I principi che stanno alla base della nuova università sono tre: il contratto, la flessibilità educativa e didattica, la capacità di rendere conto, una capacità quest’ultima sospesa in uno spazio molto ambiguo dove l’accountability viene sistematicamente tradotta in termini di accounting. Nella nuova università, responsabilità significa brutalmente rendicontazione. Questi principi sono ricompresi all’interno di una cornice generale, che dalla metà degli anni Novanta abbiamo appreso a chiamare autonomia. L’autonomia dell’università è il principio primo di tutto il sistema, la condizione di possibilità dalla quale discende il resto.

Che cos’è però autonomia? Alla fine del XX secolo, con la conclusione della Guerra fredda e con il venir meno delle esigenze che le erano connesse di prestigio nazionale, l’autonomia è il modo di funzionare dell’università quando questa smette di dover tener conto della cornice dello Stato-nazione. Autonomia è l’espressione e al tempo stesso lo strumento della disarticolazione del rapporto storico tra l’università e lo Stato-nazione. Siccome questo rapporto è stato essenzialmente un rapporto di cultura, l’autonomia universitaria produce un vasto processo di sostituzione che nel giro di un breve lasso di tempo porta alla rimozione della cultura come principio base di legittimazione del sistema accademico e come criterio di regolazione della sua vita interna.

Seguo qui l’argomentazione di uno studioso canadese, Bill Readings, The University in Ruins (1996). L’università che si concepisce al di fuori del rapporto storico con lo Stato-nazione smette di essere il luogo per eccellenza del progetto storico di formazione dell’umano, del progetto storico della cultura, ha scritto Readings. L’università diviene un’istituzione di tipo nuovo, una organizzazione burocratica, anzi un’azienda burocratizzata, non più preoccupata di svolgere, custodire e divulgare valori culturali, ma soggetta a un vincolo di natura diversa in cui le relazioni interne al sistema e tra questo e la società nel suo complesso obbediscono a una logica che appartiene essenzialmente al dominio delle transazioni di natura monetaria (cash-nexus).

La nuova università ha una parola per dire il suo funzionamento in linea con quanto prescritto da questo sistema di regole: eccellenza. L’università eccellente è l’università che può accampare risultati coerenti con le imposizioni del cash-nexus. Come osserva Readings, tuttavia riferendosi a indici puramente numerici che misurano risultati di performance negli ambiti più diversi, eccellenza è una “categoria senza”. È eccellente tutto ciò che consegue i target, ma eccellente non dice niente riguardo al contenuto di tali target e soprattutto alla loro pertinenza in relazione all’ambito specifico della loro applicazione. Al fatto, ad esempio, che valga la pena perseguirli.

Il nuovo sistema è dunque contrattualistico, flessibile e modulare. All’atto dell’iscrizione lo studente stipula un patto educativo con l’istituzione uni­ver­si­taria, i crediti formativi contengono la misura dei suoi obblighi e di quelli dei docenti, ma i crediti sono innanzitutto una unità di misura standardizzata dell’esperienza conoscitiva del singolo studente che può essere combinata in varie forme e in vista di scopi differenti. Attraverso i crediti il sistema impara a funzionare sulla base del principio della riutilizzabilità di tutti gli investimenti formativi. Finendo però anche in balia degli orientamenti privatistico-carrieristici dei suoi utenti.

Il nuovo sistema si è venuto definendo in un arco ventennale. All’inizio, la bozza Martinotti prevedeva uno schema che affiancava un diploma di due o tre anni a un percorso di laurea compreso tra i quattro e i sei, a cui sarebbe seguita la specializzazione post-laurea di almeno due anni. Nel progetto originario della riforma, insomma, la laurea doveva contenere al proprio interno un traguardo intermedio e tale traguardo poteva consistere o in un diploma universitario o in un certificato universitario di base (il famigerato Cub), di almeno 120 crediti, due anni, non finalizzato a una specifica professionalità.

