Mi sento molto consonante (non è la prima volta) con quel che osserva Enzo Cheli (Al di là del «sì» e del «no») sulla relativa irrilevanza del tema in sé del numero di componenti delle Camere (istruttivo il richiamo alle opposte tesi di Togliatti e di Einaudi sugli effetti del numero sulla efficienza delle Camere), e soprattutto sui possibili effetti indiretti, immediati e sul lungo termine – largamente incerti, in ogni caso –, dell’approvazione o meno della legge sottoposta a referendum. E capisco perfettamente anche – data l’obiettiva incertezza sul seguito che potrà scaturire dall’esito del referendum – l’atteggiamento astensionistico di Michele Salvati (Le ambiguità del voto).

Ferma dunque la scarsa rilevanza del tema in sé ai fini del buon funzionamento delle istituzioni o dell’evoluzione in senso positivo del sistema costituzionale, non mi pare utile né riconoscersi o simpatizzare (io non ci riesco) con qualcuno dei Tipi da referendum di cui parla Marco Valbruzzi, mettendo fra l’altro insieme vicende referendarie così diverse come l’attuale e quella relativa alla riforma sottoposta al voto nel 2016; né limitarsi a condividere la giusta critica alla motivazione del risparmio finanziario, «volgarità di basso conio», come dice Piero Ignazi (Un grumo di antipolitica e di populismo). Una «volgarità», si osservi per inciso, che non ha mancato di manifestarsi anche in altre stagioni, come quando la riforma Renzi insistette nell’inserire nel titolo della legge non solo «la riduzione del numero dei parlamentari», ma anche «il contenimento dei costi di funzionamento delle istituzioni»; o come quando la legge n. 56 del 2014 («ponte» fra la «vecchia» e la «nuova» Costituzione, rimasto nel vuoto senza un pilone di appoggio dopo l’esito del referendum su quella riforma) abolì l’elezione diretta dei componenti degli organi degli enti intermedi, Province e Città metropolitane.

Ciò premesso, osserverei essenzialmente due cose. La prima è che non mi pare affatto dimostrata l’equazione Meno parlamentari, meno efficienza di cui parla Gianfranco Pasquino. Non c’è bisogno di richiamarsi a esempi lontani come il Senato americano, o ai dibattiti in Paesi vicini su propositi di riduzione del numero di componenti delle assemblee. Un buon rapporto di rappresentanza non è legato certo al numero dei componenti delle assemblee, né – nelle democrazie di massa odierne – a una sorta di rapporto «personale» fra elettori ed eletti, come ai tempi in cui il «notabile» locale raccoglieva intorno a sé il voto dei suoi pochi elettori, ma al buon funzionamento dei partiti e degli altri organismi di intermediazione fra cittadini e istituzioni, e anche alla qualità dei parlamentari e al loro impegno nello svolgimento della funzione, rimanendo del tutto secondario il fatto che ad ogni eletto corrisponda un numero maggiore o minore di elettori.

Un buon rapporto di rappresentanza non è legato al numero dei componenti delle assemblee, ma al funzionamento dei partiti e degli altri organismi di intermediazione fra cittadini e istituzioni

Capisco gli argomenti di Guido Melis, frutto anche di un’esperienza personale, a favore del lavoro degli eletti «nel collegio» (Un «no» a favore del buon parlamentare), ma osservo che, da un lato, la conoscenza e l’impegno dei parlamentari non può limitarsi ai problemi micro-territoriali o addirittura personali del proprio collegio, ma deve riuscire a tradurre nel lavoro dei «rappresentanti della nazione» i temi, generali e settoriali, che sul territorio si manifestano, in nome di esigenze e di interessi generali, e quindi in chiave nazionale: e d’altra parte Melis, quando parla di problemi come la chimica che chiude, i trasporti, la disoccupazione, i ritardi nelle opere pubbliche, l’ambiente, evoca problemi tutt’altro che riferibili ai soli elettori del suo collegio.

Certo, in termini di «rappresentatività» delle assemblee, meno sono gli eletti e più alta è la «soglia di sbarramento» implicita per l’ingresso nelle assemblee stesse di gruppi di ridotta dimensione. Ma non è affatto detto che il massimo possibile di frammentazione politica delle assemblee ne migliori il funzionamento. Ferma l’esigenza di garantire il pluralismo, anzi, si riflette spesso sui modi per scoraggiare l’eccesso di frammentazione, assicurando il giusto equilibrio fra «rappresentatività» e capacità di sintesi che si esprime nel brutto termine di «governabilità», di cui parla anche la Corte costituzionale a proposito delle leggi elettorali.

La seconda cosa è che sembra veramente paradossale fare di questo referendum l’occasione di una battaglia «in difesa del Parlamento» quando si tratta non di dire «sì» o «no» a una proposta che venga dall’esterno delle istituzioni, ma di opporsi o meno a una legge costituzionale voluta e deliberata con doppia votazione proprio dal Parlamento, da ultimo all’unanimità delle forze politiche rappresentate nelle assemblee, quindi in una condizione che idealmente dovrebbe sempre presiedere alle modifiche della Costituzione.

Per dire «no» occorrerebbe disporre di forti ragioni di merito, che nella specie mi sembrano mancare. Sarebbe una prova di «sfiducia totale» nelle istituzioni e nel sistema politico attuale. Quindi, giusto combattere quello che oggi si tende a indicare come «populismo» (salvo precisarne il significato), ma guardiamoci dal giudicare ogni argomento di dibattito politico e ogni prospettiva nascente da modifiche istituzionali, anche di portata limitata come questa, alla luce esclusiva di una onnicomprensiva supposta «impronta di origine” contraria allo spirito della democrazia parlamentare.