Una città di oltre 670 mila abitanti, fra le cinque maggiori d’Italia, la cui storia nei lunghi decenni della cosiddetta «Prima Repubblica» è fatta di inefficienza nella regolazione pubblica e di debolezza economica. Una storia, quella di Palermo, per molti aspetti simile a quella di altre città del Sud.

Peculiare era semmai la presenza della criminalità mafiosa, cui, probabilmente, più che al resto, la città a lungo ha legato la sua reputazione. Così, accanto al sacco edilizio e alla scomparsa della sua conca di agrumeti, le immagini degli omicidi e degli attentati, fino alle stragi in cui persero la vita i giudici Falcone e Borsellino, hanno costituito le trame di una narrazione che per decenni è stata univoca e monotono.

La storia più recente fuoriesce da questa narrazione. Negli ultimi trent’anni Palermo ha oscillato fra opzioni di governo diverse. Un pendolo che ha avuto origine a metà degli Ottanta, gli anni della cosiddetta «primavera». Sull’onda di una intensa mobilitazione civile, il baricentro delle coalizioni di governo guidate da un giovane Leoluca Orlando si spostò a sinistra, rompendo con lo schema dominante dal dopoguerra; ma già nel 1990 una normalizzazione degli equilibri politici riconsegnava la città a un monocolore Dc. La riforma dei governi locali avrebbe scandito le successive oscillazioni. Fra il 1993 e il 2000, com’è noto, è la volta di Orlando e del centrosinistra. Sono gli anni del recupero di identità su un piano simbolico, ma anche del restauro del centro storico, delle politiche culturali, della razionalizzazione dei servizi pubblici e della coesione. Mentre la città si divide sul bilancio fra le cose fatte e le tante che rimangono da fare, una inversione porta il centrodestra a conquistare il governo, con un sindaco espresso da Forza Italia che governerà fra il 2001 e il 2012. L’agenda cambia radicalmente segno.

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La programmazione di ambiziosi piani di infrastrutturazione della città sacrifica impegno per la vivibilità e l’efficienza dei servizi pubblici, il cui generale scadimento è esemplificato da una grande emergenza-rifiuti che riporta Palermo alla ribalta nazionale. L’attenzione sconsolata dell’opinione pubblica è concentrata sulle inchieste avviate nei confronti del sindaco e di altri esponenti del governo urbano, quando su una Palermo del tutto impreparata arrivano, in ritardo rispetto al resto del paese, gli effetti della crisi economica. Nel 2012, si apre un nuovo ciclo politico-elettorale, e una nuova inversione, mutatis mutandis, riporta Orlando al governo, nel momento in cui gli effetti della crisi si fanno anche qui più gravi e manifesti. L’avvio è segnato dal fallimento dell’Amia, la municipalizzata per la gestione dei rifiuti e dall’emergenza del risanamento, ma faticosamente, vengono riprese le fila di un’agenda incentrata sulla promozione della cultura, la cura dell’ambiente e della vivibilità. E, dopo le difficoltà iniziali, arrivano alcuni risultati. Nel 2018 Palermo ospiterà Manifesta, la biennale europea di Arte contemporanea, e per lo stesso anno è stata proclamata capitale della Cultura, viene istituita una zona a traffico limitato, una «ztl» che fra bocciature del Tar ed errori pubblici la città aspettava da 15 anni, vengono sistemate ville e parchi, viene estesa la pedonalizzazione all’interno del centro storico. Vengono anche inaugurate le prime linee di collegamento dalle periferie al centro di un tram fortemente voluto da Orlando, e altre ne vengono progettate e fatte accettare a pezzi di una società civile perplessa ma non disattenta. Intanto, tutti continuano a rinnegare quei cantieri di opere avviate negli anni passati che, ancora aperti, paralizzano la città. Siamo all’oggi. Alla scadenza per il rinnovo del mandato Orlando trova - fra gli altri - uno sfidante che ha incontrato il sostegno di leader navigati del centrodestra come Cuffaro e Miccichè, e che dichiara in campagna elettorale di essere contrario al progetto di mobilità della giunta uscente, di volere sospendere e rivedere la ztl e di rimettere in discussione perfino le opere dei cantieri già aperti. Una nuova potenziale inversione dunque, arrestata però dal voto dello scorso 11 giugno, che ha sancito l’affermazione elettorale di Orlando sui suoi sfidanti, consentendogli di rinnovare il suo rapporto ormai storico con la città.

