Gli immaginari urbani sono persistenti, affondano le loro radici nel terreno della storia lunga, delle culture e delle antropologie, delle dinamiche strutturali di lungo periodo. Milano non fa eccezione: le narrazioni che in questi ultimi anni hanno connotato la discussione sulla città nell’opinione pubblica e nei media pagano il debito a un insieme di rappresentazioni, descrizioni, racconti che ci sembra di avere già ascoltato.

Milano sembra vivere un momento positivo, di cui Expo 2015, pur con tutte le sue opacità, ha rappresentato l’evento simbolico: città dinamica e accogliente, capace di attrarre talenti e turisti, forte delle sue università e delle sue eccellenze. Ci sono buone ragioni storiche che consentono di spiegare questa persistenza dell’immaginario ambrosiano: una società ricca e articolata, un sistema produttivo diversificato, i tratti della città «scambiatrice» e vocata alle relazioni. Mediolanum è sempre stata una città di mezzo, città-porta, geograficamente localizzata al centro della grande regione padana e nel cuore dei flussi commerciali e della divisione internazionale del lavoro tra città, regioni e territori. Ma anche una città con i piedi ben piantati nel complesso e dinamico sistema produttivo lombardo, a cui negli ultimi due secoli ha fornito competenze, servizi, capitale umano qualificato ed élite.

Pure per queste ragioni Milano è stata città fortemente pluralista, nella quale non è mai stato possibile riconoscere una cerchia stretta di potere, né una growth machine ben definita. D’altra parte, è stata a lungo governata facendo leva sulle virtù civiche di una classe politica modesta, che non ha preteso di pianificare e indirizzare dinamiche sociali spesso impetuose, promosse da una società ricca di risorse finanziarie ma anche cognitive.

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Anche in ragione di questi fattori di lungo periodo, è stata una città resiliente al mutamento strutturale avviatosi negli anni Settanta, e ha attraversato la crisi del regime di regolazione fordista contenendone i costi sociali e ricostruendo una base economica urbana solida, che ha tenuto anche nel corso della crisi esplosa nel 2008/2009. Molti dei racconti di e su Milano, che hanno rimesso al centro dell’attenzione una città che sta vivendo una fase positiva e per alcuni addirittura entusiasmante della sua storia, si riallacciano a un immaginario di lungo periodoDunque, molti dei racconti di e su Milano che hanno rimesso al centro dell’attenzione una città che sta vivendo una fase positiva e per alcuni addirittura entusiasmante della sua storia, si riallacciano a un immaginario di lungo periodo, e trovano le loro ragioni oggettive ben prima della svolta politica determinata dalla sorprendente vittoria di Giuliano Pisapia nelle elezioni amministrative del 2011. Non bisogna sottovalutare il valore catartico delle elezioni del 2011: dopo Tangentopoli e con le amministrazioni Formentini (Lega) e Albertini (Forza Italia), Milano si era fermata e ingrigita, sempre più chiusa in logiche «condominiali», sorretta da un modello di sviluppo basato sulla crescita edilizia e rivelatosi illusorio, attraversata da paure e angosce che trovavano sbocco nell’affermazione di una cultura securitaria e di uno stile di governo commissariale. Tuttavia, non si può dimenticare che già l’amministrazione Moratti aveva introdotto alcuni elementi di rottura rispetto a questa inerzia dell’agenda urbana, riaprendo la città al mondo (anche con la candidatura a Expo) e avviando alcune significative innovazioni sul fronte delle politiche urbane sostenibili (dal bike sharing al sostegno al terzo settore, nella logica della sussidiarietà).

L’amministrazione Pisapia ha avuto l’intelligenza e la lungimiranza di assecondare e intensificare i fenomeni di innovazione e auto-organizzazione sociale, mobilitando ceti e gruppi sociali diversificati e generando forti aspettative da parte di ampi segmenti della società civile e della cittadinanza attiva sul fronte della partecipazione e della condivisione delle scelte collettive.

Non tutto ha funzionato: molti nodi critici sono rimasti irrisolti quando non trattati, in un contesto economico, sociale e ambientale che merita di essere descritto nei suoi tratti chiaroscuri.

Certo, Milano è diventata, un po’ sorprendentemente, una meta turistica ambita. Nel 2016 il capoluogo lombardo ha registrato oltre 5 milioni e 600 mila visitatori, contro i poco meno di 5 milioni e 500 mila del 2015, con una variazione percentuale positiva del 2,07%, che conferma un trend virtuoso anche nell’anno successivo a Expo. D’altra parte, le economie del turismo, come mostra mirabilmente l’ultimo libro di Marco D’Eramo, hanno effetti imprevedibili e contraddittori sulle città, soprattutto se manca, come a Milano, una esplicita strategia di governo e gestione di questi flussi.

