“Come sarebbe oggi Napoli, se negli anni Sessanta e Settanta alcune associazioni ambientalistiche non avessero provato a difenderla dalla speculazione edilizia e dall’inquinamento industriale?”. Questo l’incipit di Storie di resistenza ambientale. La tutela di Napoli e della costa campana negli anni Settanta (Rubbettino, 2023), con prefazione di Piero Craveri, il documentato e appassionato volume che Alessandra Caputi ha dedicato a quel pezzo d’Italia ancora oggi al centro, nonostante tutto, del nostro immaginario.

Nel giro di una decina d’anni cambiò il volto delle colline sopra Napoli, la Costiera amalfitana venne cementificata, s’allargò l’Italsider e fu impiantata la fabbrica Alfa Romeo di Pomigliano d’Arco. Sullo sfondo l’irrisolta questione meridionale e l’aumentato benessere anche al Sud, pur con qualche anno di ritardo rispetto al resto del Paese, che portò al fenomeno delle seconde case in tutte le aree costiere campane e delle isole del golfo di Napoli, con l’esclusione di buona parte del Cilento che a lungo ha sofferto di una difficile viabilità (e in questo modo si è salvato dai peggiori scempi edilizi). Una trasformazione violenta del territorio che Caputi ha analizzato prendendo in esame sette case history, precedute dalla storia del Piano regolatore di Napoli.

Sono tre i principali personaggi del libro: le sorelle Elena e Alda Croce, le figlie maggiori del grande filosofo, e Antonio Iannello, un architetto napoletano, che ne fu il “braccio armato” e a cui Francesco Erbani ha dedicato il suo libro forse più bello: Uno strano italiano (Laterza, 2002). Caputi attinge all’archivio privato delle sorelle Croce e ne delinea il gioco delle parti: Alda, che risiede a Napoli, raccoglie le segnalazioni e sensibilizza la sorella a Roma che ne scrive sulla stampa. Non sono grandi testate quelle con cui collabora Elena – “La voce repubblicana”, “Il Globo” – ma entrano nella “mazzetta” dei parlamentari e in questo modo le battaglie locali assumono rilevanza nazionale. È molto bella la solidarietà che emerge dalle carte d’archivio tra le due sorelle, il loro amor di patria, l’interesse pubblico sempre al di sopra di quello privato. La loro azione e quella di Iannello si incanalano attraverso l’associazione Italia Nostra, di cui Elena è tra i fondatori nel 1955, e il Comitato per la difesa culturale del Mezzogiorno, nato nel 1969, soprattutto per iniziativa delle due sorelle. Alle spalle c’è il Partito repubblicano, che conta tra le sue fila Giuseppe Galasso, l’unico a restare inflessibile, nel corso degli anni, almeno a Napoli, nella lotta per la difesa dell’ambiente e contro le manomissioni del territorio.

Il Piano fu approvato infine nel 1972, ma la mano ferma delle sorelle Croce, gli appoggi politici costruiti con sapienza, riuscirono in parte a placare gli interessi dei costruttori in un quadro di alleanze politiche variabili

Nel periodo in cui il “Comandante” Lauro diede le carte della politica cittadina cominciò uno spaventoso “sacco” – la cui risonanza mondiale si deve a Le mani sulla città (1963) di Francesco Rosi, sceneggiato con l’amico Raffaele La Capria – che proseguì per un paio di decenni. Il Piano regolatore fu l’unico strumento per porre freno a un fenomeno che qui fu più virulento che altrove perché più arretrate erano le condizioni di partenza. Arrivarci fu il risultato di una lotta con parecchi colpi proibiti, raccontata nel libro con dovizia di particolari. Il Piano fu approvato infine nel 1972, dopo una serie di colpi di scena, ma la mano ferma delle sorelle Croce, gli appoggi politici costruiti con sapienza, riuscirono in parte a placare gli interessi dei costruttori in un quadro di alleanze politiche variabili. Certo molti danni erano stati fatti, il terremoto del 1980 aggravò la situazione, ma finalmente si poteva agire in un quadro di regole, il cui effetto tutto sommato positivo è documentato nel libro Napoli. Contro il panorama (Nottetempo, 2022) di Lucia Tozzi con le fotografie di Giovanna Silva.

