L’università è, notoriamente, un argomento a bassa salienza politica. Salvo i casi di qualche concorso che finisce sotto la lente della magistratura o l’immancabile articolo sul posizionamento degli atenei italiani nei ranking internazionali, raramente essa è oggetto di dibattito pubblico. Può quindi stupire il fatto che, nelle scorse settimane, la stampa quotidiana abbia dato un certo rilievo al tentativo (poi fallito) di alcuni parlamentari della maggioranza di posticipare, per legge, l’adeguamento degli atenei telematici ai criteri di qualità stabiliti dall’Anvur, l’Agenzia ministeriale che si occupa della valutazione del sistema universitario e della ricerca.

In realtà, per quanto apparentemente possa sembrare una questione di poco conto – e anche estremamente tecnica – intorno a questa vicenda si gioca una partita importante per la tenuta dell’intero sistema universitario, soprattutto in un Paese come il nostro, dove le proroghe possono spesso diventare permanenti. Proprio il fallimento di quel tentativo, dunque, costituisce una buona occasione per svolgere qualche riflessione sulle università telematiche e sulle regole che le riguardano. Tanto più che, archiviato il cosiddetto “emendamento Bandecchi” al decreto Milleproroghe, la ministra Bernini ha istituito un gruppo di lavoro con il preciso compito di esaminare la disciplina vigente in materia di università telematiche allo scopo di formulare eventuali proposte di modifica.

Ricostruire la disciplina che regola le università telematiche, peraltro, è operazione tutt’altro che agevole, posto che la normativa si trova disseminata in una pluralità di fonti, soprattutto decreti ministeriali, che si sono disordinatamente succedute nel tempo. Pur nel contesto di una disciplina piuttosto “liquida”, tuttavia, due punti sono sempre stati indubbi: da una parte, che i corsi universitari a distanza dovessero essere soggetti ad accreditamento sulla base di criteri stabiliti dal ministero dell’Università. Dall’altra parte, che le università telematiche potessero attivare esclusivamente corsi di studio a distanza, ossia caratterizzati, tra l’altro, da “contenuti didattici standard” e da un “alto grado di indipendenza del percorso didattico da vincoli di presenza fisica o di orario specifico”.

Entrambi questi postulati sono stati recentemente messi in discussione, per un verso, come detto, cercando di posticipare l’applicazione dei criteri di accreditamento e, per altro verso, avanzando l’ipotesi che le università telematiche possano anche istituire corsi convenzionali (ossia in presenza) o misti (in parte in presenza e in parte a distanza).

Quella delle telematiche è una storia che risale alla metà degli anni Duemila quando, sulla base di una scarna norma di legge, ne furono istituite ben undici in un brevissimo arco di tempo

Ma andiamo con ordine. Quella delle telematiche è una storia relativamente recente che risale alla metà degli anni Duemila quando, sulla base di una scarna norma di legge contenuta nella Finanziaria 2003, ne furono istituite ben undici in un brevissimo arco di tempo. Sin dall'inizio, peraltro, si è posto il problema di come garantirne la qualità, come dimostra, da un lato, una legge del 2006 che, in virtù della preoccupazione per tale improvvisa fioritura di atenei telematici, vietava provvisoriamente di istituirne di nuovi e rinviava a un regolamento ministeriale la definizione dei criteri di accreditamento e, dall'altro lato, il contenzioso sviluppatosi pochi anni dopo davanti al giudice amministrativo e avente a oggetto gli atti ministeriali di diniego dell'accreditamento di alcuni corsi di studio proposti dalla telematiche.

Negli ultimi anni la situazione si è progressivamente evoluta, non soltanto perché l'intero sistema universitario è stato profondamente trasformato dall’attuazione della riforma Gelmini – che ha introdotto per tutte le università, non solo quelle telematiche, un sistema di assicurazione della qualità affidato all’Anvur – ma anche perché il ruolo stesso delle università telematiche è notevolmente cresciuto.

Per rendersene conto, è sufficiente anzitutto dare uno sguardo all’ultimo Rapporto dell’Anvur sul sistema della formazione superiore e della ricerca (2023) che riporta una serie di dati relativi al decennio che va dall’a.a. 2011/12 all’a.a. 2021/22.

Secondo il Rapporto, in questo arco temporale le università telematiche hanno registrato, complessivamente, un forte aumento della loro offerta formativa, pari a +113%. Parallelamente è anche cresciuto il numero degli iscritti, che è passato da circa 44 mila nell’a.a. 2011/12 a circa 224 mila nell’a.a. 2021/22 (+180 mila unità). In termini relativi, gli iscritti alle telematiche sono passati dal rappresentare il 2,5% del totale degli studenti universitari all’11,5%. In sostanza, sono più che quadruplicati.

