Il fumo di tabacco ha una lunghissima storia. Ma solo nel corso della prima metà del Novecento e soprattutto dal Dopoguerra, con l’accumularsi delle evidenze scientifiche che ne dimostravano i danni per la salute, hanno preso avvio iniziative legislative radicali dedicate, inizialmente, a proteggere i minori e i non fumatori e, poi, a contrastare il fenomeno in generale. Come a oggi è noto, il fumo di tabacco aumenta il rischio di incorrere in una serie di gravi patologie: tumori, malattie cardiovascolari e malattie respiratorie. Ma sono documentati anche danni prodotti dal fumo all’apparato riproduttivo, ai reni, alla vista e alla pelle, e danni diretti al feto per le donne in gravidanza. Non solo, un’ampia letteratura scientifica documenta anche i danni prodotti dal fumo passivo.

In Italia, tra i Paesi all’avanguardia nella lotta al fumo, è la legge n. 584 dell’11 novembre 1975 a porre, per prima, il divieto di fumare in determinati locali e sui mezzi di trasporto pubblico. Il divieto esplicita i luoghi proibiti, tra cui le corsie degli ospedali, le aule scolastiche, le sale d’attesa delle stazioni, i locali chiusi adibiti a pubblica riunione, i cinema e le sale da ballo. Pur costituendo un punto di svolta epocale, la legge del 1975 lasciava ampia possibilità di fumare in molti luoghi e contesti. È la legge n. 3 del 6 gennaio 2003, nota come legge Sirchia, entrata in vigore nel 2005, a estendere il divieto di fumo a tutti i locali chiusi (con la sola eccezione dei locali riservati ai fumatori e degli ambiti strettamente privati come le abitazioni civili).

Secondo diversi studiosi queste leggi, e altre ancora, ma in particolare la legge Sirchia, hanno contribuito a ridurre l’abitudine al fumo. I dati sul consumo di tabacco in Italia mostrano, nel corso degli ultimi decenni, una significativa e generale diminuzione di fumatori e di forti fumatori (coloro che fumano almeno 20 sigarette al giorno). Malgrado ciò, secondo i dati Passi dell’Istituto superiore di sanità, in Italia nel 2022 i fumatori tra i 18 e i 69 anni risultano ancora essere il 24,2% della popolazione (in aumento del 2% rispetto al 2019), con una maggiore prevalenza di uomini. Mentre la frazione attribuibile al fumo di tabacco nella mortalità costituirebbe circa il 12% della mortalità complessiva (simile alla media mondiale). Ciò significa che, immaginando la cessazione improvvisa dell’abitudine al fumo, potremmo idealmente ridurre la mortalità della popolazione italiana di almeno un decimo (di circa un quinto quella maschile).

Le leggi della Repubblica nascono però con l’intento, esplicito nei titoli stessi degli articoli, di proteggere i non fumatori dalle scelte dei fumatori. In tal senso pare evidente una premura dei legislatori, ossia evitare che queste norme si presentino come l’intromissione di uno Stato etico nelle scelte individuali, puntando, viceversa, sul garantire ai non fumatori la protezione da un fattore di rischio indesiderato e pericoloso. L’idea è “contrastare il fumo” non per costringere i fumatori a smettere, ma per salvaguardare la salute dei non fumatori e della collettività in senso più ampio (se vogliamo è la stessa logica sottostante il recente Green pass). Una popolazione più sana è una popolazione che gode di maggiore benessere per se stessa, con maggiori possibilità di realizzare le proprie opportunità di vita, ma anche una popolazione più funzionale al sistema economico-produttivo e, inoltre, meno costosa per la sanità di tutti.

L’idea è “contrastare il fumo” non per costringere i fumatori a smettere, ma per salvaguardare la salute dei non fumatori e della collettività in senso più ampio

Ma sarebbe sbagliato considerare il tema del fumo di tabacco come esclusiva materia di sanità pubblica: esso infatti costituisce un ambito di grande interesse per gli studi sociali. L’abitudine al fumo di tabacco, e tutto ciò che lo interessa, può essere considerata un fenomeno entro il quale si ritrovano tutti gli elementi essenziali della complessità che caratterizza le comunità umane e il rapporto tra individuo e società. Accenniamone qui alcuni aspetti.

