Nella prima metà del Novecento, l’Italia non era dotata di una rete viaria eccellente (come racconta Enrico Menduni ne L’Autostrada del Sole, Il Mulino, 1999). La maggior parte delle strade si snodava soprattutto lungo le direttrici costruite dagli antichi romani e presentava ancora ampi tratti non asfaltati. A pensarci bene non è un dato sorprendente: la società dell’immediato dopoguerra non aveva ancora raggiunto un livello di benessere tale da favorire la diffusione in massa dei mezzi di trasporto privato. L’esigenza di realizzare ampie vie interurbane per sole auto non si era ancora pienamente manifestata. Ma i fenomeni socio-economici che stavano emergendo negli anni precedenti al cosiddetto miracolo economico (1958-63) imposero cambiamenti repentini. Il sogno di possedere un’automobile stava diventando reale per molti.

Con l’ampliamento delle classi medie si era diffuso un inedito desiderio di viaggiare: si era ormai consolidata la voglia di spostarsi seguendo itinerari personalizzati e non i percorsi imposti dalla rete ferroviaria. La realizzazione di strade a percorrenza veloce diventava così essenziale: dotarsi di un’autostrada che collegasse Milano-Bologna-Firenze-Roma-Napoli rispondeva a questa esigenza. Si trattava di un progetto ardito che si materializzò all’interno di una rete multiforme di attori – politici, gruppi imprenditoriali privati, soggetti del capitalismo di Stato. Dovremmo ricordarci più spesso che le forme di partenariato pubblico-privato sono un’invenzione meno recente di quanto una certa retorica sostenga. Allo stesso tempo, ritroviamo nella nascita della A1 – per gli amici, l’Autostrada del Sole – un germe costitutivo del capitalismo italiano, ossia una persistente capacità dei grandi gruppi industriali di condizionare il senso dello sviluppo del Paese e la direzione degli investimenti pubblici: vi era un ritardo nello sviluppo della motorizzazione che andava colmato rapidamente.

Nella nascita dell'A1 si ritrova un germe costitutivo del capitalismo italiano: la capacità dei grandi gruppi industriali di condizionare la direzione degli investimenti pubblici del Paese

Fu l’Iri a farsi carico dell’implementazione del progetto, per tramite della Società concessioni e costruzioni autostrade Spa, a capo della quale venne posto l’ingegnere Fedele Cova, che si guadagnò sul campo il titolo di padre di fatto della A1.

Cova e i suoi collaboratori si presero cura anche del rito di iniziazione dell’opera: la posa della prima pietra, che si tenne il 19 maggio 1956 a San Donato Milanese. Tra le autorità presenti spiccava l’allora presidente della Repubblica, Giovanni Gronchi, che depose la pergamena nell’incavo del simbolico blocco di marmo, dopo che questa fu benedetta dall’arcivescovo Giovan Battista Montini, destinato poi a diventare papa Paolo VI. Come inevitabile nel caso di infrastrutture di questa portata, la posa della prima pietra fu solo uno dei molti eventi cerimoniali e simbolici che si verificarono in quegli anni. Le inaugurazioni delle varie tratte si accompagnavano all’esaltazione retorica del genio italico e videro sfilare il firmamento politico della golden age della Prima Repubblica: Amintore Fanfani e Antonio Segni nel 1962 inaugurarono il tratto Roma-Capua, mentre Aldo Moro sancì il completamento dell’opera nel 1964.

Otto anni di lavoro per coprire più di 760 km lastricati di ponti, viadotti, cavalcavia, gallerie, raccordi, imperlati da alcune chicche: il primo autogrill a ponte d’Europa e un sistema di schede perforate per il pagamento dei pedaggi che costituiva una infrastruttura informatica originale, come riporta lo stesso Menduni.

