Un progetto duraturo? Fino al 2007, se alcuni osservatori pronosticavano l’ascesa cinese a prima economia mondiale nell’arco di un secolo, solo le più azzardate profezie riducevano questa prospettiva a cinquant’anni. Da allora si sono moltiplicate previsioni, anche autorevoli, di un sorpasso rispetto agli Stati Uniti già attorno al 2025/2030 (ad esempio quelle fornite dal National Intelligence Council nei suoi Global Reports); del resto la quota del commercio internazionale cinese sta già di fatto superando quella statunitense. Il paradosso però è dato dalla evidente preoccupazione della stessa leadership cinese per gli scenari che sembrano aprirsi.

Il Peaceful rising concepito da Deng come processo graduale proiettato sul lungo periodo è stato il punto di riferimento per il discorso politico cinese relativo all’ascesa del Paese. La consapevolezza dei timori che l’emergere della Cina avrebbe suscitato negli Usa e in Asia, la lezione delle reazioni all’ascesa giapponese negli anni Ottanta, la necessità di garantire una certa stabilità interna a fronte dei disequilibri determinati da una crescita troppo rapida sono gli elementi che hanno spinto i dirigenti cinesi a preferire in campo internazionale "vie traverse", piuttosto che scelte che affermassero in modo palese il potere crescente del Paese. Il rifiuto di un ordine mondiale egemonico a favore di un sistema multipolare, centrato sul ruolo delle Nazioni unite e degli organismi internazionali, e la rappresentazione della Repubblica popolare come "il primo dei Paesi poveri" sono stati fino a oggi gli aspetti caratterizzanti la politica estera cinese, nel contesto teorico dato dal principio non negoziabile della sovranità nazionale come cornice inalterabile di ogni concezione del ruolo del Paese nel sistema internazionale.

La crisi ha invece improvvisamente collocato la Cina al vertice del sistema internazionale a fianco degli Usa: nel 2008 si affermò la formula del G2, poi gradualmente abbandonata perché rifiutata dai cinesi stessi. Dopo una prima fase "aggressiva" e polemica nei confronti di chi aveva provocato la crisi, la diplomazia cinese ha cercato allora di muoversi in due direzioni: sottolineare la collaborazione con gli americani e nel contempo sostenere l’emergere di forum internazionali non monopolizzati dagli occidentali, con un vago richiamo a Bandung, altro riferimento centrale per Pechino. Il G20 e poi i cosiddetti Brics, di cui fa parte, hanno dato garanzia di una maggiore autonomia politica e di sufficienti dimensioni economiche. Tentando così di adeguarsi alla nuova situazione, mantenendosi però su binari tradizionali e rassicuranti, la Cina ha provato inoltre a compensare il crollo delle esportazioni verso gli Usa con l’aumento degli scambi commerciali verso i Brics e i Paesi in via di sviluppo.

Dal 2010, l’evidente insufficienza delle importazioni di tali Paesi come compensazione delle perdite sul mercato americano e su quello europeo, e contemporaneamente la preoccupazione per la lentezza della crescita della domanda interna nonostante i forti stimoli forniti, hanno spinto la Repubblica popolare a sviluppare relazioni speciali con alcuni Paesi: Brasile e Russia da un lato, ma soprattutto la Germania. Gli accordi bilaterali con questa hanno permesso di superare la crisi dei rapporti con la Ue del 2008 e di sancire il suo riconoscimento come interlocutore privilegiato: la crescita delle esportazioni tedesche nei due anni successivi ne è stata conseguenza diretta.

Comunque, al di là di tali scelte, il paradosso della politica estera cinese permane: la nuova leadership si trova ad affrontare la necessità, non più rinviabile, di "inventarsi" una politica globale che sia al passo con il ruolo effettivo del Paese nel sistema internazionale, al di là dei periodici revival nazionalisti nelle relazioni con il Giappone e di una riaffermazione del principio di sovranità nazionale come panacea di ogni scelta strategica. La Cina ha risposto finora ai sempre più frequenti momenti di attrito in termini di singole scelte legate a contesti specifici, senza alcuna capacità di elaborare una più ampia visione per poter superare definitivamente la retorica del China dream. Quello di cui ha invece assoluto bisogno, oggi, è di una vera, solida e lungimirante politica estera.

 

Questo articolo fa parte di una serie di tre "lettere internazionali" dedicate all'evoluzione del rapporto tra Cina e Occidente nel corso del decennio scorso. Qui i primi due interventi, L'ascesa del "modello cinese" e Un altro punto di vista.