Qualche anno fa Henry Kissinger definì Vladimir Putin «un personaggio tratto dai romanzi di Dostoevskij». Del presidente russo l’ex Segretario di Stato aveva precisato: «È un uomo con un grande senso del legame interiore alla storia russa. Per lui, la questione dell’identità russa è cruciale». Le parole dell’anziano diplomatico americano mi sono tornate in mente nel leggere un originale libro dedicato al grande romanziere di cui si è appena celebrato il duecentesimo anniversario dalla nascita. Un certo Dostoevskij è una affascinante biografia. Definita polifonica dalla casa editrice, raccoglie del celebre scrittore testimonianze, lettere, diari e aneddoti. Il curatore del volume è Pavel Fokin, storico della letteratura e direttore della Casa-Museo Dostoevskij di San Pietroburgo, a pochi passi dalla Teatralnaya Ploshad e da un palazzo d’epoca sul frontone del quale è rimasto affisso lo stemma dei Savoia, in memoria di quando l’edificio ospitava la Regia Ambasciata nella città di Pietro il Grande.

Mentre in Occidente il rapporto con la Russia è precipitato sulla scia della clamorosa guerra in Ucraina, mi chiedo se questo volume non possa rivelarsi, a sorpresa, una chiave di lettura originale per meglio capire le scelte di Vladimir Putin

Mentre in Occidente il rapporto con la Russia è precipitato sulla scia della clamorosa guerra in Ucraina, fonte di antiche e drammatiche preoccupazioni, mi chiedo se questo volume non possa rivelarsi, a sorpresa, una chiave di lettura originale per meglio capire le scelte di Vladimir Putin, la sua personalità e i suoi istinti autoritari, tanto più che ancora di recente l’uomo politico ha detto di considerare il romanziere tra i suoi scrittori preferiti.

Dell’epoca d’oro del romanzo russo, nella seconda metà dell’Ottocento, Fëdor Michajlovič Dostoevskij è uno dei due maggiori rappresentanti. L’altro naturalmente è Lev Tolstòj. Mentre quest’ultimo opta per le grandi descrizioni realistiche e per i celebri affreschi storici, a cominciare da Guerra e pace del 1865, il protagonista della biografia curata da Pavel Fokin preferisce l’analisi introspettiva, le angosce personali, la psicologia di personaggi nei quali si incrociano paure e rimorsi, dubbi, forze e debolezze, come in Delitto e castigo del 1866 o I fratelli Karamazov del 1879. Nei due autori si affrontano comunque il Bene e il Male, le grandi questioni relative all’esistenza di Dio, alla possibilità della redenzione, con una dimensione universale che va oltre la loro lingua e la loro epoca. Sullo sfondo dominano la religione ortodossa e l’orgoglio patriottico.

Dostoevskij nasce a Mosca nel 1821, in una famiglia aristocratica, il padre è un medico militare, mentre la madre proviene da una ricca famiglia di commercianti. Fëdor Michajlovič è il secondo di otto figli. Alla morte prematura della madre, nel 1837, il padre lo indirizza verso gli studi di ingegneria militare ai quali il futuro scrittore si accinge controvoglia. Qualche anno dopo Dostoevskij viene promosso sottotenente. Si diploma quindi nel 1843, ma si dimette l’anno successivo, optando per una carriera di letterato piuttosto che di ufficiale. Da quel momento la vita dello scrittore sarà segnata da alti e bassi, da momenti di povertà e di benessere, da un duro esilio in Siberia così come da momenti felici a San Pietroburgo, sempre condizionata comunque da una salute cagionevole e in particolare da gravi e debilitanti crisi di epilessia.

Il libro contiene innumerevoli spunti di analisi sulla personalità dello scrittore. I suoi conoscenti lo descrivono come un giovane molto nervoso, impressionabile, il colorito malaticcio, caratterizzato da una altezza inferiore alla media: «Di solito, quando si agitava, si rannichiava tutto e sembrava che usasse le parole come proiettili», scrive la matematica Sof’ja Vasil’evna Kovalevskaja. Secondo il filosofo Nikolaj Nikolaevič Strachov, era «una persona molto sincera, quindi nelle sue parole, nelle sue opinioni e nei suoi giudizi si incontravano spesso grandi contraddizioni». Al tempo stesso «era estremamente affettuoso«, soprattutto con i figli. «Di lui mi colpì una altra caratteristica eccezionale […] il saper non solo parlar bene, ma anche ascoltare sorprendentemente bene», afferma il pianista Anatolij Aleksandrovič Aleksandrov.

