Economista di esperienza, oggi docente presso la prestigiosa Higher School of Economics di Mosca, Grigorij Javlinskij è un politico scomodo nella realtà russa odierna. Come altri della sua generazione, il leader del partito Jabloko ha cominciato la sua carriera politica in Unione Sovietica, distinguendosi negli anni della perestrojka di Gorbaciov, quando propose un programma dettagliato di riforme economiche per portare l’Unione Sovietica al sistema di mercato. Tuttavia il suo programma non fu realizzato, sia per mancanza di volontà da parte dei leader del Partito comunista, sia a causa della repentina disintegrazione dell’Unione. Durante la transizione Javlinskij non ha abbandonato la politica, continuando a rappresentare una concreta forza di opposizione al potere di turno, da El’cin a Medvedev e oggi Putin. Il noto oppositore in carcere Aleksej Naval’nyj è stato in passato membro di Jabloko, ma nel 2007 il partito lo ha allontanato: le sue posizioni nazionaliste e xenofobe non potevano trovare posto nel partito liberale del professor Javlinskij.

MN  Professor Javlinskij, negli anni Ottanta lei è stato prima a capo del settore economico presso l’Istituto di ricerca sul lavoro, all’interno del Comitato statale per il lavoro e gli affari sociali dell’Unione Sovietica, e poi alla guida del dipartimento di economia presso la Commissione per la riforma economica. Quale fu l’origine del suo «programma dei 500 giorni»?

GJ  I primi abbozzi del programma apparvero già nel 1982-1983. Il mio compito era analizzare l’economia sovietica e così preparai una densa relazione: il sistema economico sovietico era molto inefficiente, funzionava male, non c’erano prospettive. Si iniziò a discutere di come migliorarlo e quali scelte e riforme fondamentali occorressero.

Dopodiché nel 1988-1989, quando ero a capo del dipartimento economico congiunto del Consiglio dei ministri dell’Unione Sovietica presso la Commissione per la riforma economica, cercai più volte di spiegare nel dettaglio al premier Nikolaj Ryžkov che fosse necessario un sistema economico del tutto diverso, dato che quello allora esistente non avrebbe mai funzionato. C’erano sempre nuovi problemi e i dirigenti non sapevano che fare. Anche comprendendo i principi di un sistema alternativo, era impossibile per loro capire cosa fare e come. Vidi con i miei occhi che lo stesso premier non sapeva come rivolgersi ai propri ministeri: non sapeva cosa chiedere, che domande porre. L’economia di mercato e quella pianificata erano così differenti tra loro che Ryžkov, che aveva lavorato tutta la vita in un sistema pianificato, non aveva idea di cosa significasse passare al sistema di mercato.

Fu allora che emerse l’idea di scrivere un programma di riforme non soltanto diviso per settori (finanze, bilancio, tasse, industria), ma anche per fasi: cosa fare prima, cosa dopo e così via; quali risultati dovevano essere raggiunti a che stadi e cosa sarebbe successo in caso contrario.

Inizialmente si era pensato a un programma di 400 giorni, che poi divennero 500: questo era il periodo di tempo in cui si sarebbe saputo con precisione cosa fare passo passo al fine di portare la gigante economia pianificata dell’Unione Sovietica sui binari di quella di mercato. Trascorso quell’anno e mezzo sarebbe stato necessario elaborare un nuovo programma.

Alla fine del programma l’Unione Sovietica non sarebbe dovuta diventare la Svizzera, non era previsto. Il programma intendeva gettare delle prime basi per l’attuazione di una serie di riforme, e non costruire da zero una nuova economia. In sostanza si puntava a creare la proprietà privata, a far nascere una classe media, una piccola e media imprenditoria che, sulla base dei risparmi accumulati nel periodo sovietico dai cittadini, potesse andare a bilanciare domanda e offerta. La cosa essenziale era porre le basi di un nuovo sistema politico basato su persone libere con una loro proprietà privata, un sistema che permettesse la nascita di una classe media.

Il programma dei 500 giorni fu elaborato tra la fine del 1989 e la prima metà del 1990 sulla base dello studio degli esiti delle riforme in Polonia, dove ero stato capo della delegazione sovietica: nel gennaio-marzo 1990 osservai con i miei occhi come procedevano le riforme della cosiddetta «shock therapy» guidata da Balcerowicz. Inoltre, nella primavera del 1990 trascorsi un lungo periodo di lavoro in Giappone dove analizzai le riforme attuate in ambito economico dopo il settembre del 1945. Le esperienze polacca e giapponese influirono sull’elaborazione del mio programma dei 500 giorni, il cui testo fu ultimato nel maggio del 1990.

