In una recente intervista per un documentario intitolato Storia moderna, riportata dall'agenzia di stampa Ria Novosti, il presidente Vladimir Putin ha affermato che «negli anni Novanta in Russia si è svolta, di fatto, una guerra civile. I dirigenti europei non avevano dubbi che il Paese si sarebbe disintegrato, si chiedevano solo quando sarebbe successo e quali conseguenze avrebbe avuto per un Paese dotato di armi nucleari». Nel 2005 il presidente russo aveva già definito la fine dell’Urss «la più grave catastrofe geopolitica del XX secolo» e nei giorni scorsi ha aggiunto che si è trattato della «disintegrazione della Russia storica sotto il nome di Unione Sovietica».

Oggi spesso ci si rammarica del crollo dell’Unione, attribuendo caratteristiche positive al periodo sovietico in sintonia con altre rilevazioni che descrivono una nostalgia per il passato e le sue leadership

I principali avvenimenti del 1991 (il referendum sulla nuova unione, l’isolamento di Gorbaciov nella dacia in Crimea, il Comitato di emergenza che ha avviato il golpe, il presidente russo Boris El’cin sul carro armato davanti alla Casa Bianca ecc.) hanno indubbiamente impresso una forte accelerazione al crollo del sistema sovietico. È stato, tuttavia, un evento inaspettato per l’opinione pubblica mondiale che solamente qualche mese prima, nel marzo 1991, aveva assistito all’approvazione, con il 71% dei votanti, del referendum sulla nuova Unione delle Repubbliche socialiste sovietiche. In Occidente le interpretazioni più ricorrenti sulla caduta dell’Urss si sono concentrate sulle dinamiche interne di natura economico-militare ed esterne relative al ruolo cruciale della diplomazia statunitense e del presidente Ronald Reagan. Di parere contrario è il sovietologo Archie Brown che considera il «fattore Gorbaciov» e l’insieme delle riforme strutturali avviate con la Perestrojka tra le principali cause della dissoluzione dell’Urss.

Da allora l’ex presidente Gorbaciov non ha perso occasione di ribadire la propria posizione e di giustificare l'improcrastinabilità delle riforme politiche ed economiche in numerose interviste e libri. Nel luglio 2021 dalle pagine della rivista «Russia in Global Affairs», il novantenne Gorbaciov ha definito la Perestrojka una lezione, ancora oggi, per la Russia e per il mondo. In particolare, il protagonista del «nuovo pensiero», declinato nella Perestrojka (ricostruzione), nella glasnost’ (libertà di espressione, trasparenza) e nella uskorenie (accelerazione), afferma che nonostante le «illusioni e gli errori commessi” le riforme erano «una giusta causa», anche se personalmente avrebbe fatto «molte cose differentemente». Difendendosi dall’accusa di aver tradito il socialismo «per ingenuità e per l’assenza di un chiaro piano di attuazione delle riforme», Gorbaciov accusa gli oppositori per non aver compreso «l’atmosfera psicologica e morale che dominava la società sovietica» alla fine degli anni Ottanta. Il popolo voleva il cambiamento e la giusta direzione era «l’emancipazione dell’essere umano», artefice del proprio destino attraverso «un’energia creativa che il popolo sovietico poteva esprimere con una maggiore libertà».

Gorbaciov, tuttavia, sostiene che i cambiamenti radicali nell’Unione Sovietica potevano avvenire «solamente dalla leadership del Pcus perché la società non era pronta per organizzarsi e produrre leader capaci di assumere responsabilità per il Paese». Una rivoluzione dall’alto, quindi, nella quale Gorbaciov ammette di essersi fidato di alcuni colleghi di partito che si professavano favorevoli alla democrazia, ma, in realtà, erano pronti a tradirlo, «sacrificando la nuova Unione per il desiderio di governare al Cremlino […] indebolendo la posizione del presidente dell’Unione Sovietica» e avviando «la disgregazione dell’Urss». Con orgoglio Gorbaciov sottolinea l’importanza delle riforme con un unico rammarico/errore: il ritardo delle riforme economiche, del rinnovamento del partito-Stato e del decentramento. Nella parte conclusiva della sua memoria, Gorbaciov critica poi l’amministrazione presidenziale americana perché ha presentato la fine della Guerra fredda e il crollo dell’Urss come una vittoria dell’Occidente, una questione che tuttora plasma la natura dei rapporti tra gli Stati Uniti di Joe Biden e la Russia di Putin: «Era una vittoria di entrambi, il trionfalismo produce brutti consigli e se non ci fosse stato questo fraintendimento probabilmente sarebbero cambiate anche le fondamenta della nuova politica internazionale».