I casi raccolti da Caputi, che si avvale soprattutto del ricchissimo archivio di Iannello, il quale aveva compreso che solo documentando tutto si potevano combattere le malefatte combinate di affaristi e politici compiacenti, variano dal caso di Villa Paratore a Posillipo, nel cui parco si costruirono due palazzine abusive camuffate da una rigogliosa vegetazione, a quello di Monte Sant’Angelo, nel cuore dei Campi Flegrei, dove la facoltà di Scienze dell’Università di Napoli volle costruire la nuova sede, o ancora la Tangenziale, costosissima ma necessaria opera pubblica costruita tra il 1968 e il 1977, il cui tracciato, in particolare uno svincolo, metteva in pericolo due ville settecentesche e i loro giardini. Battaglie a volte vinte e a volte perse, ma combattute con accanimento dai tre “complici” che faticavano a trovare sostegno nella società civile. La politica cittadina, quando non era coinvolta da inconfessabili interessi, si voltava dall’altra parte, considerandole questioni elitarie, che non portavano voti, anzi contro lo spirito del tempo, un tempo in cui termini come progresso e sviluppo erano sinonimi.

Il caso più interessante, l’unico che ha qualche punto di contatto con il libro che Luca Rossomando ha dedicato a “militanti politici e classi popolari” napoletane, riguarda gli stabilimenti Italsider e Cementir di Bagnoli. Parlarne significa tracciare la storia dell’acciaio in Italia. Le aziende dell’Iri cercarono a più riprese di allargare il perimetro dei propri stabilimenti, appoggiate dai principali partiti politici (Dc, Pci, Psi), dai sindacati, avendo contro solo gli ambientalisti e il Pri che uscì dalla maggioranza in Comune. I problemi di inquinamento, di salute dei lavoratori, non erano popolari negli anni Settanta. Le ragioni aziendali erano difese da Fedele Cova, il padre dell’Autostrada del Sole, uno dei più grandi manager di Stato del dopoguerra. Un’ironia della storia, ma ancora più amara, fu la conclusione: Bagnoli si espanse in un momento in cui il ciclo dell’acciaio entrò in una fase recessiva, fino a che gli stabilimenti chiusero nel corso degli anni Ottanta, una vicenda a cui Ermanno Rea ha dedicato La dismissione (2002). Una compensazione, certo parziale, arrivò attraverso Romano Prodi, allora presidente dell’Iri, che negli anni Ottanta regalò al Fai la Baia di Ieranto, un’area di grande bellezza naturalistica in Costiera, fino ad allora appartenuta allo Stato. Il Fai entra in queste pagine anche attraverso il terreno che Fiamma Pintacuda gli donò in Cilento per impedire ulteriori speculazioni.

Le aziende dell’Iri cercarono a più riprese di allargare il perimetro dei propri stabilimenti, avendo contro solo gli ambientalisti e il Pri: i problemi di inquinamento, di salute dei lavoratori, non erano popolari negli anni Settanta

Quello che colpisce in questo libro è la passione civile che emerge in queste battaglie. Vengono in mente altre figure, come Roberto Pane o Luigi Cosenza, che parteciparono, in forme un po’ diverse, in polemica anche con quella che in teoria era la propria parte, al dibattito sul futuro di Napoli, al rapporto tra antico e moderno, al destino del centro storico, grandi personaggi che varrebbe la pena in futuro approfondire, anche al di là del (giusto) culto famigliare.

Per non finire il libro con l’amaro in bocca è bello ripercorrere la vicenda che portò all’abbattimento del cosiddetto Hotel Fuenti, forse il primo ecomostro, costruito sulla Costiera amalfitana a sfregio di qualunque regola, mai davvero utilizzato (se non per ospitare i senzatetto del terremoto del 1980) e infine abbattuto nel 1999. Per la prima volta è all’opera una generazione più giovane nel difendere le ragioni del territorio. Fu un inizio. Ben vengano studi come questi che aiutano a comprendere come siamo arrivati fin qui e cosa ci aspetta. La strada da percorrere resta ancora lunga.