MN  Il programma alla fine non venne attuato. Perché?

GJ   L’intero establishment sovietico era assolutamente contrario alla proprietà privata e alle regole del mercato, non intendeva permetterli nel Paese. Inoltre, sia Gorbaciov che El’cin non si intendevano di economia. Il primo cercava di continuo compromessi che però in ambito economico possono essere soltanto molto limitati; invitava accademici e assistenti a intervenire sul tema, con il risultato che il mio programma alla fine fu stravolto e il Soviet Supremo lo rigettò. Per quanto riguarda El’cin, andò diversamente: presentai il programma dei 500 giorni negli Stati Uniti, a Washington, nel corso di una riunione congiunta del Fondo Monetario Internazionale e della Banca Mondiale, all’interno della quale venne organizzata una conferenza ad hoc dedicata alla discussione del mio piano che venne tradotto in inglese. Presero parte decine di esperti mondiali e ministri dell’Economia e delle Finanze. Durò una settimana; ci furono molte domande e dibattiti. Alla riunione conclusiva, il noto professore ungherese János Kornai, esperto di riforme e di politica macroeconomica, affermò che il programma dei 500 giorni sarebbe stato uno dei più efficienti e il migliore in materia di riforme in tutta l’Europa orientale. Chiaramente, ne fui onorato.

La mattina dopo in albergo mi dissero che mi avevano telefonato dall’ufficio del senatore Dole, leader dei repubblicani al Senato, che non conoscevo personalmente. Mi chiedeva di recarmi al Senato per incontrarlo. Lì mi disse: «La informo che ho recentemente incontrato Boris El’cin che mi ha chiesto quanto sia rischioso il programma dei 500 giorni. Gli ho detto che è un programma complesso e certamente non privo di rischi; utile e giusto, ma anche rischioso. E lui allora mi disse: "Non lo attuerò se lei dice che è rischioso, in primavera (cioè la primavera del 1991) ho le elezioni" Ecco, ci tenevo a informarla».

In altre parole, sia El’cin che Gorbaciov non attuarono il programma perché, in primo luogo, non ne comprendevano il contenuto e poi perché erano molto presi dalla competizione politica e non vollero realizzarlo per ragioni politiche.

MN  In che modo il programma si accordava con i valori della perestrojka? Il programma dei 500 giorni e la perestrojka avrebbero potuto salvare l’Urss dal collasso?

GJ   La perestrojka era di per sé un fenomeno piuttosto eterogeneo, comprendeva cose molto diverse tra loro. Uno dei suoi tratti principali era la libertà di parola. Gorbaciov decise che le persone potevano dire quello che pensavano e che per questo non sarebbero state escluse dal partito, licenziate dal lavoro, fucilate o condannate in alcun modo. Di fatto tutte le forme di repressione della libertà di pensiero furono abolite e si ebbe un’autentica libertà di parola in Urss. Credo che questo sia stato l’evento principale della perestrojka, nonché lo strumento che cambiò ogni cosa e portò al collasso dell’Urss.

Per quanto riguarda il programma dei 500 giorni, questo intendeva creare la proprietà privata in Urss. In questo senso andava oltre la perestrojka che invece non considerava la proprietà privata e il mercato libero come basi essenziali dell’economia. Il programma dei 500 giorni instillava il rispetto di se stessi nelle persone. Non garantiva la sopravvivenza dell’Urss, ma gettava un fondamento per l’integrazione economica tra le repubbliche sovietiche e per un mercato unico secondo un modello simile a quello dell’Unione europea; quest’integrazione avrebbe potuto garantire uno scenario futuro molto interessante per tutto lo spazio post-sovietico.

MN  Cosa non funzionò nella perestrojka di Gorbaciov?

