In un recente articolo pubblicato su questa rivista, Gianfranco Viesti ha svolto numerose osservazioni critiche sui finanziamenti assegnati ai «dipartimenti di eccellenza», in attuazione della legge di bilancio per il 2017. Prima ancora che la norma e la sua implementazione, a essere contestato è il criterio di merito che costituisce lo spirito alla base di questa norma. Ma non solo: è contestata la valutazione di merito dei dipartimenti basata sulle pubblicazioni dei membri dei dipartimenti ad opera di Anvur ed è contestato il carattere sperequativo della norma a detrimento delle università del Sud, mentre è indicato il finanziamento come sostitutivo del più equo Fondo finanziamento ordinario (Ffo).

Si possono discutere, e li si discute sovente (anche se con critica non accompagnata costantemente da analoga proposta), i criteri e le metodologie posti a fondamento della Valutazione della qualità della ricerca (Vqr); non si può invece mettere in discussione il fatto che la Vqr sia, ad oggi, l’unico strumento istituzionale individuato per valutare la produttività e l’eccellenza della ricerca universitaria italiana. La stessa ripartizione del Ffo (vedasi, da ultimo, il decreto Miur 29 dicembre 2016, n. 998) attribuisce alla Vqr, tra gli altri criteri distributivi, il 65% delle risorse finanziarie. L’individuazione e il finanziamento dei «dipartimenti di eccellenza» si inscrive dunque in continuità su questa linea, rivolgendosi direttamente ai singoli dipartimenti universitari («motore» della riforma di cui alla legge n. 240 del 2010) e non soltanto agli atenei, e agli ulteriori criteri di ripartizione che essi possono, a propria volta, decidere autonomamente. Una continuità frutto di una scelta di merito (quella di premiare l’eccellenza) e del «merito»: in questo senso, certamente sì, una scelta politica.

In particolare, l’indice Ispd, utilizzato per l’individuazione dei «dipartimenti di eccellenza», è stato calcolato da Anvur strettamente sulla base dei risultati della ultima Vqr, relativa agli anni 2011-2014: l’indice dunque non poteva essere oggetto, come sostiene Viesti, di «formulazioni alternative», dovendo invece necessariamente rintracciare, come previsto dalla legge di bilancio, ogni sua motivazione proprio nella Vqr. Dobbiamo inoltre rilevare, fatto questo del tutto omesso (consciamente o meno) dallo stesso Viesti, che i risultati della Vqr sono stati resi noti e pubblicati ben successivamente – nel giugno 2017 – alla presentazione in Parlamento, e alla stessa approvazione, della legge di bilancio – 23 dicembre 2016. Quindi qualsiasi affermazione circa una eventuale «premeditazione» della determinazione dei criteri, atta a favorire l’individuazione di alcuni dipartimenti di eccellenza a scapito di altri, è ingiuriosa, prima ancora che falsa.

Pur essendo lo spirito della norma chiaramente orientato a premiare i dipartimenti sulla base di oggettivi criteri di merito, ci sono due meccanismi perequativi. Il primo è quello che attribuisce 70 punti su 100 al valore dell’indice Ispd, e i restanti 30 punti alla valutazione di un apposito progetto dipartimentale: i 70 punti sono un limite alla discrezionalità della commissione Anvur, ma i 30 punti del progetto sono un’opportunità concreta anche per dipartimenti (molto spesso del Sud) che – a parità di Vqr – fanno progetti di sviluppo seri. Poiché la norma dei dipartimenti di eccellenza è strutturale, crediamo svolga un prezioso ruolo di indirizzo anche per i dipartimenti che non vincono: scrivere collegialmente un progetto di sviluppo è un esercizio molto utile in sé, e orientare le assunzioni ordinarie a migliorare la Vqr del dipartimento in modo da poter vincere la prossima volta costituirebbe una vera svolta nel modo in cui si gestiscono le assunzioni nell’università italiana.

Il secondo meccanismo perequativo sta nel fatto che almeno un finanziamento sui 180 disponibili deve comunque essere attribuito al migliore dipartimento (individuato ancora sulla base dei due predetti criteri) di ciascun ateneo italiano. Quindi ogni ateneo del sud avrà almeno un dipartimento premiato (solo 7 atenei su 70, 4 del Centro Nord e 3 del Sud, non avranno alcun premio perché nessuno dei loro dipartimenti supera la mediana della Vqr).

Infine, evidentemente disconoscendo il contenuto dell’art. 1, comma 324, della legge di bilancio, Viesti sostiene ancora che «nei dispositivi di legge non vi è alcun elemento per affermare che si tratti di finanziamenti aggiuntivi» al Ffo degli atenei italiani. Il predetto comma 324, al contrario, specifica chiaramente che le risorse stanziate per il finanziamento dei «dipartimenti di eccellenza» sono previste in una «apposita sezione» del medesimo Ffo: una sezione apposita e separata al punto che le risorse eventualmente non utilizzate per il finanziamento dei «dipartimenti di eccellenza» confluiscono, nel medesimo esercizio finanziario, tra le risorse generali dello stesso Ffo. Si deve dunque riaffermare che le risorse finanziarie destinate al finanziamento dei «dipartimenti di eccellenza», così come le altre risorse che la stessa legge n. 232 del 2016 destina a numerose iniziative in favore del sistema universitario (tra queste, la riduzione delle tasse e dei contributi universitari a carico degli studenti, i fondi di ricerca annualmente attribuiti ai professori associati e ai ricercatori), sono sempre risorse aggiuntive al Ffo, e non sostitutive di parti di esso. Si tratta di risorse ingenti (1,3 miliardi di euro soltanto quelle relative ai «dipartimenti di eccellenza»), che si aggiungono dunque ai circa 7 miliardi di euro, valore sul quale si è attestato il Ffo dall’anno 2014 ad oggi.

È senz’altro vero che l’università italiana ha bisogno di più finanziamenti indistinti nel Ffo, ma è anche vero che senza premiare il merito della ricerca –come del resto si fa in tutta Europa- il nostro sistema universitario rimarrà sempre indietro nella ricerca e nella qualità per la mancanza dei giusti incentivi nei meccanismi di reclutamento.