È un percorso politico-istituzionale accompagnato da importanti traguardi nella repressione della criminalità. E che è stato sostenuto da cambiamenti sociali e civili apprezzabili a diversi livelli. Da quello dei comportamenti che hanno contribuito a cambiare l’aspetto fisico del centro storico della città, ieri invaso da automobili, oggi popolato da pedoni e biciclette. Alla diffusione di nuove forme di partecipazione urbana per la promozione di beni comuni, dagli spazi verdi all’artigianato artistico. Fino alla sensibilizzazione per l’affermazione di una cultura dell’accoglienza e del multiculturalismo. Una crescita che si è anche arricchita di una stagione di rinnovamento dei vertici del mondo delle imprese e delle associazioni di categoria, che negli ultimi anni sono state più aperte e propositive nella discussione pubblica sui beni collettivi, e alla quale perfino i vertici locali della chiesa sembrano oggi più in grado di contribuire. Ma è un percorso segnato da oscillazioni politiche che non hanno giovato fino in fondo al governo urbano, in quanto hanno corrisposto a impulsi a singhiozzo verso strategie che necessitano ogni volta di essere re-imbastite. Oscillazioni che non sembrano giovare neanche alle stesse forze partitiche, incapaci di strutturare un’offerta politica credibile e al tempo stesso di rinnovarsi. Un pendolo fra opzioni di governo, insomma, che ha consentito indiscussi passi in avanti su diversi aspetti della qualità urbana; ma non ha ancora permesso un deciso salto verso un moderno percorso di sviluppo, trattenendo la città in un «vorrei ma non riesco» in cui rimane sacrificata la crescita economica.

Su questo piano la stagnazione non è stata mai superata, e la crisi, che la città non ha ancora messo alle spalle, ha riaperto importanti questioni.

Fra l’ulteriore ridimensionamento del manifatturiero e le difficoltà del comparto edile, la città avrebbe rafforzato la sua connotazione terziaria. Se non fosse che la contrazione dei consumi e l’apertura dei grandi centri commerciali hanno segmentato il settore privato prevalente, quello del commercio, lasciando in difficoltà buona parte degli esercizi tradizionali. E che i «call center», ovvero quel modestissimo risultato partorito da una stagione di eccessiva fiducia nelle possibilità dei settori più innovativi e delle comunicazioni, dichiarano continuamente in esubero il loro personale.

Rilevante è però la crescita dei flussi turistici, influenzati, certo, anche da fattori geopolitici. Ma è una crescita che si iscrive in una strategia con la quale la città, pure nelle alterne vicende del suo pendolo politico-istituzionale, ha valorizzato molta parte del suo patrimonio, e continua a farlo. Anche gli sforzi, di nuovo altalenanti, di riqualificare l’ambiente urbano e di riordinare i servizi pubblici sono importanti tasselli di un sistema integrato di politiche che punta a una crescita economica basata sulla valorizzazione della cultura e del turismo. È però una crescita che va consolidata e che non raggiunge oggi la forza di traino sull’intero sistema, lasciando inalterate le emergenze che la città deve alla crisi. Un tasso di occupazione in decrescita fino a quel 41% che rappresenta il livello più basso fra le grandi città (dopo Napoli); e un tasso di disoccupazione in continua crescita fino a superare oggi il 20%. La diminuzione del già basso reddito disponibile e la crescita degli anni passati di furti e rapine indicano che si riacuisce la questione di un sottoproletariato urbano che, nelle periferie come nel centro, rimane al margine di ogni attuale strategia, e per cui le opzioni percorribili sono poche. Alcuni fra i giovani più istruiti, che come altri però non trovano uno sbocco occupazionale, cambiano invece residenza. Una scelta che si diffonde, nell’attesa che la città faccia quel salto che le consenta di superare un modello di sviluppo ancora sbilanciato sulla redistribuzione di risorse pubbliche, che la crisi ha reso ancora meno inclusivo che in passato.

 

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