Quando si viaggia nel Lazio lo si fa quasi sempre per «passarci attraverso». Di certo per la sua posizione di mezzo, ma non è solo questo. Anche nel senso comune, il suo consistere «intermedio» assume un tono polisemico che la dimensione geografica copre solo in parte.

Il Lazio è nel mezzo perché è un valico simbolico per le migrazioni interne che dai primi vent’anni del Novecento e ancor più dal Dopoguerra raggiungono la Capitale dandole quella curiosa e transitoria mixité di provenienze regionali, da Nord e da Sud. Flussi che, sebbene ad alterne intensità, proseguono ininterrotti nonostante il mutare, da un lato, del peso relativo nelle loro componenti (alle mixité regionali si affiancano quelle da altri Paesi) e, dall’altro, delle ragioni stesse del mettersi in viaggio (con percorsi migratori rivolti altrove o vocati al rientro). In entrambi i casi Roma funge sempre da irresistibile attrattore, dando al movimento di persone e di cose un moto centripeto. Come sottolinea Carlo Cellamare, Roma continua a rappresentare una polarità estremamente forte a livello locale e regionale e le aree circostanti restano luogo di transito per chi va verso l’Urbe per ragioni lavorative o per fruire dei grandi insediamenti commerciali e delle attrazioni storico-artistiche o del tempo libero, per le università e per i servizi pubblici e logistico-aeroportuali e, specialmente dal Sud, per i servizi sanitari. Questa polarità romana è, a un tempo, causa e conseguenza della subalternità delle altre aree della regione, dove mancano città medie in grado stemperarne il protagonismo. La linea ferroviaria ad alta velocità che collega Roma a Firenze e a Napoli in poco più di un’ora restituisce plasticamente il senso di questo moto centripeto: un incessante «attraversare» il Lazio dritti al suo cuore polare, con city users o turisti spesso incuranti di quanto scorra a 300 km/h oltre i finestrini dei loro convogli ovattati.

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Il ruolo baricentrico della Capitale è imprescindibile anche quando il viaggio nel Lazio assume il senso inverso, un moto centrifugo. Richiamando concetti cari agli studi urbani, si può in tal caso plasmare la descrizione con la medesima forma radiale che ha Roma nella sua estensione scoordinata verso la costa e l’entroterra. Quella connotazione di città-regione in grado di fagocitare l’agro, ridimensionare e omologare gli stili abitativi e occupazionali extra-urbani, aggravare gli squilibri socio-spaziali e ambientali. Non si tratta solo dell’espansione seguita al boom edilizio nel secondo Dopoguerra, fatto di baraccamenti e quartieri dormitorio sovrapposti alle celeberrime borgate, esito del piccone demolitore fascista. Anche nell’ultimo quindicennio la crescita della Capitale è superiore a ogni altra realtà metropolitana del Paese, una «tumultuosa espansione demografica, che, fatte le dovute proporzioni, presenta alcune analogie con quanto accaduto nel corso degli anni Cinquanta e Sessanta» (C. Carminucci, S. Casucci e G. Frisch, 2014).

Così, con moto centrifugo, Roma deborda verso le aree limitrofe, dove le preesistenze storiche sono quasi del tutto cancellate dalla sovrapposizione di periferie, frange urbane, quartieri satellite di edilizia pubblica e privata e nuclei insediativi più o meno abusivi. Specialmente nelle direttrici verso Ostia e Fiumicino (Sud Ovest) e verso Tivoli e Guidonia (Nord Est), la carenza di strumentazioni urbanistiche e – in parte – il diffuso abusivismo danno forma al paesaggio. Il Lazio più prossimo a Roma si presenta allora così, come mescolanza di nuovi insediamenti residenziali, produttivi, commerciali, inframmezzati da interstizi agricoli. Due circostanze restituiscono il senso di questo moto centrifugo. La prima rimanda al noto effetto sprawl, con l’incremento del pendolarismo e l’allungamento dei percorsi necessari per raggiungere la Capitale, cui non si accompagna un’articolazione dalle linee ferroviarie e stradali sufficientemente attrezzata. La seconda, agli effetti della frattura metabolica tra città e campagna, quello scambio impari che estrae risorse per i consumi compulsivi di Roma e poi espelle gli scarti urbani verso l’entroterra.

Rispetto al primo punto, come ha scritto Mattia Diletti, la drastica riduzione del «ciclo dorato» del pubblico impiego romano, che aveva permesso alla piccola borghesia di vivere nella Capitale, alimenta ora gli spostamenti delle (nuove) famiglie verso l’hinterland, da cui ogni giorno quasi 700 mila persone raggiungono Roma, con mezzi privati, bus e ferrovie i cui convogli – a differenza di quelli ad alta velocità – danno l’opportunità al pendolare di apprezzare ciò che resta del paesaggio, ma spesso ben oltre il tempo necessario. Nella Guida d’Italia del Touring Club Italiano del 1924, per il tragitto tra Roma e Roccasecca, nel basso Lazio, sono disponibili due opzioni: strade impervie da fare in carrozza; il treno, descritto come «Ferr. a doppio binario km. 121 in c. ore 2.20 di diretto» (p. 472). Oggi, per quello stesso tratto, si impiegano circa 1.50 ore, solo mezz’ora in meno. Eppure la «solennità della Campagna Romana (e) il quadro pittoresco e variato di paesaggi e luoghi nella Valle del Sacco» (ibidem) che v’erano nel 1924 hanno lasciato il posto a insediamenti abitativi e industriali da dove parte il flusso di pendolari che ogni giorno circola malagevolmente nello spazio interurbano per l’inadeguatezza dei servizi di mobilità.

