Con il voto favorevole a larghissima maggioranza al Senato del 6 aprile, che fa seguito a quello della Camera dei deputati dello scorso ottobre, è ora legge la possibilità di iscriversi contemporaneamente a due corsi di laurea, laurea magistrale o Master di classi diverse presso istituzioni universitarie italiane e straniere.

L’accoglienza nell’opinione pubblica interessata sembra per ora ricalcare il generale favore che la proposta ha incontrato in Parlamento. La riforma, per quanto di portata molto puntuale e probabilmente destinata a interessare solo piccoli numeri di studenti – anche se le campagne stampa che negli ultimi mesi hanno portato alla ribalta alcuni singoli casi sembravano voler dare l’impressione contraria – appare la definitiva cancellazione di una rigidità anacronistica rispetto all’esigenza di adeguare l’alta formazione a un mercato del lavoro qualificato che si vuole dinamico e in continuo sviluppo (forse al di là delle reali condizioni in cui esso versa attualmente). A chi scrive, però, il provvedimento, con il suo percorso di approvazione e il sostegno con cui è stato accompagnato sui mezzi di comunicazione, sembra ricalcare su scala ridotta molte delle criticità che hanno caratterizzato la nostra travagliata legislazione universitaria, almeno nell’ultimo ventennio.

Come spesso è accaduto in passato, infatti, la proposta è stata presentata per affrontare un problema effettivo dei nostri ordinamenti, ovvero l’eccessiva rigidità che caratterizza i curricoli di molti corsi di studio soprattutto da quando è entrato in vigore, alla fine degli anni Novanta del secolo scorso, il sistema dei crediti formativi universitari in applicazione del “Processo di Bologna”. È vero, in molti casi, che lo spazio assai ristretto per le attività a libera scelta e per la definizione personalizzata dei piani di studi impedisce di andare incontro alle esigenze di formazione e a interessi specifici e individuali. Ciò è tanto più problematico in un livello di studi universitario ormai caratterizzato dall’accesso di massa e quindi da profonde differenze di background, orientamenti e ambizioni culturali e professionali nel corpo studentesco. Ed è altrettanto vero che, in qualche caso, l’eccessiva fiscalità degli uffici nella richiesta dei titoli per l’iscrizione conduca a difficoltà nel “sincronizzare” il conseguimento di una laurea e l’inizio di un percorso di formazione successivo, generalmente risolvibili consentendo una maggiore flessibilità sul piano burocratico. Viene però da chiedersi se il provvedimento adottato pochi giorni fa sia davvero un rimedio efficace.

La legge sull’iscrizione contemporanea a due corsi di studi non sembra intervenire dove dovrebbe per ottenere i risultati prefissati, e finisce quasi per consolidare ulteriormente i problemi che si intendevano risolvereConsiderando anche che, in parallelo, il ministero dell’Università e della Ricerca sta lavorando a una riforma delle classi dei corsi di studio presentata anch’essa come finalizzata alla sburocratizzazione dei requisiti richiesti e al rafforzamento dell’interdisciplinarietà e dell’autonomia di offerta culturale delle singole sedi, forse si sarebbero potute accorpare le due iniziative giungendo a un generale alleggerimento delle rigidità obbligatorie, eventualmente fino alla promozione e alla piena integrazione in un percorso organico dei percorsi minor affiancati alla specializzazione principale che pure alcuni atenei stanno sperimentando in questi ultimi anni. Tuttavia, come – stando al recente parere in merito del Consiglio Universitario Nazionale, a mio giudizio pienamente fondato – la proposta di riforma delle classi finisce per non raggiungere lo scopo dichiarato, irrigidendo caso mai i confini dei campi disciplinari dei corsi riducendoli ai settori concorsuali del personale e generalizzando soltanto una riduzione dei livelli di impegno e qualità richiesti per le attività formative, così la legge sull’iscrizione contemporanea a due corsi di studi non sembra intervenire dove dovrebbe per ottenere i risultati prefissati, e finisce quasi per consolidare ulteriormente i problemi che si intendevano risolvere.

Il risultato che si ottiene, per ora, è quello di rendere possibile la giustapposizione di due percorsi distinti e reciprocamente isolati, se non per l’eventuale (e non richiesto) impegno di chi li segue a farli comunicare tra loro. Una proposta di vita universitaria che si inserisce pienamente, al limite esasperandola, nell’evoluzione che vede sempre di più l’esperienza dell’istruzione superiore come un’accumulazione di crediti per arrivare a un titolo e di titoli da accreditare in sede lavorativa. Rimane ancora del tutto tra parentesi, e anzi si contribuisce alla sua emarginazione finanche nell’immaginario di chi vive l’università ogni giorno, l’idea dell’accesso all’università come esperienza culturale, finalizzata a raccogliere, far maturare e sistemare organicamente conoscenze generali e competenze disciplinari fino a consolidare il proprio profilo, anche attraverso la partecipazione a momenti di confronto difficilmente “valorizzabili” in un curricolo come convegni e seminari di ricerca, discussioni vis-à-vis programmate o estemporanee con docenti su un tema o un momento di interesse, gruppi di studio autogestiti. Tutti momenti che richiedono di frequentare i luoghi dell’accademia e di “masticare” i contenuti delle lezioni al di là della preparazione e del superamento di un esame parziale, e che anche solo l’idea della frequenza contemporanea di due corsi di studi in sedi diverse (col vincolo per gli atenei di agevolarla) finisce per rendere definitivamente accessorie o assenti.

