crisi economica che ha ferito una città in lenta ma stabile espansione dagli anni Ottanta.

Sono appena iniziati il restauro e la «messa in sicurezza» post sisma del Palazzo dei Diamanti, luogo simbolo delle mostre d’arte ferraresi, l’ultima delle quali, bellissima e frequentata da più di 200.000 visitatori, è stata dedicata all’Orlando Furioso. Gli investimenti nel 2017 di Versalis per un nuovo impianto di gomme speciali e le bonifiche del sottosuolo dell’area industriale (50 nuovi addetti) dimostrano un rinnovato interesse dell’Eni per l’insediamento petrolchimico. Due atti che possono marcare simbolicamente una fase di ripartenza della città.

Un viaggiatore inglese dell’Ottocento scriveva: «Strana gente questi ferraresi, gli fai domande su Tasso e ti rispondono su Ariosto…». Una «stranezza» rimasta fino a oggi: amiamo la follia immaginata di Orlando e rimuoviamo quella più clinica di Torquato. Siamo passati dal Rinascimento visionario al Novecento realistico e metafisico, tra terremoti e declini economici, senza frequentare il romanticismo di Lord Byron, che si fece chiudere nella cella del Tasso per respirarne l’aria malata. Forse perché non c’era nulla di romantico nella Ferrara deserta, depredata dai papi e povera, frequentata dal Grand Tour. Oggi non c’è più quel turismo elitario e nemmeno c’è traccia del successivo oblio. Gli alberghi, dopo qualche anno difficile, sono di nuovo pieni di visitatori interessati a scoprire le bellezze di una città con due riconoscimenti World Heritage dell’Unesco.

Quando, anni fa, si progettava un percorso turistico culturale integrato, del tutto inedito in Italia, che unisse Mantova, Ferrara e Ravenna con quattro nuovi treni, sembrò scontato dedicarli, in ordine di orario, a Virgilio e Dante il mattino e ad Ariosto e Tasso la sera. Tanto per dare il segno al viaggiatore di oggi che in questi 150 chilometri di terreno padano alluvionale (proprio il cratere sismico del 2012) si è aggirata gran parte della «follia» creativa nazionale degli ultimi duemila anni. Quel percorso non si costruì e il turismo in città oggi continua a crescere grazie a un vettore meno culturale ma più moderno come Ryanair, che atterra e decolla da Bologna.

La scelta di investire sulla «città d’arte e di cultura» fu presa dalle amministrazioni comunali degli ultimi vent’anni e oggi è confermata attraverso la riqualificazione della cinta muraria e dei palazzi storici, la promozione di eventi culturali, gli spettacoli teatrali e di musica, con la partecipazione non occasionale di artisti come Abbado, Harding e la Mahler Chamber Orchestra al Teatro Comunale (ora, non a caso, teatro Claudio Abbado), oltre che con la creazione di momenti «di musica di strada», come il Ferrara Buskers Festival, o di riflessione pubblica con la Festa di Internazionale, che porta in città migliaia di giovani il primo weekend di ottobre. Fu una scelta contro corrente ma felice, che arricchiva la tradizionale vocazione agricola e industriale e forzava il conservatorismo dei ceti commercianti urbani a innovare e non limitarsi a quella rendita di posizione senza investimenti che guarda al solo mercato domestico. Al contrario, bisognava restaurare e riempire di eventi il favoloso palcoscenico della «prima città moderna d’Europa», come l’aveva battezzata Bruno Zevi. Altrimenti Ferrara sarebbe rimasta solo la cupa cittadina di provincia soggetta al giogo austro-pontificio (con i suoi martiri risorgimentali) descritta da Bacchelli e quella di «deserta bellezza» del secolo successivo, cantata da D’Annunzio, dipinta da De Chirico e filmata da Antonioni e Visconti.