E così, uno dei grandi eventi epocali che hanno segnato la storia dell’umanità continua ad animare il dibattito politico e accademico. Dall’interpretazione storica degli eventi si è passati all’analisi dell’impatto di questo mutamento politico ed economico nella Russia contemporanea in termini di continuità/discontinuità con il passato. Sino a che punto il passato è capace di plasmare ancora le azioni del presente? Se il passato non passa, ma costituisce ancora un fattore determinante nella lotta e nell’autoperpetuazione del potere, come è stato reinterpretato nelle dinamiche politiche del presente? Nella Russia di Putin la cosiddetta politica della memoria è stata una strategia di consenso adottata per rinsaldare il rapporto con l’opinione pubblica, rinvigorire l’orgoglio patriottico e orientare le scelte del futuro. Non è un caso che in questi giorni la Duma abbia approvato in terza lettura la legge contro il revisionismo storico in base alla quale è reato equiparare gli scopi e le azioni dell’Urss a quelle della Germania nazista durante la Seconda guerra mondiale e negare il ruolo decisivo dell’Urss nella sconfitta del nazismo.

Nella Russia di Putin la cosiddetta politica della memoria è stata una strategia di consenso adottata per rinsaldare il rapporto con l’opinione pubblica, rinvigorire l’orgoglio patriottico e orientare le scelte del futuro

Ma al di là delle eredità istituzionali del vecchio regime (la verticale del potere, il ruolo di Russia Unita, il rapporto centro e periferia ecc.), quale memoria collettiva di quei drammatici eventi si è formata nella società civile?

In occasione del trentesimo anniversario del golpe del 19 agosto in Unione Sovietica, l'istituto di ricerca indipendente, Levada Center, ha pubblicato i risultati di un’inchiesta sociologica che rileva l’impatto emotivo di quei giorni nel popolo russo.

Come accade spesso in molti sondaggi russi, la «questione generazionale» meglio discrimina la valutazione degli intervistati sul tema. In generale, il 43% del campione giudica tragici gli episodi del 1991 con «conseguenze fatali per il Paese e per il popolo», mentre il 40% sostiene che è stata una mera lotta per il potere. Il 46% tra gli over 40 afferma che il tentativo di golpe è stato «un evento funesto per il Paese», il 42% tra i 25 e i 39 anni crede che si tratti di un conflitto tra le varie fazioni mentre il 20% tra i 18 e 24 anni pensa che rappresenti «la vittoria di una rivoluzione democratica». Un altro aspetto interessante di questa ricerca è che ben il 66% degli intervistati non parteggia per nessuno degli attori coinvolti nel golpe: solo il 10% degli intervistati, prevalentemente tra i giovani, è a favore dei democratici eltsiniani, il 13% per i golpisti e l’11% ha difficoltà a rispondere.

La conoscenza degli avvenimenti del 1991 è avvenuta attraverso il cinema e la televisione (38%), la presenza agli eventi (18%), i parenti e i conoscenti (13%), la scuola (11%) e Internet (9%). Rispetto ai sondaggi degli anni precedenti è aumentata la percentuale di coloro che imputano al golpe la distruzione dell’Urss, mentre è più evidente l’orientamento dei giovani verso il concetto di «rivoluzione democratica». Complessivamente, il 67% dei rispondenti si rammarica del crollo dell’Unione e il 76% attribuisce caratteristiche positive al periodo sovietico in sintonia con altre rilevazioni che descrivono una nostalgia per il passato sia nella leadership (il 60% dei russi sostiene l’apertura del museo di Stalin) sia nell’assetto politico-economico (il 66% vorrebbe vivere nel socialismo).

L’inchiesta sociologica svolta dall’istituto filo-governativo, VTsiom, agli inizi di dicembre nell’ambito del progetto federale Trent’anni senza l’Urss rileva che l’82% dei rispondenti conosce la sigla Urss ma il 27% non sa nominare alcuna Repubblica dell’Unione. Tra coloro che riescono a citarne qualcuna, il 65% opta per l’Ucraina, seguita dalla Bielorussia al 59 e dall’Uzbekistan al 49%. Solo il 6% degli intervistati sa citare tutte le quindici Repubbliche, il 28% tra le dieci e le quattordici, il 12% da una a quattro. Inoltre, alla domanda «Quali sono gli eroi dell’Urss?», il 41% del campione afferma il cosmonauta Jurij Gagarin, il 22% Georgij Žukov e il 20% Josef Stalin. I sentimenti più negativi sono espressi nei confronti di Gorbaciov, il padre della Perestrojka, e del braccio destro di Stalin, Lavrentij Berija (20%), l’11% verso Nikita Krusciov e Stalin e il 9 per Boris El’cin. Tra i rispondenti più giovani, il 15% include anche Vladimir Lenin tra gli eroi, mentre l’antipatia/simpatia verso Stalin si attesta al 19%. Infine, l'11% dei giovani non sa il significato della sigla Urss.

Alla vigilia dell’anniversario del crollo del sistema sovietico la società russa è ancora divisa tra coloro che hanno subito in prima persona o nell’ambito familiare i nefasti effetti economici della transizione democratica e una giovane generazione che non ha un’approfondita conoscenza di quel periodo. Questa dicotomia tuttora fotografa la realtà sociale contemporanea della Russia: la minaccia di un ritorno a quel periodo traumatico degli anni Novanta che la propaganda del Cremlino continua a diffondere con efficacia per mantenere il consenso verso il presidente Putin tra gli over 50 e la tensione rivoluzionaria delle nuove generazioni «dei social media» che desiderano il cambiamento verso un futuro «libero» che tarda ad arrivare.