Un altro punto di vista. Agli inizi di settembre 2008 la crisi, avviatasi un anno prima, si mostrò in tutta la sua gravità, tanto che in quelle settimane «The Economist» ritenne di poter titolare uno dei suoi numeri Capitalism at bay. Il segretario del Tesoro statunitense Henry Paulson annunciò che il governo non sarebbe intervenuto a salvare i due fondi per il credito immobiliare, Fannie Mae e Freddie Mac, sull’orlo del collasso per il crollo del mercato. Nell’arco di poche ore il governo della Repubblica popolare cinese, insieme a quelli di Giappone e Corea del Sud si affrettarono a protestare: molti dei capitali investiti in quelle due società provenivano da questi Paesi. Il governo cinese arrivò a minacciare la vendita dei buoni del Tesoro americani in suo possesso e la non partecipazione alle successive aste dei titoli del debito pubblico di Washington: Paulson e il presidente Bush annunciarono quindi, smentendo le precedenti dichiarazioni, che il governo avrebbe rifinanziato i due fondi evitandone il default.

Sebbene questo passaggio sia rimasto in buona parte dietro le quinte e non sia stato ripreso, come avrebbe meritato, dai media, nella sua drammaticità è forse il simbolo più significativo di ciò che avvenne in quell’autunno: i tempi dei Plaza accords erano ormai lontani e ora erano i cinesi a dettare le scelte, tanto che, in modo azzardato, qualcuno parlò di un nascente Beijing consensus.

Da quel momento, fino almeno ai primi mesi del 2009, il governo di Pechino mostrò un crescendo di posizioni assertive e aggressive nei confronti degli Stati Uniti: non fu risparmiata nessuna delle critiche possibili alle sconsiderate politiche di sostegno allo sviluppo delle bolle speculative finanziarie (di cui Greenspan e Bernanke, i due presidenti succedutisi alla guida della Fed, erano stati entusiastici teorizzatori). A queste critiche si aggiunsero la richiesta di maggiore rappresentanza e potere all’interno delle principali organizzazioni economiche internazionali, Fmi e Bm, e che si ponesse fine al controllo occidentale sulla loro dirigenza. Il governo cinese giunse perfino a invocare la necessità di creare una alternativa al ruolo del dollaro nelle transazioni internazionali, recuperando i progetti presentati a Bretton Woods nel ’44 da Keynes e contestando i quantitative easings intrapresi dal governo americano, ovvero la stampa di dollari per far fronte al finanziamento dei piani di intervento del governo a sostegno del settore finanziario e, più in generale, dell’economia. In modo sempre più deciso, la Cina iniziò quindi a presentare le proprie richieste su questi temi come rappresentative di tutti i Paesi in via di sviluppo o poveri, in contrapposizione alle politiche eurocentriche, considerate come ormai superate dalla storia, come dimostravano in modo esauriente i fatti.

L’elezione del nuovo presidente americano, Obama, certamente contribuì a calmare i toni delle relazioni bilaterali, nonostante il fatto che il suo segretario al Tesoro, Tim Geithner, fosse stato uno dei maggiori responsabili del loro surriscaldarsi con la polemica, pretestuosa, sulla questione della rivalutazione del renminbi. Nel frattempo, il governo cinese aveva lanciato nel novembre 2008 un ampio programma di intervento pubblico, d’ispirazione classicamente keynesiana e opposta ai piani varati nell’Unione europea e negli Stati Uniti, che prevedeva investimenti per 586 miliardi di dollari. Obiettivi centrali del piano erano: edilizia popolare, infrastrutture pubbliche, sanità e, in generale, ricostruzione di una rete di Welfare, istruzione e ricerca, protezione dell’ambiente, aumento diffuso del reddito dei lavoratori e ristrutturazione delle industrie strategiche. Misure rafforzate nel 2009 e accompagnate da una politica monetaria e creditizia espansiva.

Come conseguenza della linea adottata, già nei primi mesi del 2009, la Cina era la prima grande economia che avesse superato gli effetti della fase iniziale della "grande crisi".

 

Questo articolo fa parte di una serie di tre "lettere internazionali" dedicate all'evoluzione del rapporto tra Cina e Occidente nel corso del decennio scorso. Qui il primo intervento, L'ascesa del "modello cinese" e qui il terzo, Un progetto duraturo?