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Era, non troppo casualmente, il 1492 quando Ercole decise di allargare gli orizzonti e raddoppiare gli spazi urbani della città a Nord del Castello verso le delizie di Mirasole e Belfiore e affidarne la progettazione alla penna visionaria e geometrica di Biagio Rossetti, che per l’occasione inventò il mestiere dell’urbanista tracciando ex novo un cardo e un decumano in una delle pochissime città d’Italia a non avere origini romane. La Piazza Nuova, asimmetrica rispetto al crocicchio rossettiano, avrebbe dovuto diventare il simbolo della sua impresa. In quella piazza, Ercole avrebbe voluto collocare se stesso a cavallo – ci dicono i cronisti dell’epoca – in cima a due grandi colonne decorate con foglie di quercia. In modo che fosse chiaro a tutti che anche a Ferrara il futuro si andava delineando oltre le colonne d’Ercole e che la spinta propulsiva (libera e caotica) dei comuni medioevali si era ormai esaurita. In quella piazza, all’ombra della statua di Ariosto, che si erge sull’unica colonna rimasta, oggi si corre un partecipato Palio che si vorrebbe «il più antico del mondo» ma certo è un palio rinascimentale, al contrario di molti altri.

Il pregio del cattolico duca Ercole d’Este fu anche quello di invitare a Ferrara gli ebrei cacciati da sua «maestà cattolica» Isabella di Spagna. E far nascere così le prime attività finanziarie e le prime industrie tessili. Quella convivenza, come è noto, declinò irrevocabilmente nel secolo successivo sotto il dominio pontificio, che costruì il ghetto attorno alle «Tre sinagoghe», obbligando gli ebrei ferraresi alla messa forzata della domenica mattina a San Crispino, e finì tragicamente nella «fascistissima Ferrara» delle stragi e delle deportazioni raccontate da Bassani e Vancini.

Grazie a investimenti pubblici, negli anni dell’autarchia è nato il polo chimico ferrarese con l’«industria della gomma sintetica», che divenne Montecatini, Montedison, Enimont e ora vive grazie alla presenza di diverse imprese multinazionali e alle capacità di ricerca sulla diversificazione dei polimeri avviata da Natta e Ziegler negli anni Sessanta con la scoperta del polipropilene. Sempre nel ventennio è nato un polo industriale a Tresigallo, la «città corporativa» a soli 10 chilometri da Ferrara ricostruita per volere di Edmondo Rossoni (anarchico, sindacalista e poi capo dei sindacati fascisti e, dal ’35 al ’39, ministro dell’Agricoltura e foreste). In quegli stabili avranno sede nei decenni successivi imprese nazionali e multinazionali di rilievo come la Lombardi e la Palmolive. Oggi è uno dei luoghi di produzione del Gruppo Mazzoni che, assieme all’azienda Salvi, rappresenta la punta di diamante del settore italiano florovivaistico e dell’ortofrutta di esportazione.

A conferma che i secoli possono essere un tempo breve per la storia economica, non va poi tralasciata la vicenda di Cento, crocicchio industriale tra Ferrara, Bologna e Modena, che arriva a Ferrara come dote nuziale di Lucrezia Borgia nel 1502, ma a cui non sono bastati cinque secoli per farla diventare ferrarese, né nell’economia né nella cultura e tantomeno nell’identità delle persone. Cento è ancora oggi un polo omogeneo e integrato al sistema economico della via Emilia, sia per quanto riguarda l’industria (grandi e medie aziende) sia per l’agricoltura a efficiente gestione famigliare. Anche la ripresa di investimenti della VM di Cento (Fca) conferma che le attività economiche, dove c’è ricerca e innovazione, possono competere con successo nei mercati globali anche oltre la crisi.

Negli anni Settanta, l’interpretazione dominante e trasversale della politica locale era che l’economia ferrarese fosse una sorta di «Mezzogiorno dell’Emilia», bisognosa da sempre di assistenza nazionale pubblica perché incapace di sviluppo autonomo. Per fortuna la realtà era diversa, malgrado le differenze storiche con le altre città emiliane dovute a una minore presenza di industrie di media dimensione, capaci di competere sui mercati esteri, e al peso marginale della mezzadria rispetto al bracciantato, che ha reso più difficile la nascita di un’agricoltura di medie dimensioni e lo sviluppo delle attività commerciali e artigianali connesse. La scelta delle amministrazioni successive è stata quella di favorire la crescita economica in tutti i settori, evitando specializzazioni troppo marcate: né solo petrolchimica, né solo partecipazioni statali, né solo agricoltura. E nemmeno solo turismo, seppure di qualità. Questo mix di crescita del reddito e dell’occupazione, favorito da una innovazione dei servizi pubblici e del Welfare (a vantaggio di una popolazione sempre più anziana), dal rilancio dell’università (fondata dagli Este nel 1391, cento anni prima di Ercole), ha retto fino alla crisi e al terremoto. Nella stagnazione conseguente, quel che in parte ha ceduto è stato il tessuto economico legato a un mercato esclusivamente interno e locale, incapace per dimensione e competenze di misurarsi con una domanda e una competizione ben più vaste: molte imprese artigianali e industriali, molte attività commerciali e persino la Cassa di Risparmio di Ferrara, la banca locale, fallita per investimenti sbagliati, crediti non esigibili, uso disinvolto del risparmio. Ma, bisogna ben dire, anche per le lentezze e le contraddizioni con cui la Banca centrale è intervenuta. È di inizio estate 2017 la notizia che Carife è stata acquistata da Banca Popolare dell’Emilia-Romagna e che il risanamento ferrarese può riprendere anche in campo finanziario. Più solida, meritoriamente, la situazione della Cassa di Risparmio di Cento.