E, è bene chiarirlo, non si tratta semplicemente di rinunciare a note di colore dell’esperienza universitaria come se parlassimo dei cappelli a punta dei goliardi. Gli studi di didattica applicati all’istruzione superiore – caratterizzati in parallelo con la massificazione della frequenza degli alti studi da un profilo scientifico inedito – si stanno concentrando in questi mesi di uscita dal forzato esperimento di generalizzazione della formazione a distanza a causa della pandemia sull’importanza cruciale di quanto si sta perdendo con l’allontanamento degli studenti dalla vita dei dipartimenti al di là delle lezioni curricolari, e sulla necessità di una “rimaterializzazione” dell’esperienza fisica a tutto tondo dei luoghi del sapere che, come detto, la semplice iscrizione contemporanea a due corsi diversi tende piuttosto a cancellare.

Rimane ancora del tutto tra parentesi l’idea dell’accesso all’università come esperienza culturale, finalizzata a raccogliere, far maturare e sistemare organicamente conoscenze generali e competenze disciplinari

Al di là di ciò, del provvedimento approvato il 6 aprile preoccupa almeno un altro risvolto.

Sul piano normativo, l’apertura all’incontro interdisciplinare tra diverse aree di studio in un percorso di laurea può essere promossa con frutto pensando a un “alleggerimento” delle condizioni di accesso ai concorsi pubblici e agli esami abilitativi per l’esercizio delle professioni. Concentrare l’attenzione sul momento della verifica di attitudini e competenze culturali e tecniche piuttosto che sulla denominazione del titolo di studio permetterebbe infatti, nei limiti del possibile, di dare valore anche all’acquisizione di un bagaglio culturale spendibile in sede concorsuale durante percorsi incentrati su altri campi di formazione (ad esempio, eventuali conoscenze giuridico-amministrative sviluppate in un percorso essenzialmente storico, filosofico e politologico).

D’altro canto, ridurre l’apertura interdisciplinare alla semplice possibilità di acquisire in parallelo due diversi titoli universitari non fa che consolidare una tendenza anch’essa radicata da almeno un ventennio nelle nostre politiche universitarie. Un ampio fronte riformatore raccolto, tra l’altro, sotto la bandiera dell’“abolizione del valore legale del titolo di studio” – in questi termini così netti feticcio inservibile che semplifica un complesso insieme di regole e prassi – tende anche quando avrebbe la possibilità di fare il contrario a irrigidire ulteriormente tale valore e a chiudere gli accessi a determinati profili lavorativi a detentori di “pezzi di carta” di ambito sempre più specifico e ristretto. È stato questo atteggiamento che nei primi anni Duemila ha di fatto consentito l’emergere come nuovi attori nel panorama dell’istruzione superiore italiana degli atenei telematici, in un’apertura rivelatasi un sostanziale fallimento sia sul piano culturale che su quello del numero di studenti coinvolti. Si va nella stessa direzione ora, con una riforma dei percorsi che, lasciando invariato il valore dei titoli negli accessi alle procedure selettive e nelle valutazioni delle commissioni concorsuali, li rende asset da accumulare il più possibile, anche a prescindere dall’effettivo livello di acquisizione dei contenuti conoscitivi che li caratterizzano.

In conclusione l’impressione generale che suscita questo provvedimento sulla cosiddetta “doppia laurea”, soprattutto se guardato nel generale contesto delle proposte di intervento a cui sta lavorando il ministero, è quella di un’occasione mancata per restituire all’esperienza culturale ed educativa dell’istruzione superiore la pienezza e la ricchezza che potrebbero contraddistinguerla se liberata dai lacci burocratici che ultimamente l’hanno soffocata, e anzi di un ulteriore passo verso la riduzione ai minimi termini delle università italiane in qualcosa di poco diverso da meri – si passi il neologismo – “creditifici”. Rivedere profondamente questo atteggiamento, ed elaborare la politica universitaria secondo una strategia migliorativa d’insieme che metta al centro chi delle università deve essere protagonista, docenti e studenti, più di norme e titolature, è un’urgenza non più rinviabile che però non riesce ancora a trovare adeguato ascolto nella politica.