In Sardegna le elezioni comunali si terranno a giugno, il 16 e il 30, dopo le europee. Perché? Non si sa, fa parte dei misteri gloriosi delle autonomie speciali. A Sassari, dopo la legislatura molto accidentata del sindaco uscente Nicola Sanna, un Pd eletto alle primarie contro la candidata ufficiale del suo partito, la gara è per ora a più corsie, destinate ovviamente a ridursi a due nel probabile ballottaggio.

Nel campo della destra-destra il neopresidente della Regione, il sardista Solinas (vincitore a mani basse delle recentissime regionali, in alleanza con Lega, Forza Italia e un grappolo assai consistente di liste civiche) ha prima imposto agli otto partiti e partitini e alle tre liste civiche della coalizione sassarese un suo singolare aut aut (singolare assai, per uno che si proclama autonomista): il nome del candidato sindaco non lo si sarebbe deciso a Sassari, ma a livello regionale. Poi ha lasciato che la “sua” coalizione esprimesse la candidatura locale di Mariolino Andrìa, un geometra che piace ai sardisti e ai “minori” ma non a Forza Italia, che probabilmente starà sull’Aventino.

Faranno parte della gara, correndo da soli nel primo turno, anche un 5 Stelle, Maurilio Murru, più Marilena Budroni di Autodeterminazione (variante sardista) e un ex dipietrista, Lino Mura.

Intanto però a destra si è profilato anche qualcos’altro, e nient’affatto marginale. È la candidatura eccellente, “personale”, dell’ex sindaco ed ex senatore An Nanni Campus, medico universitario, espressione della buona borghesia sassarese, con molte amicizie trasversali, messosi a capo di una lista civica personale che egli stesso definisce “fuori dai partiti”. Piace a molti: vedremo.

Anche nel centro-sinistra è emerso un nome pesante, espressione della società civile: è quello del magistrato (ma a fine carriera, tiene a precisare lui, impegnandosi a dimettersi) Mariano Brianda: bella esperienza giudiziaria alle spalle (Corte d’appello), famiglia cattolica ma progressista (un padre sindaco con la Dc), militanza nel volontariato, anche lui candidatosi “non contro” ma certo “nonostante” i partiti. Anzi, protagonista di un piccola prova di forza, per avere esordito dichiarando alla stampa che gli assessori, se vince, se li sceglierà lui, come peraltro dice la legge elettorale. Il che ha provocato un estenuante tira e molla nelle segreterie, ora risolto (o almeno così pare) da un appoggio del Pd e liste alleate. 

Due osservazioni. La prima (già lo si era notato nelle recentissime regionali sarde, affollate di liste civiche d’ogni tipo): la parola “partito” non va più di moda. I candidati preferiscono prescinderne. Molti vecchi e nuovi dirigenti di partito “corrono con barbe e baffi finti”, mascherati da capolista di aggregazioni indipendenti. Naturalmente la legge elettorale comunale fa la sua parte: perché se il sindaco ottiene legittimazione diretta nel voto è abbastanza ovvio che poi voglia farsene forte quando ha a che fare con consigli comunali espressi invece da altra votazione, distinta, eletti sulla base di liste partitiche o simili. Si era pensato che le primarie (e qui parliamo del solo centro-sinistra) potessero ovviare al corto circuito, ma anch’esse ormai non godono di buona salute: dopo le prove recenti (senza regole chiare sono risultate campo per molti tentativi di adulterazione) i candidati extra-partito non se ne fidano più, e forse con qualche ragione. Diverso se fossero regolate per legge, ma questo è un altro discorso.

La seconda osservazione riguarda le qualità che deve avere, in un simile contesto, un buon sindaco. Prevalgono candidati – lo si è detto – della società civile, dotati di un loro consenso personale indipendente (un neo-notabilato, rispetto ai sindaci muniti di tessera del passato); si affermano programmi molto più plasmati sulle domande locali, nei quali i riferimenti politici valoriali sono ampiamente marginali (sindaci del territorio, la cui capacità sarà misurata dall’energia che sapranno mettere nella difesa degli interessi territoriali). A Sassari, ad esempio, sia Campus che Brianda parlano soprattutto di come fronteggiare la crisi del capo di sopra (la Sardegna del Nord e il suo storico capoluogo) rispetto a una Cagliari pigliatutto dove si polarizzano ormai quasi i due terzi della popolazione sarda (la quale, di per sé, è peraltro da anni in costante diminuzione). Un certo spirito di campanile, in passato mediato da una sapiente classe dirigente dei vecchi partiti, domina le prime schermaglie elettorali.

Tutto ciò avrà le sue conseguenze. Perché la storia sarda, dal dopoguerra a oggi, la si è fatta in prevalenza in Regione, da parte di una classe politica più regionale che municipale. Con un ruolo debole delle città e dei loro interessi rispetto alla dominante visione regionalistica dei problemi. Una vecchia eredità del passato, lo si è detto tante volte (in Sardegna le città hanno storicamente contato poco, se si eccettua il caso di Cagliari), confermata da un’analisi – facile a farsi – sulla composizione dei consigli regionali succedutisi dal dopoguerra.

Ma adesso – ecco il punto – la tendenza si inverte: predominano visioni territoriali o subterritoriali, localismi persino. Nessuno in Sardegna (tanto meno la confusa galassia che si rifà all’indipendentismo) ha un’analisi dell’oggi né un progetto per il domani che riguardi tutti i sardi. Eppure incombono grandi sfide: la globalizzazione sta riducendo la storica condizione di insularità; i grandi flussi migratori pongono, a una Sardegna spopolata, il tema cruciale del possibile ripopolamento all’esterno; e dalle zone interne abbandonate viene un grido di dolore. In assenza della politica, sia quella dei partiti sia quella delle élite, sono tutte domande che restano senza risposta.

 

[Questo approfondimento sulle amministrative di maggio tocca le quindici città più popolose in cui si rinnovano i Consigli comunali: BariBergamoCesena, Ferrara, FirenzeFoggia, Livorno, Modena, PerugiaPescara, PratoReggio Emilia, insieme a Cagliari e Sassari dove, in ragione dell’autonomia dell’Isola, si voterà il 16 giugno.]