Ma torniamo a Ercole. Era tanto grande la Ferrara nuova voluta dal Duca che ci vollero molti secoli per riempire di abitazioni e chiese lo spazio entro le mura. E ancora oggi, tra la Certosa monumentale e il vastissimo Cimitero degli ebrei, sono presenti ampi spazi verdi, resti degli orti di allora. Segno che anche la rendita immobiliare urbana finì con la fine del ducato di Ferrara e l’arrivo del Legato pontificio, assieme alle attività economiche agricole e industriali.

La rendita urbana è tornata nel Novecento, durante il ventennio fascista e nel dopoguerra, e c’è ancora. Tuttavia un succedersi ben impostato di piani regolatori comunali, dal 1975, ne ha limitato il peso, al contrario di quanto accaduto in altre città emiliane. Ferrara si è espansa in aree periferiche ma ha saputo conservare pressoché intatto il suo centro storico medievale e la sua espansione urbanistica rinascimentale anche grazie allo scarso sviluppo economico degli anni Settanta. Negli anni Novanta la speculazione edilizia si è fatta sentire anche qui grazie, spiace dirlo, a un mercato pubblico e privato monopolizzato dalla cooperazione e favorito dagli enti di governo locale. Questa fase ha lasciato numerose cattedrali nel deserto di cui è in corso la difficile ma necessaria riconversione.

I terremoti e le crisi danneggiano l’hardware civile-industriale e storico-architettonico ma anche il software culturale diffuso delle città e dei paesi che colpiscono. Ed è più semplice ricostruire il primo che restaurare il secondo. Sia nel campo dei grandi rischi, sia in quello dei cicli economici sarebbero necessarie politiche nazionali di prevenzione e manutenzione che aiutassero le comunità locali, più che i generosi interventi nell’emergenza. Entrambe mancano, e questo è un limite del Paese che pesa, seppur diversamente, in tutti i suoi territori, producendo fragilità demografiche ed economiche. Ciò è particolarmente vero nelle aree interne e in quelle al margine delle direttrici di sviluppo. Ferrara nei secoli ha inventato e prodotto cultura materiale e immateriale, non solo per sé. Ora non deve fermarsi per colpa delle montagne in movimento dal basso e la mancanza di politiche adeguate dall’alto. La scelta della qualità invece che quella della specializzazione può essere ancora una volta la traccia di una sua maggiore integrazione con le aree di maggiore crescita. Ne è prova l’apertura dello stabilimento Berluti (del gruppo Louis Vuitton) con produzione di scarpe e borse di fascia alta che recupera le capacità artigiane esistenti e occupa 300 nuovi dipendenti.

Oggi, in Piazza Ariostea, sul monumento ad alti gradoni di marmo fa bella mostra di sé la scritta restaurata «A Ludovico Ariosto, la Patria». Cosa abbia davvero dato la patria a Ludovico Ariosto non è chiarissimo. Qualche celebrazione e riedizione qua e là lungo i secoli. Fino alla rappresentazione più ariostesca di tutte: l’Orlando di Luca Ronconi dei primi Settanta, con i grandi cavalli di legno spinti da attori e figuranti nelle piazze di Ferrara e di mezza Europa. Sia ricordato seppure di sfuggita che quando chiedemmo a Luca Ronconi se dopo il suo favoloso Orlando, pietra miliare del teatro contemporaneo, non volesse cimentarsi nel rappresentare anche la Gerusalemme liberata, ci rispose subito di no, «perché Ariosto si declama mentre Tasso si legge».

 

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