Rispetto al secondo punto, Roma vive una cronica emergenza rifiuti che registra periodi ciclici di aggravamento, con l’aumento della mole di scarti indifferenziati non raccolti e del connesso rischio sanitario, che si riverbera su tutta la regione. Perché anche l’immondizia romana attraversa il Lazio per finire nelle aree subalterne, come accaduto per le province meridionali di Latina (ad Aprilia) e di Frosinone (a Colfelice). Quel frusinate dove insiste l’appena citata Valle del Sacco, oggi non più «quadro pittoresco», ma una delle aree a maggior degrado ambientale della regione. Per gli standard di qualità ambientale nella Valle l’Arpa (Agenzia Regionale per l’Ambiente) dispone di una pagina dedicata, dove registra il sovraccarico di inquinanti espulso dal locale distretto industriale della chimica, che negli anni ha contaminato terreni e falde acquifere.

Il «degrado» informa l’immagine esterna di Roma, come hanno sottolineato in chiave critica Fabrizio Barca, Liliana Grasso e Flavia Terribile. Un’immagine «che tiene insieme centro e periferia» e che rischia di estendersi anche oltre il Grande Raccordo, al Lazio intero. Perché Roma resta il cuore dell’industria audiovisiva e mediatica del Paese e il suo moto centrifugo include anche la dimensione dell’immaginario, intriso d’un «modello interpretativo che, unito alla cartolina romanzo-criminalesca, ha mutato, in meridionalizzata e involuta, l’immagine di Roma nell’epoca di Mafia Capitale» (A. Meccia, Lazio, la periferia di Roma, 2017). Protagoniste del realismo estremo del nuovo cinema italiano sono ancora una volta le aree connotate da svantaggio sociale, come il cosiddetto «Casermone», complesso di edilizia pubblica di Frosinone, sede di un vero e proprio fortino della droga simile a quelli riscontrabili a Roma in Tor Bella Monaca e San Basilio. Da questi scenari l’immagine del Lazio si fa periferia di Roma (e di Napoli), con una precisa narrazione del degrado ispirata al paradigma-Gomorra, dove l’uso diffuso della violenza come forma di regolazione sociale facilita la genesi di una certa malavita di strada, capace anche di alimentare le maestranze di potenti gruppi organizzati, anche di tipo mafioso.

Sarà il sisma del 24 agosto 2016, il terremoto nel Centro Italia, a detronizzare l’egemonia romana rimettendo al centro dell’agenda mediatica i borghi laziali ridotti in macerie e il tema stesso dello sviluppo dell’entroterra regionale e delle sue vocazioni produttive. Rieti, la provincia maggiormente coinvolta dal disastro, è un caso emblematico in tal senso. Qui le sigle confederali decidono di celebrare il 1o maggio del 2012 denunciando una «città-luogo simbolo di tutte quelle realtà italiane in grave crisi occupazionale […], coda lunga di una continua serie di dismissioni, delocalizzazioni, fallimenti societari che hanno colpito il nucleo industriale reatino negli ultimi dieci anni […]. Un tasso di disoccupazione che supera il 30 per cento, rappresenta una fotografia impietosa di un territorio ripiegato su sé stesso» (Cgil, Cisl e Uil, Comunicato Stampa del 30 aprile 2012). Più recentemente si scorgono timidi segnali di ripresa specie nei settori ad alta tecnologia (aerospaziale, farmaceutica ed elettronica) (Banca d’Italia, Economie regionali. L’economia del Lazio, 2016), ma la provincia di Rieti – assieme a quella di Frosinone – rientrano tra le aree di crisi industriale complessa riconosciute dal Mise e dunque caratterizzate da situazioni di grave intensità degli effetti occupazionali sul tessuto economico e produttivo. Il Lazio è una delle quattro Regioni (assieme a Sardegna, Sicilia e Toscana) ad avere due aree di crisi complessa. Nelle altre otto regioni coinvolte dal provvedimento insiste una sola area.

In questo quadro, nel Lazio sono Accumoli, Amatrice e gli altri comuni del reatino a diventare a un tempo effige della sciagura e perno della ricostruzione, non solo dalle rovine venute giù nel tremendo sciame sismico, ma anche dalle macerie sociali ed economiche succedute alla crisi. Perché, come registrato in altri disastri della storia d’Italia (G. Parrinello, Fault Lines: Earthquakes and Urbanism in Modern Italy, 2015), anche il terremoto nel Lazio funge da testimonianza improvvisa dell’esistenza di aree depresse nell’economia regionale, e le politiche di sviluppo socio-economico diventano parte integrante del discorso stesso della ricostruzione, come se rimuovere detriti fosse forma di riscatto dopo stagioni di profonda recessione.

 

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