Si trattava di una previsione del tutto irrealistica. La base di legittimazione dei processi formativi era ormai l’impiegabilità e i sistemi universitari occidentali stavano già transitando in direzione di un assetto che si sarebbe imposto poi dovunque negli anni successivi, una struttura a due livelli (undergraduate/postgraduate) sulla base della distinzione cardine bachelor/ma­ster. Questa struttura avrebbe sostituito il modello tradizionale delle università cosiddette “one-tier”, a un solo livello, ma il suo esito sarebbe stato ben lungi dal trovare un assetto stabile nel corso dei primi vent’anni del nuovo secolo.

Se infatti il movimento generale era in direzione di un titolo di studio di primo livello di durata triennale, il modo con il quale la laurea, come si chiama da noi, si sarebbe combinata con il grado successivo non è tutt’ora chiaro. Si è già detto della commistione piuttosto confusa prevista da Martinotti. Le cose non sono migliorate in seguito. Resta irrisolta l'oscillazione tra le due esigenze differenti della riforma, preparare al lavoro e proseguire gli studi, e tra i due livelli accademici corrispondenti, triennio e biennio: nel nuovo sistema convivono, e fanno le stesse cose, sia gli studenti che si iscrivono alla laurea triennale per fermarsi poi lì, sia quanti proseguono puntando al titolo superiore della magistrale. Questa incertezza tra un sistema unitario a due livelli e un sistema binario che tiene dentro entrambe le cose, triennio e triennio-più-biennio, sembra trovare con il tre più due una composizione che tuttavia è solo apparente. Il tre più due, infatti, non elimina le ambiguità di fondo, anzi, per le ragioni appena dette, e riproduce, caricando il primo livello di entrambe le esigenze, avviare al mercato del lavoro e preparare agli studi superiori.

Non meno infondate si sono rivelate le altre due previsioni della riforma.

La flessibilità, come il contratto, prefigurava un utente del sistema universitario pienamente in grado di formulare le sue richieste e di assumere su di sé gli oneri che ne sarebbero derivati

La flessibilità, come il contratto, prefigurava un utente del sistema universitario pienamente in grado di formulare le sue richieste e di assumere su di sé gli oneri che ne sarebbero derivati. Tuttavia, mentre era chiaro che cosa l’università avrebbe portato nel contratto, del tutto aleatorio restava il profilo del nuovo utente. Soprattutto, non venivano minimamente presi in conto gli effetti che la logica del contratto avrebbe avuto sul sistema degli studi universitari.

Non solo i crediti stabilivano i limiti dell’impegno degli studenti, ma gli studenti sarebbero stati sempre più disponibili a impegnarsi solo in cambio di crediti.

A dispetto tuttavia di ogni idea di contratto e di flessibilità, la nuova Università è in realtà stretta in una vera e propria gabbia didattica d’acciaio. La stessa logica della spendibilità che regola il sistema dei crediti e che presiede ai comportamenti del nuovo consumatore dell’offerta formativa detta tempi fortemente contingentati allo svolgimento degli insegnamenti.

Tra gli indicatori che presidiano il monitoraggio delle performance di ateneo, un posto di rilievo spetta a quelli che controllano l’andamento delle carriere degli studenti, quanti sono i regolari, quanti Cfu hanno conseguito al passaggio dal primo al secondo anno e così via. L’intera didattica universitaria è concepita come il treno di una catena di montaggio che si sposta secondo tempi prestabiliti facendo avanzare l’intera coorte. Quelli che perdono il passo vengono registrati al passivo del bilancio accademico. E vanno recuperati a qualsiasi costo. Finanziamenti ad hoc sostengono una miriade di attività di orientamento in itinere in cui si disperde la residua disponibilità di tempo ed energia del nuovo docente universitario.

Questa struttura che mischia il vecchio fordismo della catena di montaggio e le nuove tecniche di gestione dell’eccedenza sociale retroagisce sul funzionamento concreto della vita accademica.