Ancora, rispetto all’a.a. 2011/12 sono significativamente aumentati i diplomi di laurea rilasciati dalle università telematiche, che passano dai 5.220 (1,7%) ai 34.223 (9,9%) dell’a.a. 2020/21. In breve – come sottolinea il Rapporto Anvur – nell’a.a. 2020/21 un diploma di laurea su dieci è stato rilasciato da una università telematica. Di contro, a fronte dell'impennata di questi dati, il numero dei docenti a tempo indeterminato è cresciuto molto poco, al punto che, mentre nelle università tradizionali il rapporto docenti/studenti è rimasto pressoché costante (passando da 30,2 a 28,5), per le università telematiche esso è più che raddoppiato (da 152,2 a 384,8 studenti per docente).

Va poi sottolineato, in secondo luogo, come negli anni recenti si sia assistito a una forte spinta degli atenei telematici verso modelli organizzativi ispirati a logiche di profitto, come dimostra da un lato la trasformazione di alcune di esse in società di capitali e, dall’altro lato, il fatto che taluni atenei telematici siano stati acquisiti da importanti fondi di investimento stranieri. Al di là di ogni valutazione circa la desiderabilità o meno che l’istruzione superiore diventi un settore di business, è evidente che, anche in uno scenario di puro mercato – o forse soprattutto in uno scenario di questo tipo –, lo Stato non può esimersi dal compito di assicurare la qualità della didattica e della ricerca di istituzioni che si fregiano del titolo di università. Com’è noto, infatti, la concorrenza non garantisce di per sé effetti virtuosi, mentre fenomeni di dumping possono verificarsi anche nell’istruzione, soprattutto laddove i “prodotti”, ossia i titoli di studio, abbiano lo stesso valore legale.

In terzo luogo, va anche ricordato come dalla pandemia in poi le università telematiche abbiano perso, nei fatti, il monopolio della didattica a distanza. L’esperienza pandemica ha costretto le università tradizionali ad aprirsi all’uso delle tecnologie e a sviluppare una didattica online prima quasi sconosciuta. L’impatto di tale esperienza ha fatto sì che l'offerta didattica ibrida – ossia in parte in presenza e in parte a distanza – da parte delle università tradizionali sia significativamente aumentata e sia destinata ad aumentare ancora nel prossimo futuro.

Dalla pandemia in poi le università telematiche hanno perso, nei fatti, il monopolio della didattica a distanza

Alla luce di tali sviluppi recenti, dunque, non solo è chiaro che la fissazione di criteri di accreditamento continua a essere essenziale per assicurare la qualità dei corsi di studio, ma soprattutto – come hanno chiaramente riconosciuto sia il Tar Lazio sia il Consiglio di Stato – che è corretto il modo con cui, in concreto, ciò è stato fatto dal ministero e dall’Anvur. Nell’aggiornare tali criteri, infatti, Mur e Anvur li hanno diversificati in funzione della modalità di erogazione della didattica (integralmente in presenza, mista, prevalentemente a distanza, integralmente a distanza) fissando, per ciascun tipo di corso, differenti requisiti di docenza (più severi per i corsi in presenza o misti, meno severi per i corsi prevalentemente o totalmente a distanza).

Vero è che rispetto alla disciplina immediatamente previgente – del 2019 – quella attuale esige requisiti di qualità più elevati (comunque validi per tutte le università, non solo quelle telematiche); a ben vedere, però, era la disciplina del 2019 a essere eccessivamente lasca nei confronti delle università telematiche, alle quali era consentito di computare senza alcun limite tra i propri docenti di riferimento il personale assunto con contratti a tempo determinato. In sintesi: le telematiche non soltanto potevano sopportare costi per assunzione di personale enormemente inferiori a quelli richiesti alle università tradizionali, ma potevano altresì selezionare il proprio personale docente al di fuori degli ordinari meccanismi del reclutamento universitario. Dal momento che i nuovi criteri sono noti dal 2021, vi era tempo sufficiente per programmare un reclutamento adeguato di professori. Su questo punto, dunque, non pare poter esserci spazio per una mediazione.

Anche in relazione al secondo postulato messo in discussione – ossia la possibilità per le università telematiche di attivare solo ed esclusivamente corsi di studio prevalentemente o totalmente a distanza – la giurisprudenza amministrativa ha fornito indicazioni importanti. Diverse pronunce giurisdizionali di primo e secondo grado, infatti, hanno ritenuto tale limitazione non soltanto non discriminatoria ma, al contrario, pienamente coerente con la natura e il regime giuridico delle università telematiche. Pure su questo punto, quindi, è auspicabile che non si trovi un accordo al ribasso, consentendo magari alle telematiche di aprire nuovi corsi, anche in presenza, con la collaborazione di qualche soggetto privato che metta a disposizione degli spazi fisici.

Dunque, se è del tutto legittimo che le telematiche aspirino ad accrescere la propria offerta formativa, anche per allargare il mercato di riferimento, tale espansione non può essere – come del resto non lo è per le università tradizionali – senza limiti. La necessità di rispettare da subito adeguati criteri di qualità stabiliti dal centro ministeriale e il contenimento di tale espansione in relazione ai soli corsi di studio che possono essere svolti a distanza costituiscono limiti ragionevoli dai quali il gruppo di lavoro istituito presso il Mur, anche facendo tesoro delle indicazioni del giudice amministrativo, farebbe bene a non discostarsi. Per mantenere alta l’asticella e assicurare la qualità dell’intero sistema.