GJ   Gorbaciov aveva ostacoli in tutte le direzioni. Attorno a lui, escludendo forse una o due persone, erano tutti contrari a ciò che faceva. I negozi vuoti facevano infuriare la gente oltre misura, l’economia era saltata. Erano tutti contro di lui, ma ciò nonostante lui continuava a portare avanti i suoi sforzi, per come poteva. Per questo oggi non posso rimproverarlo di nulla. In molti momenti sembrava mancare coerenza, c’erano molte contraddizioni. Tuttavia, forse proprio questa incoerenza e queste contraddizioni gli permisero di fare quanto ha fatto, altrimenti chissà quale sarebbe stata la reazione dell’ambiente conservatore e reazionario che lo circondava. Non compresero la sua politica fino in fondo. E in ogni caso, com’è noto, ci fu poi il putsch dell’agosto del 1991.

MN  Come giudica le riforme economiche degli anni Novanta e il loro risultato?

GJ   Propongo di avvicinarci alla questione in questo modo. Nel dicembre del 1991, quando le riforme furono annunciate, l’inflazione in Russia era al 12%; un anno dopo era al 2600%, i prezzi si erano alzati di 26 volte. Anche solo partendo da questo dato si può comprendere che le riforme sono fallite. Inoltre, si consideri che nei primi anni ci fu un notevole calo della produzione: del 12% nel primo semestre del 1992, del 14% nel primo semestre del 1993, del 20% nel primo semestre del 1994… La disoccupazione crebbe in maniera indefinita. Il reddito della popolazione calò di due volte e mezzo e tutto ciò si trascinò a lungo. Un’altra circostanza significativa fu la perdita dei mercati nell’Europa orientale; il mancato accordo economico con le repubbliche sovietiche ci fece perdere anche il mercato della Csi.

In seguito all’iperinflazione, la popolazione perdette i propri risparmi. Non erano grandi somme, ma c’erano e con esse sarebbe stata possibile una piccola e media privatizzazione delle proprietà statali. Questa doveva essere la via delle riforme: la creazione di una classe media e di prime basi per un’economia di mercato come la proprietà privata.

Invece si dedicarono ad altre misure: la liberalizzazione dei prezzi e dunque dei monopoli statali, dato che in Russia non c’erano imprese private. Così non si formò né una classe media, né si ottenne la proprietà privata e anzi emerse una privatizzazione criminale sotto forma di «prestiti in cambio di azioni» che ha favorito una fusione tra proprietà e potere, tra business e politica. Da qui viene il sistema oligarchico-corporativo di oggi.

Ciò significa che in questo sistema non è possibile la divisione dei poteri, perché non c’è separazione tra business e politica, tra proprietà e potere; per questo motivo non sono possibili media indipendenti e manca in Russia un vero sistema parlamentare. A questo hanno portato le riforme degli anni Novanta, avvenute in due momenti: prima l’iperinflazione e poi la privatizzazione criminale con annessa creazione di un sistema oligarchico che fonde potere, proprietà e business.

Oggi in Russia vige un capitalismo di Stato. Non c’è né privatizzazione, né riduzione della spesa pubblica, né un aumento del ruolo del settore privato, manca un vero libero commercio, manca una deregolamentazione, mentre cresce il controllo statale sull’economia. La quota delle proprietà statali nell’economia è di oltre il 75%, la concorrenza è estremamente limitata, i gruppi oligarchici si espandono e sono loro a determinare la formazione del governo, l’indirizzo degli investimenti e della spesa pubblica. Una spesa pubblica enorme, un budget immenso destinato al settore militare, l’ampliamento dei monopoli sono tutte caratteristiche dell’attuale sistema economico russo, un sistema di capitalismo statale-monopolistico.

MN  Cosa servirebbe alla Russia di oggi per superare le disuguaglianze e la povertà e per garantire l’accesso a diritti fondamentali di ciascun cittadino come un’istruzione e una sanità di buona qualità?

GJ  La risposta è semplice: occorrono una politica interna, una politica estera e una politica economica completamente diverse. La politica putiniana sta portando la Russia verso un vicolo cieco. La Russia ha bisogno di un vettore di sviluppo europeo: deve sviluppare la propria economia, la propria politica interna ed estera indirizzandole verso l’Europa. Invece avviene l’esatto contrario: la politica di Putin è una politica di isolamento, di avvicinamento alla Cina, una politica — come disse lo stesso Putin — di una «civiltà a se stante». È un grave errore. Occorre porre fine al conflitto con l’Ucraina e a quello in Siria. Ci sono altre cose di cui occuparsi. Non ha alcun senso parlare di nuove tasse, nuovi piani per l’economia, di una diversa spesa pubblica. È fondamentale un cambiamento della politica, che deve essere moderna, liberale, democratica, aperta, indirizzata alla libertà, al diritto, alla giustizia, che permetta alle persone di vivere senza paura, che le rispetti e offra loro la possibilità di realizzarsi. I diritti umani, le libertà e le pari opportunità sono la ricetta essenziale perché i cittadini russi ottengano l’accesso ai diritti di base come una buona educazione e assistenza sanitaria e perché in generale il Paese funzioni con successo.

