Che senso ha, ci si potrebbe chiedere, un appello di intellettuali di fronte allo sfacelo del Medio Oriente, alla nuova spirale di violenza in quella regione, una delle peggiori degli ultimi decenni: a cominciare dalla sanguinaria aggressione di Hamas e all’eccidio che ne è seguito, per proseguire con i due successivi mesi di operazioni e di bombardamenti israeliani. Ben oltre il diritto di autodifesa, nonostante la persistente presenza degli ostaggi israeliani (e non solo) nelle mani di Hamas e i bombardamenti che – pure in una guerra asimmetrica – quotidianamente proseguono anche da Gaza verso Tel Aviv e dintorni.

Certo, si potrebbe anche notare che la storia degli intellettuali impegnati sulla scena pubblica inizia, secondo molti, circa 130 anni fa con i manifesti per l’affare Alfred Dreyfus, tra cui il celebre “J’accuse” di Emile Zola. Quella storia è quindi – forse non casualmente – generata dalla “piccola questione ebraica”, come la chiama con amara ironia Hannah Arendt nelle prime pagine delle Origini del totalitarismo (1951), svolgendo di seguito tutte le implicazioni e conseguenze nella prima metà del XX secolo che stanno al cuore di quel classico della filosofia politica del Novecento.

Ora al centro dell’attenzione ci sono non l’ufficiale capro espiatorio Alfred Dreyfus e le pur grandi questioni che il suo caso chiamava in causa, ma di nuovo Israele e Palestina, in quella che diversi considerano la più grave crisi per Israele – e quindi per i Palestinesi – e per gli ebrei nel loro insieme dal 1945 ad oggi. Di fronte a questa situazione un piccolo gruppo di intellettuali che potremmo definire in senso lato “ebrei di sinistra” – comunque laici, mezzi ebrei o alla lontana ebrei (qualsiasi cosa questo voglia dire) e certo post identitari – ha deciso di far sentire la propria voce con un appello: “Tacciano le armi in Medio Oriente e si riprenda il dialogo”. Si tratta di Roberta Ascarelli, Bruno Contini, Roberto Della Seta, Donatella Di Cesare, Anna Foa, Carlo Ginzburg, Giovanni Levi, Stefano Levi Della Torre, Simon Levis Sullam, Ivan Gottlieb, Helena Janeczek, Gad Lerner, Valentina Pisanty, Roberto Saviano, Sandro Ventura. A un mese dall’aggressione e dall’eccidio di Hamas, dopo l’inizio della risposta militare di Israele ma prima dell’invasione di Gaza, questi chiedevano in sintesi: il cessate il fuoco, il rispetto e l’assistenza dei civili di entrambe le parti, la ripresa del dialogo tra israeliani e palestinesi (certo dopo l’uscita di scena di Hamas e dell’attuale governo israeliano a guida Netanyahu e con la partecipazione di ministri fascisti e razzisti), l’impegno per la futura nascita di uno stato palestinese accanto a quello di Israele: entrambi con pieni diritti di indipendenza, sicurezza ecc. Ovvia premessa a questo, la fine dell’occupazione dei territori della West Bank, come anche del controllo esterno ancora esercitato su Gaza da Israele. Tutto ciò in condizioni di sicurezza per tutti, garantite dai soggetti coinvolti e dalla comunità internazionale.

Forse questo appello pure invocando il cessate il fuoco come prioritario – priorità che come appare evidente non è venuta meno nelle settimane successive fino ad oggi, anzi – si rivolgeva probabilmente innanzitutto alle opinioni pubbliche italiana ed europea (e magari anche statunitense), chiedendo un discorso pubblico, certamente critico e preoccupato, ma rispettoso delle pari coinvolte – israeliani e palestinesi, arabi ed ebrei – delle loro rispettive identità e memorie.

Questa richiesta non poteva anticipare, ma voleva in un certo senso salvaguardare l’opinione pubblica e anche quella accademica da degenerazioni – sfaceli etico-politici e persino epistemologici o cognitivi – quali quelli a cui si sarebbe poi assistito con l’audizione delle presidenti di alcune delle massime università statunitensi (tra cui Pennsylvania e Harvard), nelle quali – certo di fronte alle domande insistenti di una aggressiva e intimidente senatrice repubblicana – veniva risposto quasi con naturalezza che, in nome del diritto di parola e opinione, nei rispettivi campus non costitutiva un problema invocare il genocidio degli ebrei. Purché gli studenti o i colleghi non passassero all’azione, bontà loro (delle presidenti delle università, per vari motivi una solo delle quali poi dimissionaria a seguito del singolare – e quasi tragico – episodio).