Rimane da chiedersi dunque cosa sia Milano oggi, quali elementi strutturali e congiunturali possano caratterizzarne la parabola recente. Innanzitutto, la popolazione nel comune capoluogo torna a crescere, più nettamente a partire dal 2014. Il milione e 369 mila residenti del 2016 comporta una crescita di circa 75 mila abitanti rispetto al 2008, e le previsioni demografiche confermano questa dinamica. Si tratta di un fenomeno che dipende prima di tutto dalla dinamica migratoria (i residenti stranieri sono poco meno del 20% del totale), ma che negli anni più recenti si caratterizza anche per una ripresa della popolazione italiana nella fascia d’età tra i 19 e i 34 anni. Questi dati tuttavia non possono ingannare: Milano e la città metropolitana rimangono un’area urbana in invecchiamento (nel comune capoluogo il 16% della popolazione ha più di 75 anni!), nella quale la struttura delle famiglie rende sempre più complesso il riassetto del Welfare materiale e immateriale che è stato a lungo un vanto ambrosiano. Anziani, stranieri in regola con i documenti, coniugi separati e single definiscono la mappa dei nuclei familiari con un solo componente: 333 mila residenti su una popolazione di 1 milione e 301 mila abitanti!

A fronte di queste dinamiche demografiche anche l’economia mostra tratti contraddittori. Milano rimane una città caratterizzata da una fortissima presenza di imprese (quasi 300 mila attive nella città metropolitana nel 2016, metà delle quali insediate nel capoluogo), con una dinamicità nel campo dei nuovi lavori e delle nuove professioni che, pur sfrondata dalle retoriche del coworking e della sharing economy, mostrano una significativa capacità di innovazione delle economie terziarie. Tuttavia, non si può dimenticare che larga parte della piattaforma produttiva lombarda è stata messa in ginocchio dalla crisi, e intere filiere produttive sono state desertificate. Ciò ha già oggi, e avrà ancora di più in futuro, conseguenze sul ruolo di Milano a scala continentale, poiché il venir meno del rapporto privilegiato con la piattaforma produttiva regionale costringerà a ripensare e ristrutturale l’intera base economica urbana.

Senza dimenticare che questi processi di crisi e ristrutturazione hanno intensificato processi di polarizzazione e persino di segregazione socio-spaziale. Oggi Milano è certamente una città più diseguale e duale di vent’anni fa, sebbene non abbia percorso il cammino che è stato seguito da altre grandi città europee. Per esempio, a Milano ci sono oggi molti più poveri. Secondo la Caritas ambrosiana è cresciuto il numero delle persone e dei nuclei familiari «fragili», con un forte aumento dei senza dimora (oltre il 21% in più rispetto a dieci anni fa) e di chi vive in condizioni di indigenza grave (13% in più rispetto al 2008). L’aumento della fragilizzazione e della povertà avviene in una fase di profonda difficoltà degli enti locali a rispondere a questi nuovi bisogni, in particolare in una fase nella quale una quota rilevante delle risorse è assorbita nel far fronte a emergenze quali quella dei migranti e dei richiedenti asilo, che Milano ha accolto con efficacia e generosità, ma anche con molte difficoltà e qualche conflitto.

Le dinamiche demografiche, economiche e sociali milanesi meritano dunque uno sguardo attento, non strabico, capace di riconoscere i processi dinamici e di innovazione sociale insieme alla crescita del disagio e al rischio di una sempre più accentuata polarizzazione.

In questo contesto è lo stesso modello di sviluppo urbano che deve essere ripensato, a partire dalla insostenibile offerta residua di aree potenzialmente soggette alla trasformazione, dagli scali ferroviari alle caserme, dalle aree siderurgiche a Sesto San Giovanni ai gasometri della Bovisa, ai grandi progetti degli anni Novanta lasciati incompiuti. Milano deve essere in grado di immaginare uno sviluppo disaccoppiato dalla crescita insediativa, accettando il fatto che, pur in presenza di qualche importante investimento estero (soprattutto dai fondi sovrano e dalla finanza araba), non esiste oggi una massa critica sufficiente per immaginare il compimento in tempi rapidi di questa mole di progetti. D’altra parte, Milano e i comuni a essa contermini hanno altri problemi: un patrimonio edilizio pubblico e privato da ristrutturare, operazioni di rigenerazione urbana per tessuti sfrangiati e in metamorfosi, politiche integrate per i quartieri e le aree periferiche su cui la giunta Sala sta lavorando faticosamente.

Milano è anche la città nella quale ci sono 10 mila appartamenti di edilizia popolare vuoti su un totale di 70 mila e 24 mila famiglie in lista d’attesa per avere un alloggio Erp. La questione abitativa sembra ad oggi uno dei nodi critici più complessi da gestire per la nuova amministrazione, e una sfida che richiede coraggio, innovazione, risorse e adeguati meccanismi di governance verticale.

Che cosa è possibile dire, in conclusione, di questa «rinascita» milanese? Innanzitutto, nominiamo con l’espressione «Milano» cose molto diverse. Milano è la città centrale, ancora stretta nei suoi confini storici, dinamica e attrattiva per popolazioni diverse: gli studenti stranieri, gli utenti temporanei dei molti eventi di successo, i city users, ma anche i migranti e più di recente i turisti, soprattutto internazionali. Questa Milano nel corso degli anni è mutata in modo incrementale, attraverso processi molecolari e meccanismi di mobilitazione sociale delle famiglie e delle imprese, più che per mezzo di piani o progetti unitari. È qui che i processi di innovazione sociale trovano terreno fertile, anche in ragione della porosità e dell’accoglienza degli spazi urbani.