MN  Il suo partito, Jablobo, da anni non è rappresentato alla Duma di Stato. Come spiega questo basso consenso alle elezioni?

GJ  Sì, dal 2004 il nostro partito non è rappresentato alla Duma di Stato, ma la risposta anche in questo caso è semplice: in Russia non c’è libertà di parola e non ci sono elezioni veramente competitive. Ampi strati della popolazione non conoscono affatto le nostre idee e principi. Chi ci conosce, è grazie a internet. Si tratta di circa un milione di persone che continua a votarci, ma è un numero piccolo nelle nostre circostanze elettorali. Se ci dessero l’opportunità di spiegare alla televisione, sul primo canale o su altri, che siano di Stato o privati, nel giusto formato, per cosa lottiamo, per quale tipo di politica, non ho dubbi che non avremmo soltanto un milione di elettori, ma almeno dieci, mi pare evidente. Ci hanno tappato la bocca. Inoltre, diffondono il terrore in Russia. Credo nel popolo russo e so che ci comprende e ci supporta. Da tempo le elezioni vengono falsificate in Russia e quest’anno in particolare è stato evidente che non solo si falsificano, ma si pianificano, i risultati si decidono già a monte.

MN  Lei si è più volte esposto criticando apertamente, ad esempio, le guerre in Cecenia e le azioni militari in Ucraina, non mostrando paura nell’esprimere le sue idee e proposte. Cosa la preoccupa di più dell’attuale politica putiniana?

GJ  Il fatto che conduca in un vicolo cieco, ma in particolare oggi mi preoccupa la possibilità di scontro reale con l’Ucraina, di guerra aperta con l’obiettivo di sottrarle la sovranità, un conflitto che può nascere oggi da qualsiasi provocazione deliberata o anche da qualche evento involontario visto il continuo sferragliare di armi. Inoltre, mi spaventa la presa della Bielorussia. In generale, mi spaventa il peggioramento delle relazioni con il mondo, con l’Occidente, la prospettiva di una nuova guerra fredda, un riarmo. C’è poi la crescente repressione interna a preoccuparmi: la questione degli «agenti stranieri», l’aumento del numero di prigionieri politici che sono oggi oltre 400, l’utilizzo deliberato dell’etichetta di «estremismo», la ricerca di infinite spie… Stiamo tornando a un regime super-autoritario, se non, vorrei direi, totalitario.

Inoltre non può che preoccuparmi il fatto che da vent’anni non ci sia alternanza politica e che fino al 2036 potremmo avere Putin alla presidenza. Tutto ciò significa che la Russia continuerà a muoversi verso l’isolamento e verso un regime autoritario che creerà conflitti con tutti i vicini e avrà un’economia in declino.

Tuttavia, al momento, la cosa che mi inquieta maggiormente è la possibile guerra con l’Ucraina. Sono contrario alla guerra, all’annessione della Crimea, alla guerra nel Donbass. È spiacevole poi osservare la nuova ascesa dello stalinismo, del nazional-bolscevismo, il crescente isolamento russo e il vigente sistema oligarchico-corporativo.

MN  Un’ultima domanda sul suo ex compagno di partito, l’oppositore ora in carcere Aleksej Naval’nyj. Parliamo chiaramente di una figura molto controversa, esclusa dal partito nel 2007 per le sue posizioni espressamente nazionaliste. Come giudica oggi Naval’nyj?

GJ  Per me e in generale per il partito la politica di Naval’nyj è del tutto inaccettabile. Ne ho scritto e parlato molto. Gli auguro di stare in salute e di riacquisire la libertà. Il carcere russo è pesante e terribile. Provo compassione per lui come persona, ma la sua politica, tanto quella di un tempo quanto quella attuale, non è per me in alcun modo condivisibile.