Per restare nell’accademia e volendo comunque garantire la più ampia visibilità e sostegno all’appello “Tacciano le armi e riprenda il dialogo in Medio Oriente”, i suoi promotori hanno poi cercato e ottenuto il sostegno di oltre 100 accademici, intellettuali e artisti, italiani e non solo, alcuni dei quali possono essere considerati tra i più autorevoli e influenti del nostro tempo (ma anche tra i primi firmatari dell’appello originario – in tutta onestà – c’era chi alcune cose le aveva fatte e dette nel tempo, guadagnandosi una certa notorietà). I nuovi sostenitori, hanno anche aderito in risposta a un altro edificante episodio nel frattempo avvenuto, cioè la sottoscrizione da parte di oltre 4.000 universitari di tutte le discipline (ma con una netta prevalenza di umanisti e scienziati sociali), che hanno firmato un lungo, stratificato e spesso poco chiaro – nonostante le note a pie’ pagina per darvi una patina accademica e una supposta maggiore serietà, magari proprio accademica – che chiede in uno degli ultimi punti il boicottaggio delle università israeliane. Quest’ultima richiesta, eufemisticamente formulata – evidentemente per guadagnare più consenso e che tra l’altro ha tratto molto in inganno rispetto a un punto chiave e molto grave del documento (“si può boicottare il pensiero?”, ho chiesto anche a colleghi e amici, che tali restano) – formulata come “interruzione temporanea dei rapporti scientifici”. Quindi non boicottaggio, per carità, anzi con molti ricercatori con cui esistono rapporti personali e viva vicinanza questa andava mantenuta (sarebbe stata solo purtroppo condizionata dalla spiacevole e dolorosa, ma doverosa, interruzione dei rapporti, che evidentemente avrebbero reso impossibile anche qualsiasi rapporto scientifico se non lo scambio di opinioni pure accademiche ecc.). Preciso in proposito di non aver personalmente firmato nemmeno il successivo appello a sostegno delle università israeliane, ma come moltissimi altri sono contrario al boicottaggio delle università in genere.

Insomma, anche in risposta a questa presa di posizione del boicottaggio e condividendo evidentemente le protratte richieste di cessate il fuoco, di protezione dei civili, l’approccio equidistante ecc., molti altri colleghi hanno poi sottoscritto il proprio sostegno all’appello “Tacciano le armi”: tra questi gli storici della Scuola Normale di Pisa, docenti eminenti delle più importanti università americane, inclusi alcuni dei massimi specialisti delle questioni implicate nella crisi mediorientale: Federico Finchlestein (New School), Samuel Moyn (Yale), Nadia Urbinati (Columbia), Marla Stone (direttrice e Mellon professor dell’American Academy of Rome), Victoria De Grazia (Columbia) Francesca Trivellato (Ias Princeton), Franco Moretti (già Stanford); in Francia Jacques Revel, già presidente dell’Ehess, Lucette Valensi (pure Ehess) e Mario Del Pero (SciencesPo); nel Regno Unito John Foot (Bristol) e Robert Gordon (Serena Professor of Italian, Cambridge), Anthony Molho e Jonathan Zeitlin (Eui); in Italia, tra gli altri, Maurizio Ferraris (UniTo), Simona Forti e Roberto Esposito (Sns), Agostino Giovagnoli (Cattolica), Piero Ignazi e Fulvio Cammarano (UniBo), Mario Ricciardi (UniMi e direttore in carica di questa rivista); tra gli intellettuali e artisti: Marco Bellocchio, Michele Serra, Renzo Piano (senatore a vita), Gustavo Zagrebelski (già presidente della Corte costituzionale), Daniela Padoan, presidente di Libertà e giustizia, Sandro Portelli anche a nome del Circolo Gianni Bosio, l’editore Carmine Donzelli; gli scrittori e giornalisti Nicola Lagioia, Eraldo Affinati, Marino Sinibaldi, Michele Serra, le scrittrici Loredana Lipperini, Benedetta Tobagi e Igiaba Scego; ex ministre come Giovanna Melandri ed Elsa Fornero, ma anche la fondatrice del “manifesto”, Luciana Castellina. A questo link può essere consultato il breve testo dell'appello originario e l’intera lista dei sottoscrittori, che include anche quasi duecento cittadini comuni: insegnanti, professionisti, studenti, pensionati (le adesioni sono chiuse, ma è comunque possibile, per chi desidera esprimere una opinione in proposito o manifestare la propria partecipazione, approvazione o disapprovazione, inviare una email.

A che cosa serve un appello di intellettuali nel presente sfacelo, per tornare all’interrogativo iniziale? più che altro, forse, a offrire alcuni suggerimenti all’opinione pubblica sull’etica del discorso, il rispetto reciproco, la possibilità di ripensare al dialogo – qui e in Medio Oriente –, la richiesta impellente di non cadere nell’antisemitismo e nell’islamofobia che “minano il tessuto civile delle nostre società” Oggi quell’appello può essere visto soprattutto come un piccolo strumento culturale – senza volerne sopravvalutare l’importanza – in mano a chi voglia raccoglierlo e farlo proprio. Oppure un amuleto: perché, ora come ora, rispetto allo scontro tra israeliani e palestinesi, non sembra di potersi affidare che alla fortuna. O anche pregare (per chi crede) che il venerdì islamico e lo shabbat, l’ennesimo dall’inizio del conflitto – momento in cui concludo di scrivere questo testo – possano portare un po’ di “shalom”/”salaam” (pace). La stessa parola che – in ebraico – al principio della crisi un’anziana pacifista israeliana disse o provò a dire, temiamo inutilmente, al suo sequestratore e aguzzino di Hamas mentre veniva rilasciata.