Gli studenti entrano all’università la mattina a partire dalle nove, ma qualcuno alle otto è già in aula, per restarvi fino alle cinque del pomeriggio. In alcuni momenti della settimana, la giornata si prolunga fino alle sei e anche alle sette della sera. Un orario universitario efficiente è un orario che risponde a tre esigenze fondamentali: evita che si accavallino le lezioni di uno stesso corso di studio e che tra una lezione e l’altra passi troppo tempo. Assicura in ogni caso la pausa pranzo degli studenti.

La didattica è organizzata ormai universalmente per semestri, e i professori si farebbero ammazzare pur di non tornare alla didattica annuale. Lo stesso vale per gli studenti. Ma i semestri, come le ore di lezione, sono all’università delle mere convenzioni. Accade più spesso che la didattica semestrale sia in realtà una didattica trimestrale e ciascun trimestre diviso in sottoperiodi. Chiamiamo annuali i corsi che si estendono sull’intero semestre.

L’unità minima di un credito universitario è sei ore di insegnamento, il che significa che un corso medio di 8 Cfu, pari a quarantotto ore, va avanti per due ore al giorno per tre giorni alla settimana per otto settimane. Questo per un singolo insegnamento. In un anno accademico, mettiamo alla triennale, 60 Cfu, in media ci sono tra i sette e gli otto insegnamenti di cui la metà al primo semestre. Tra ottobre (o al più, a partire dall’ultima settimana di settembre) e le vacanze di Natale, una trentina di crediti, pari grosso modo a 180 ore di lezione. In un giorno, tra i due e i tre corsi, per quattro o sei ore di insegnamento. A gennaio, di solito, c’è già la prima sessione di esame a cui accedono tutti gli studenti che hanno maturato la frequenza. Quelli dell’anno precedente e quelli che hanno finito il corso il 20 dicembre.

In due mesi circa, dunque, gli studenti dei nostri giorni fanno quello che di solito si faceva in sette, da novembre a maggio, e nel mentre stesso in cui vanno a lezione, studiano e poi si presentano all’esame per restare al passo.

L’insegnamento ha bisogno di tempo e non c’è apprendimento efficace senza sedimentazione dei suoi contenuti

Questa struttura, che ho descritto per sommi capi ma con la preoccupazione di restare aderente all’esperienza concreta della nuova università, stringe l’intero impianto della didattica accademica in una evidente contraddizione. Il dibattito sull’insegnamento è ormai diventato furioso. Le attese che vi si riversano sono enormi. L’insegnamento deve essere innovativo, inclusivo, deve tenere conto del tipo di studenti con cui il docente è chiamato a confrontarsi e del contesto sociale all’interno del quale l’istituzione universitaria opera, definendo contenuti e metodi della didattica in relazione alle determinanti ambientali fondamentali. Tutto questo, tuttavia, manca della risorsa fondamentale, il tempo. L’università funziona dentro una morsa temporale che è del tutto incompatibile con le sue finalità. L’insegnamento ha bisogno di tempo e non c’è apprendimento efficace senza sedimentazione dei suoi contenuti, mentre tutto il sistema, didattica compresa, opera sulla base del principio dell’efficienza, di cui la trasmissione dell’informazione in forme compatte e abbreviate è una componente fondamentale. La nuova università si vuole rapida ed efficace.

Che cosa si perde in questa ambizione ipermodernista e mistificatoria di correre con una gamba più veloce del tempo? A mio avviso, un aspetto cui di solito non si pensa quando si discute di questi argomenti, ma che a me pare essenziale. A smarrirsi, nella stupida tensione a battere il tempo, è il sentimento. Niente di quello che si fa all’università è oramai più definibile in termini di contenuto della coscienza personale, tanto degli studenti quanto dei professori. Tra i modi differenti in cui è possibile declinare l’aspetto a cui facevo prima riferimento della perdita del referente, questo a mio avviso è uno dei più importanti. Letteralmente, la nuova Università è un luogo in cui la conoscenza ha smesso di avere a che fare con la definizione di sé dell’individuo e in cui lo studente è totalmente estraniato da ciò che è tenuto ad apprendere. A rigore, tutto ciò segna il tramonto dello studente stesso come figura culturale, ridotto al ruolo di mero acquirente di specifici pacchetti formativi.