Città di grande tradizione industriale negli anni del miracolo economico, anzi la prima città industriale – assieme a Milano – tra i capoluoghi di provincia lombardi (e, quindi, italiani) nel 1951, ora Pavia presenta un tasso di industrializzazione inferiore a quello di Sondrio, storicamente il «fanalino di coda» in Lombardia.Città di grandi imprese (Necchi, Neca, Snia, Galbani, Körting, Fivre-Magneti Marelli), ma anche della meccanica strumentale e di precisione basata su piccole e medie imprese (basti ricordare Vigorelli, Moncalvi, Landini, Caser, Fedegari), con un ruolo fondamentale giocato da un incubatore ante litteram di tecnici e imprenditori potenziali rappresentato dal reparto «attrezzeria» della Necchi, in cui si sono formati molti degli imprenditori pavesi dell’epoca (da Cerliani, Bianchi, Giavotti, Losio a Cattaneo e Nascimbene), ancora a cavallo tra anni Settanta e Ottanta Pavia presentava un’elevata agglomerazione di imprese specializzate nella produzione di macchine utensili.

Ma Pavia è anche città universitaria (con la presenza di collegi universitari storici sul modello “Oxbridge”) e, in questa doppia veste di città industriale e universitaria, si ricollega molto all’esperienza di Oxford (piuttosto che a quella di Cambridge), ma come Cambridge sembra aver sempre sofferto l’opposizione town and gown, la difficile conciliazione tra gli obiettivi dell’università e quelli della città e del territorio. Il punto più alto del potenziale conflitto si è forse raggiunto ai tempi del Piano De Carlo, che attribuiva uno spazio rilevante ai potenziali insediamenti universitari ma vincolava in modo rilevante le aree per l’espansione industriale.

Il declino, prima demografico e poi economico, della città è individuabile anche nel trasferimento progressivo in aree esterne da parte delle imprese – che mostravano esigenze di espansione – e di cittadini alla ricerca di abitazioni meno costose, e non solo nella crisi della grande impresa nella prima metà degli anni Settanta, che ha lasciato vuoti urbani e «ferite» ancor oggi aperte. Nella fase di transizione (non solo della città ma anche dell’intero Paese) dall’industrializzazione di grande impresa alla ristrutturazione industriale di fine anni Settanta-inizio Ottanta, Pavia è divenuta una delle aree privilegiate, assieme a Modena e Prato, per lo studio dei processi di ristrutturazione e di sviluppo della piccola impresa. A metà degli anni Settanta una ricerca promossa dalla Camera di Commercio e della Provincia di Pavia ha coinvolto un primo gruppo di ricercatori e docenti dell’Università, appartenenti a diversi istituti e facoltà, avviando una fase di sistematici confronti tra istituzioni, mondo produttivo e parti sociali che continuerà per tutti gli anni Ottanta e per buona parte degli anni Novanta. Erano gli anni della riflessione congiunta e inter-istituzionale, di una ricerca partecipata, di tentativi di avviare piani e progetti di sviluppo condivisi. Erano gli anni delle Conferenze economiche territoriali, dei confronti e dei dibattiti pubblici sull’occupazione, delle riflessioni sulle opportunità di valorizzare le competenze e le risorse locali.

Nei primi anni Novanta parte un’avventura coraggiosa, ma sfortunatamente senza esiti positivi, con l’avvio del Progetto del Polo tecnologico. Prendendo spunto dall’esperienza di Cambridge che, da pochi anni, aveva avviato una collaborazione tra centri di ricerca universitari e il mondo delle imprese, lanciando un’esperienza di industrializzazione e di innovazione in una città che da secoli si era «cullata» nella dimensione dello studio e della ricerca ma senza effetti di trasmissione sulle attività economiche del territorio, si lancia a Pavia l’idea della costruzione di una visione del futuro basata sulla potenziale integrazione delle competenze della ricerca e di quelle imprenditoriali. Pavia è la prima città in Italia in cui si avvia una riflessione collettiva e un progetto di questo tipo.

In quegli anni Pavia riveste un ruolo importante anche a livello della capacità di sviluppare intense relazioni internazionali: l’organizzazione di numerosi convegni internazionali e di seminari e conferenze sui poli tecnologici e i processi innovativi (con la partecipazione di studiosi e attori economici di Grenoble, Cambridge, Toulouse, Sophia Antipolis), la partecipazione a progetti europei di ricerca e di formazione, la presenza di molti visiting professor, gli intensi scambi Erasmus avevano prodotto condizioni particolarmente favorevoli all’apertura internazionale e allo sviluppo di potenziale creatività.

Una grande occasione che si è arenata nei meandri dell’intermediazione burocratica (regionale ed europea) e che ha sofferto un blocco generato dal conformismo diffuso in gran parte della classe dirigente locale dell’epoca, cui si è aggiunto il mancato coraggio da parte delle imprese – non solo dell’area pavese, ma più in generale dell’area milanese e lombarda – di individuare un percorso più orientato alla ricerca e all’innovazione (che, dunque, le rendesse sensibili alla necessità di stabilire rapporti più intensi con il mondo della ricerca, oltre che disponibili a mobilitare risorse interne in quella direzione) e all’apertura con il mondo esterno. Certamente è stata determinante la mancanza di un gruppo dirigente capace di scommettere sul progetto e di coinvolgere attorno a sé altre forze, conoscenze, competenze e risorse finanziarie. Erano gli anni delle fusioni bancarie e della progressiva chiusura delle banche del territorio, ma anche quelli dell’inizio dell’austerità europea determinata dagli accordi di Maastricht. Potenzialità rilevanti, dunque, ma in una congiuntura politico-istituzionale sfavorevole, e che probabilmente non è stata ancora completamente metabolizzata e compresa.

La città si è dunque progressivamente trasformata, dalla seconda metà degli anni Ottanta, con un struttura economica sempre più orientata all’impiego pubblico (con un peso crescente dell’Università, del Policlinico e delle fondazioni sanitarie) e alle attività commerciali, perdendo via via in termini di imprenditorialità e di capacità di individuare cammini alternativi nella produzione industriale. In questa situazione è cresciuto a ritmi intensi il pendolarismo verso l’area metropolitana milanese, la «fuga di cervelli» all’estero (sin da quegli anni erano all’opera i «cacciatori di teste» alla ricerca di neolaureati soprattutto in ingegneria elettronica per le imprese americane). In una situazione del genere si sprecano le risorse umane del territorio e si indeboliscono le capacità di sviluppo endogeno, mentre aumenta il ruolo dell’intermediazione politica.

In questa prospettiva sembra sempre più strano come in una città universitaria con questi trascorsi e con esperienze spesso condivise non si riesca ad alimentare un dibattito pubblico sul «che fare», in una logica che consenta non solo di organizzare una ricerca comparata (con altri territori in Italia e all’estero) sui cambiamenti in atto ma anche sulle opportunità da valorizzare. Una città che ha spesso anticipato i tempi (anche l’esperienza del governo di centrosinistra a Pavia ha anticipato quello nazionale), ma che non è capace di conservare la memoria delle iniziative intraprese e non riesce a interrogarsi sulle opportunità di cambiamento e sul ruolo potenziale dei vari attori (pubblici e privati) in un progetto di costruzione di una visione condivisa del futuro.

 

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