L’aspetto più interessante per capire la Russia di oggi attraverso la personalità di Dostoevskij riguarda il suo rapporto con la religione ortodossa e con il suo Paese. «Sulla parete sopra il divano [su cui dormiva, N.d.R.] era appesa una grande, splendida copia della Madonna Sistina. […] La prima cosa che Dostoevskij vedeva quando si svegliava era il viso dolce di questa Madonna, che lui considerava l’ideale di donna», racconta Ljubov’ Fëdorovna Dostoevskaja, la figlia dello scrittore. «Mio padre seguiva in modo coscienzioso i suoi doveri religiosi, digiunava, andava in Chiesa due volte al giorno e metteva da parte tutto il suo lavoro letterario. Amava molto anche gli incantevoli riti della nostra settimana santa, specialmente la messa di Pasqua e i suoi canti gioiosi«. Più in là nel testo, un’altra conoscente di Dostoevskij, Varvara Vasil’evna Timofeeva, racconta che il romanziere si recava sempre nella stessa parrocchia e si sedeva sempre allo stesso posto, defilato rispetto agli altri fedeli. In fin di vita, lo scrittore decise di regalare la sua copia del Vangelo al figlio. Quando morì, il 31 gennaio 1881, ai funerali parteciperanno migliaia di persone. «Vennero portate settantasette corone e cantarono quindici cori«, riferisce sempre Strachov. L’uomo fu seppellito nel Monastero di Aleksander Nevskij di San Pietroburgo.

Il Paese ha subito l’ateismo comunista per oltre 70 anni, ma non ha mai compiuto quella transizione verso una moderna laicità che invece segna le costituzioni di molti Paesi europei

«Un tempo, in gioventù, era stato un fourierista più appassionato, più devoto. Il passaggio da una fede astratta e infondata a un dialogo puramente russo con la fede russa, nativa, avvenne in lui in modo organico, normale, come sempre accade alle persone realmente dotate di vitalità», spiega il figlio Fëdor Dostoevskij sempre a proposito del padre. Lo spirito religioso dello scrittore russo, nel quale talvolta si intravedono quasi forme di proselitismo, stona con il laicismo di molti suoi contemporanei in Europa occidentale, da Victor Hugo in Francia a Robert Louis Stevenson in Inghilterra. L’attuale rinascita religiosa in Russia sorprende meno alla lettura del libro curato da Pavel Fokin. Il Paese ha subito l’ateismo comunista per oltre 70 anni, ma non ha mai compiuto quella transizione verso una moderna laicità che invece segna le Costituzioni di molti Paesi europei. Come ad Atene, anche a Mosca le massime cariche dello Stato giurano sotto lo sguardo rassicurante e protettivo del Pope. Si capisce meglio perché Vladimir Putin, impegnato nel garantire la difficile coesione nazionale di un Paese immenso, esteso su 17 milioni di chilometri quadrati, segnato da 10 fusi orari, 200 etnie e oltre 60 lingue, coltivi rapporti strettissimi seppur opportunistici con il clero ortodosso.

