Nel 1964 molti eventi accompagnano la nascita della Nutella. Ce lo ricorda Gigi Padovani, nel suo documentatissimo «Mondo Nutella. 50 anni di innovazione». Il 21 agosto di quell’anno si celebrano i funerali di Palmiro Togliatti, Gigliola Cinguetti canta Non ho l’età e la fine di Carosello segnala ancora il confine tra il mondo degli adulti e quello dei bambini, costretti ad andarsene a letto con la curiosità (infantile?) del mondo dopo-Carosello. Il 1964 è un anno spartiacque, tra la fine del miracolo economico del Dopoguerra e la vigilia dei movimenti studenteschi che – da lì a cinque anni – scuoteranno piazze e Università. La «controcultura» degli anni Sessanta si fa strada, prima con il rock and roll, poi con i costumi, le visioni del mondo e infine nei comportamenti quotidiani. È proprio nella quotidianità che fa la sua comparsa – il 20 aprile del 1964 – quel barattolo a forma di esagono, dai colori semplici, con una fetta di pane sull’etichetta e una crema cacao e nocciola all’interno. Un vero prodotto locale, che sarà poi venduto in più di cento Paesi e prodotto in undici stabilimenti sparsi nel mondo, con una manodopera di novantasette nazionalità.

La Nutella assume così tanti significati, valenze e declinazioni che qualsiasi descrizione non può che essere riduttiva. Dal punto di vista merceologico è un’innovazione radicale, introduce una nuova categoria di prodotto (la crema da spalmare), costituisce un modello di branding studiato in tutti i manuali, ha costruito campagne di marketing precise ed efficaci, che si sono evolute dalla pubblicità tradizionale all’uso dei social media, ed è un long-seller: esiste da più di cinquant’anni e continua a vendere, adattandosi ai vincoli locali e al cambiamento delle preferenze di consumo. È, poi, un simbolo del difficile rapporto tra monocoltura della nocciola e paesaggio, tra esigenze imposte dalla competizione globale e radicamento locale/responsabilità sociale d’impresa, nonché un esempio della possibile convivenza di proprietà familiare e gestione manageriale.

La Nutella è stata soprattutto il simbolo di una promessa: il benessere del ceto medio come traguardo possibile per un Paese che si stava modernizzando. È stata un "dolce di ceto medio" già dai suoi progenitori, che dovevano rendere accessibile un alimento caro come il cioccolato a tutti

Ma la Nutella è stata soprattutto il simbolo di una promessa: il benessere del ceto medio come traguardo possibile per un Paese che si stava rapidamente modernizzando. È stata, potremmo sostenere, un «dolce di ceto medio» già dai suoi progenitori – il panetto di cioccolato e nocciole e il Gianduiotto, fino alla supercrema – che, nelle intenzioni prima di Pietro e poi di Michele Ferrero, dovevano rendere accessibile un alimento caro ed esclusivo come il cioccolato a tutti, all’insegna dell’eguaglianza contro il consumo riservato a pochi. Ne canterà anche Giorgio Gaber (Destra-Sinistra, 1995) «Io direi che il culatello è di destra/La mortadella è di sinistra/Se la cioccolata svizzera è di destra/La Nutella è ancora di sinistra». Vale anche, del resto, la risposta post-ideologica di Gianni Morandi: «Ci si domanda se la Nutella è di destra o di sinistra, ma io a questo gioco mi sottraggo» («la Repubblica», 11 febbraio 1995). Attori e attrici, scrittori, cantanti, politici, atlete e atleti, insieme a famiglie operaie, piccola borghesia urbana, pizzicagnoli e commerciati, impiegati e insegnati, artigiani e bottegai. La Nutella è il sogno di una mobilità sociale ascendente per tutti, che presto o tardi si avvererà. La Nutella rappresenta il benessere diffuso, quello dei beni di consumo riservati ai più abbienti che possono diventare accessibili a tutti. Un dolce di ceto medio, appunto. Come tale, un relè che connette mondi, classi sociali e ceti: la Nutella si trovava allo stesso modo nelle case dei figli dell’alta borghesia, come in quelli della classe operaia. Se tutti mangiamo la stessa crema spalmabile, che rende egualmente buono il pane comune e quello bianco latte, non siamo per forza destinati a rimanere sempre diversi.