Ma Milano è anche la città mutevole che si estende, a geometria variabile, tra i confini municipali e la conurbazione dei comuni di prima e seconda cintura. È in questa città che si sono realizzate o si potrebbero realizzare alcune delle trasformazioni più importanti, ed è qui che appare più forte il contrasto tra dinamismo economico-sociale e nuove forme di diseguaglianza e fragilità.

Milano è poi una regione urbana che importanti studi (cito a titolo di esempio una ricerca nazionale coordinata da Alessandro Balducci al Politecnico di Milano) definiscono post-metropolitana. Questa Milano si estende tra la fascia pedemontana (Novara, Varese, Como, Bergamo) e la pianura irrigua (Pavia, Lodi, Piacenza) e si struttura su un complesso contesto di interrelazioni, di reti lunghe e corte, di relazioni economiche tra filiere e cluster territoriali.

Questa grande regione, a sua volta, è parte di un contesto urbano allargato (una mega-city region, per dirla con Peter Hall), che si estende (almeno) da Torino a Venezia, secondo logiche di complementarietà e di competizione nelle quali giocano un ruolo essenziale programmi infrastrutturali e cluster funzionali.

Infine, Milano è porta dei flussi globali, città-connettore collocata in reti internazionali che travalicano la prossimità geografica e che mobilitano investimenti finanziari significativi, ma anche flussi di capitale umano qualificato. Milano, diversamente dal passato, non può più pensarsi come autosufficiente, necessitando di dispositivi efficaci di governance verticale lungo l’asse che va dall’Europa al governo nazionale alla regioneGovernare queste diverse Milano è molto difficile, come dimostra il sostanziale fallimento dell’esperimento maldestro avviato con la legge Delrio e l’istituzione delle Città metropolitane. Tuttavia, non si può negare che queste diverse Milano abbiano bisogno di governo, e che Milano, diversamente dal passato, non può più pensarsi come autosufficiente, necessitando di dispositivi efficaci di governance verticale, lungo l’asse che va dall’Europa al governo nazionale alla regione.

D’altra parte, Milano non si governa né da Palazzo Marino, né dal Palazzo della Regione; meno che mai da Roma. È la ricca rete di attori che oggi producono la città (dalle università alle grandi imprese bancarie e assicurative; dalla Fondazione Cariplo alla Caritas ambrosiana, per fare solo degli esempi con riferimento ad alcune filiere di policy) che può garantire, a certe condizioni, un governo efficace, ma anche modesto, di processi economici e sociali che richiedono regia e strategie più che regole; abilitazione e attivazione degli attori sociali più che controllo.

Non è facile, e Milano corre indubbiamente più di un rischio, soprattutto se non è in grado di contrastare processi di polarizzazione sociale che, in assenza di un robusto sistema di intermediazione politica, possono generare un indebolimento complessivo degli stessi meccanismi democratici, come dimostrato dai recenti risultati delle elezioni amministrative, nei quali la partecipazione al voto è crollata e il centrodestra è tornato a governare in comuni molto importanti come Monza e Legnano e ha espugnato Sesto San Giovanni.

In conclusione, questa Milano plurale e multiscalare ha dunque bisogno di nuove narrazioni. Narrazioni che dovrebbero mostrare le relazioni tra queste diverse «città», ma anche le potenziali contraddizioni, i trade off tra logiche diverse che presiedono al funzionamento e ai processi economici, sociali e istituzionali che le governano.

Milano ha anche bisogno di politiche pubbliche, capaci da una parte di mettere al lavoro le forze vive della società e di abilitare i processi di innovazione sociale; dall’altra di una regia pubblica che sia attenta alle ragioni e alle esigenze dei gruppi sociali più deboli e che sia in grado di promuovere la produzione di beni pubblici urbani, in una prospettiva di «sviluppo senza crescita insediativa».

Per far questo bisogna sapere che coesione sociale e competitività, innovazione e inclusione non sono «naturalmente» convergenti. Da una parte, vi è la necessità di consolidare, anche dopo Expo 2015, l’apertura della città al mondo, attraverso opportune strategie di internazionalizzazione, di attrazione di investimenti e di funzioni rare, di definizione di grandi progetti nel settore della ricerca e della formazione. Dall’altra, lo slogan «ripartire dalle periferie», con il quale il sindaco Sala ha inteso manifestare un’attenzione ai temi della coesione e del risarcimento sociale, in particolare nelle aree della città escluse dai processi di rigenerazione e innovazione sociale, richiede politiche integrate, risorse, immaginazione progettuale.

La necessità di contemperare inclusione e innovazione si richiama anche a una lunga tradizione civica ambrosiana. D’altra parte, è una sfida molto difficile: sulla capacità di limitare i possibili trade-off e di interpretare in modo lungimirante questa doppia narrazione si gioca il destino della città.

 

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