Innanzitutto, il consumo di tabacco è condizionato socialmente. Se a una visione ingenua può apparire scontato affermare che “nessuno è costretto a fumare”, un’enorme quantità di studi scientifici mostra invece che i fattori socio-ambientali, così come anche quelli biologici, hanno un ruolo fondamentale nell’incentivare o meno il consumo di tabacco. Svariati articoli mostrano una relazione importante tra le condizioni socio-economiche e la propensione a fumare. Tra gli uomini, sono quelli con un minore grado di istruzione, o che occupano posizioni occupazionali svantaggiate, a fumare di più. Condizioni di disoccupazione e altre situazioni di svantaggio sul mercato del lavoro, sono associate a una maggiore propensione al fumo. Vale la pena notare che in Italia, tra gli uomini, la diminuzione dei fumatori ha interessato relativamente di più i maggiormente istruiti rispetto ai poco istruiti. Tendenza che invece non si è osservata per le donne.

La stessa storia dell’evoluzione tra fumo di tabacco e condizioni sociali è interessante. Negli anni Cinquanta l’abitudine al fumo era più diffusa tra le persone più istruite, verosimilmente come manifestazione di status symbol. Le immagini iconiche dei divi americani con la sigaretta pendente dalle labbra, come James Dean o Humphrey Bogart, spopolavano e con esse la diffusione del “vizio”. Tuttavia, con il passare dei decenni, si è fatta sempre più strada, a partire dalla ricerca medica e scientifica, la consapevolezza dei danni prodotti dal fumo (a cui accennato sopra). Nel corso del tempo, l’associazione tra fumo e livello d’istruzione è andata quindi invertendosi, almeno per gli uomini, mostrando gli effetti di quel processo oggi etichettato come health literacy, ossia la padronanza di strumenti culturali da parte di un segmento della popolazione (tendenzialmente quello in posizione socio-economica migliore) in grado di comprendere realisticamente quali siano i rischi per la salute, e di agire di conseguenza a propria salvaguardia (e di quella di familiari e affini culturali).

Un’enorme quantità di studi scientifici mostra che i fattori socio-ambientali, così come anche quelli biologici, hanno un ruolo fondamentale nell’incentivare o meno il consumo di tabacco

Tali dinamiche sociali, in cui si assiste a un trasferimento di risorse socio-economiche e culturali sulla salute, al fine di migliorare le chance di godere di una vita di benessere psico-fisico, o di evitare o superare malattie e problemi di salute, sono ampiamente note tra gli studiosi che si occupano di disuguaglianze sociali nella salute. Altri studi mostrano il ruolo delle reti relazionali (o network) nell’influenzare, soprattutto durante l’adolescenza o in giovane età, l’abitudine al consumo di tabacco. È dimostrato che una persona che voglia smettere di fumare ha maggiore probabilità di successo se circondata da non fumatori piuttosto che da fumatori, al di là della sua “forza di volontà”. Altre ricerche ancora, in ambito economico, si dedicano invece a indagare il ruolo del costo delle sigarette come disincentivo al fumo, il cui aumento di prezzo parrebbe incidere più sulla propensione che non sull’intensità.

Un ulteriore campo di indagini è quello dell’interazione fumo-inquinamento, che mostra un’amplificazione degli effetti nocivi del fumo nelle aree inquinate. Infine, non va dimenticato anche il ruolo dell’interazione tra ambiente e biologia, dato che l’assuefazione alla nicotina o la predisposizione a provare piacere nel consumo di tabacco hanno anche basi genetiche che possono parzialmente vanificare politiche sanitarie e campagne contro il fumo.

Il tema appare dunque complesso, e interseca tanti ambiti differenti – medico-sanitario, economico, sociale, politico – sui quali non è semplice intervenire con successo. Di certo, l’abitudine al fumo di tabacco costituisce un fattore di rischio conclamato per la salute della popolazione, e questo fattore si sovrappone in parte anche con svantaggi di tipo socio-economico e ambientali. Il suo contrasto – qualsiasi siano i mezzi impiegati, dai divieti, all’aumento dei prezzi, alle campagne di prevenzione – costituisce un obiettivo finalizzato a ridurre quelle perdite umane etichettate dagli epidemiologi come “morti evitabili”.

Pensare che qualcosa di nefasto possa essere evitato senza far nulla per evitarlo appare irragionevole, ancor prima che non etico. La legge dell’11 novembre 1975 rimane un punto di partenza miliare, con cui lo Stato italiano ha intrapreso convintamente un percorso di ragionevolezza.