La qualità di «dolce di ceto medio», poi, si rispecchia anche nei tempi e nelle modalità rituali del suo consumo. Negli anni del primo barattolo, gli anni Sessanta, la comunicazione pubblicitaria rimanda l’immagine della tipica famiglia male bread-winner: la moglie in piedi che spalma la crema sul pane, il bambino felice (con il caschetto, ovviamente) che guarda di sottecchi il papà, che in giacca e cravatta consuma la colazione prima di andare in ufficio (come si vede qui). Crema color nocciola per colletti bianchi? Anche, ma non solo. La comunicazione e il marketing di ceto medio sono la proiezione di rapporti economici che, in quegli anni, strutturano una specifica posta in gioco.

Il carattere universalizzante e connettivo della Nutella, il suo essere simbolo di eguaglianza possibile è simile all’effetto che Robert Castel (Disuguaglianze e vulnerabilità sociale, 1997) rileva per il rapporto salariale. Punto di attacco del ragionamento di Castel è che la conflittualità sociale ha potuto esprimersi in termini di controversia sulla disuguaglianza solo quando il rapporto salariato, estendendosi dal lavoro operaio ad altre professioni, forma la c.d. «società salariale». Solo nel continuum delle disuguaglianze salariali, dove non si danno più differenze di status/prestigio/potere indipendenti dal salario, è stato possibile per tutti i lavoratori confrontarsi fra loro e competere sul terreno dell’acquisizione di standard di vita condivisi. Le aspirazioni di ceto medio sono quindi possibili nel contesto dell’estensione del rapporto di lavoro salariato. Responsabilità dei lavoratori per la crescita economica e riconoscimento dei diritti avrebbero reso universalmente accessibili moderati, ma confortevoli, «stili di vita di ceto medio».

Le aspirazioni di ceto medio sono quindi possibili nel contesto dell’estensione del rapporto di lavoro salariato. Responsabilità dei lavoratori per la crescita economica e riconoscimento dei diritti avrebbero reso universalmente accessibili moderati, ma confortevoli, "stili di vita di ceto medio"

La società, non solo quella italiana, cambia a partire dagli anni Ottanta: si moltiplicano le forme «atipiche» di occupazione imposte dalle nuove esigenze di competitività, la contrattazione collettiva si frammenta, i sindacati si indeboliscono, il rapporto salariato si individualizza. Si sta sul mercato esclusivamente sulla base di dotazioni personali, in realtà debitrici di dimensioni collettive familiari e di classe che lo story-telling e l’epica del self-made man occultano. In queste nuove condizioni lo status di lavoratore salariato degrada e si diffonde la precarietà, che a sua volta erode le posizioni intermedie nel continuum salariale. Se si è sufficientemente forti per dotazioni individuali, acquisite personalmente e/o ereditate, si raggiungono posizioni occupazionali robuste. Il lusso del consumo dei «vincenti» riacquista valore simbolico e di distinzione verso il perdente.

Dagli anni Ottanta/Novanta aumentano così le disuguaglianze sociali e l’idea di una società di ceto medio si appanna. La crisi del rapporto di lavoro salariato e della «società di ceto medio» si riflette nel packaging del prodotto, le vaschette «monodose» che permettono un consumo solitario non più legato ai tempi e ai modi ritualizzati della famiglia male bread-winner. Ma anche nella sua comunicazione, che sostituisce la quotidianità familiare con la figura dello sforzo individuale, dello scalatore solitario ed eroico che, grazie alla Nutella, affronta la parete di roccia (minuto 2,16) o del party stile americano tra pari (minuto 2,57). La Nutella diventa oggetto di consumi ibridi: i consumi sono sempre interclassisti (più dell’80% delle famiglie acquista Nutella almeno una volta all’anno), ma i modi e i tempi del consumo sono diversi tra «vincenti» e «perdenti». Tra chi critica l’uso dell’olio di palma perché contribuisce alla deforestazione – senza rinunciare al peccato di gola – e chi si nutre come e quando può. Tra chi la accosta al cibo vegano e chi la spalma a cucchiaiate sul pane. Il magico barattolo con la crema spalmabile non rende più simili all’interno di un comune rapporto salariale, ma serve a costruire l’altro attraverso giochi di distinzione basati sulla diversa competenza nel consumo.