In Dostoevskij, la credenza religiosa si associa a una sottile ma distinta diffidenza nei confronti del mondo esterno. Il romanziere compie il suo primo viaggio all’estero nel 1862. Successivamente visiterà e risiederà per periodi anche lunghi in Germania, in Francia, nel Regno Unito, in Svizzera, in Italia, in Austria. Giudica Parigi «una città noiosissima». Il francese «è tranquillo, onesto, gentile ma falso, e i soldi non gli mancano. Non ha ideali. Inutile interrogarlo sui suoi pensieri, figuriamoci sulle sue credenze«, scrive lo scrittore in una lettera inviata all’amico Strachov. «Stenterete a credere quanto la solitudine invada l’anima qui. È una sensazione tetra, gravosa!». In una missiva del 1868 il romanziere si lamenta delle case fredde a Ginevra, «dove il camino è acceso tutto il giorno a bruciare la legna (che comunque qui è cara, anche se la Svizzera è l’unico posto in Europa occidentale dove c’è ancora legna da bruciare) ma è come scaldare un cortile». Certo Dostoevskij non era indifferente alle bellezze europee, alle città d’arte e ai successi scientifici della Vecchia Europa, ma secondo Strachov «gli interessavano le persone, esclusivamente le persone, la loro mentalità, il loro modo di vivere, i loro sentimenti e pensieri».

Nei racconti di coloro che hanno conosciuto lo scrittore all’estero, la nostalgia per il Paese natio sembra avere la meglio. Ciò può sorprendere. Dopotutto la Russia zarista non sempre gli è stata benevola. Nel 1849 l’uomo fu condannato alla fucilazione a causa dei suoi presunti legami con intellettuali socialisti che si riunivano nel Cerchio di Petrachevski. Ottenne la grazia, ma fu comunque condannato all’esilio a Omsk, in Siberia, dove successivamente fu arruolato d’autorità con il grado di soldato semplice. Ancora nel 1874 venne tenuto in custodia nella prigione militare di San Pietroburgo per punizione dopo «la violazione delle procedure di pubblicazione» nella rivista «Il cittadino». Ciononostante, il rapporto con il suo Paese rimane emotivo, romantico, impregnato di musica e teatro, letteratura e poesia, dove il mondo delle arti serve a vincere le rigidità dell’inverno e forse anche ad affrontare l’immensità di una geografia che provoca le vertigini e lascia tramortiti.

In un discorso del 1880, pronunciato in occasione dell’inaugurazione a Mosca di un monumento in onore di Aleksandr Puškin, Dostoevskij spiegò che «nella comparsa del poeta per noi, russi, c’è qualcosa di indubbiamente profetico». Sempre secondo il romanziere, «non un singolo scrittore, né prima né dopo, si è legato in modo così intimo, così familiare al proprio popolo come Puškin», a cui Dostoevskij riconobbe »una sensibilità universale«. Nella sua allocuzione, il romanziere sostenne che il poeta «presagiva la nostra grande missione futura». Aggiunse: «È un indovino, era un profeta! Diventare un vero russo, forse, significa, proprio diventare, semplicemente, il fratello di tutti gli uomini, dell’umanità intera». Più in generale, «il nostro compito – concluse lo scrittore – può essere quello di riconciliare l’Europa con le proprie contraddizioni; indicare all’anima europea una via d’uscita; proferire la parola risolutiva per una grande armonia, per un accordo fraterno secondo la legge evangelica di Cristo».

Le parole di Dostoevskij suonano curiosamente attuali, e gettano una luce nuova anche sulla politica di Vladimir Putin. Tralasciamo per un attimo le interpretazioni politiche e i giudizi morali. Il presidente russo è convinto del destino universale se non messianico della Russia, dell’innato protagonismo internazionale di un Paese incredibilmente a cavallo tra due continenti, dell’originalità di un popolo spesso arrendevole dinanzi al nuovo Zar del momento, ma ricco di umanità e di orgoglio della propria storia. In un discorso di insediamento del 2018, Vladimir Putin promise che da capo dello Stato avrebbe fatto di tutto «per accrescere la potenza, la prosperità e la gloria della Russia». Il sentimento patriottico e la fede religiosa sono certamente un bieco strumento politico per assicurare un collante sociale, ma appaiono in Russia meno anacronistici che in altri Paesi europei. Quando gli fu chiesto di commentare il parallelo di Henry Kissinger tra Vladimir Putin e i personaggi di Dostoevskij, il portavoce del presidente rispose: «Egli conosce molto bene il nostro Paese, conosce i nostri scrittori e i nostri filosofi, quindi questi paragoni da parte sua sono molto positivi».

[Anticipiamo l'articolo che uscirà a breve sul numero 1/2022 della «Nuova informazione bibliografica».]