È noto che l’Italia sia un Paese complicato da un punto di vista geomorfologico, e che non si lasci addomesticare facilmente. Far sì che l’A1 superasse gli ostacoli del territorio non fu semplice. A questa sfida l’ingegneria civile italiana, che ha goduto di buona reputazione internazionale durante gli anni del miracolo economico, rispose in modo convincente. A cantieri ancora aperti i progetti di molti viadotti dell’autostrada vennero esposti al MoMa di New York per il loro valore innovativo da un punto di vista ingegneristico ed estetico. Insomma, l’Autostrada del Sole fece parlare di sé nel mondo.

Dati questi presupposti e gli innegabili successi che hanno contraddistinto i suoi primi vagiti, non stupisce che l’opera sia stata circondata da un’aurea retorica, per molti aspetti mitica, che persiste ancora oggi. Non solo. Essa è diventata anche una sorta di controcanto della narrazione della storia della Repubblica. A distanza di diversi decenni dalla sua inaugurazione, l’Autostrada del Sole continua a essere molto più di una semplice autostrada. Di volta in volta viene chiamata in causa nel dibattito pubblico come argomento a favore di uno pseudo-nazionalismo all’italiana («quando gli italiani si impegnano sono i migliori, si pensi ai lavori di realizzazione dell’Autostrada del Sole») o come opera rivelatrice dell’ineluttabile declino del Paese («ci impiegammo solo otto anni a costruire l’Autostrada del Sole, oggi non si riesce più a fare nulla»). È ovvio che si tratta di retoriche confuse, che semplificano processi complessi. Ma proviamo anche noi a giocare con le retoriche, impedendo così all’Autostrada del Sole di vivere in pace, da semplice autostrada.

L’A1 continua a essere chiamata in causa nel dibattito pubblico come argomento a favore di uno pseudo-nazionalismo all’italiana o come opera rivelatrice del declino del Paese

In fondo, l’A1 ha avuto storicamente una grande portata simbolica poiché è stata capace di evocare molti aspetti del Paese: si srotola lungo buona parte della penisola, connette aree climatiche differenti e lontane. Il sole, che all’autostrada dà il nome, è il miraggio di chi va in vacanza al Sud o di chi al Sud torna per trascorrere parte dell’estate. Ma il sole è anche ciò che ci si lascia alle spalle quando ci si sposta verso il (relativamente) freddo Nord. E la dicotomia tra il freddo Nord e il caldo Sud fa pensare a come l’A1 sia servita, da un lato, ad attenuare le differenze territoriali del Paese e, dall’altro, a consacrarle. Essa, infatti, doveva facilitare le interconnessioni tra le macroaree dell’Italia: Sud-Centro-Nord. È innegabile che abbia assolto adeguatamente a questo compito.

Allo stesso tempo, l’A1 è stata anche una cartina tornasole delle persistenti storture territoriali del Paese. Se si pensa alla geografia economica e umana dell’Italia, il flusso di marcia lungo l’autostrada è stato certamente bidirezionale, ma anche asimmetrico. L’Autostrada del Sole è diventata principalmente il varco stradale per chi dal Sud si dirigeva al Nord. In senso contrario, come abbiamo già detto, ci si muoveva prevalentemente nei mesi estivi, quando i ritmi delle attività lavorative si rilassavano e il Mezzogiorno poteva dare il meglio di sé come luogo di svago e di piacere.

L’A1, pertanto, non ha rimescolato le carte, ma è diventata il moltiplicatore di uno schema di spostamento di popolazione interna al Paese che trovava – e trova tuttora – la sua ragion d’essere negli squilibri tra Nord e Sud. Forse consiste in questo paradosso l’identità simbolica dell’Autostrada del Sole, che si ripropone dal lontano maggio del 1956: un caso di successo, capace di connettere le zone di un Paese stretto e lungo, che però ha continuato a essere scarsamente coeso a livello territoriale, complicato da un punto di vista istituzionale e frammentato in relazione al suo sviluppo economico. Di tutto questo non può certo farsi carico un’autostrada.

Neppure il più naif dei modernisti avrebbe mai potuto pensare che sarebbe bastata un’infrastruttura, seppur grandiosa, per correggere realmente quelle dinamiche. L’autostrada poteva essere il simbolo e il punto di approdo di un ampio processo di cambiamento e modernizzazione. Il simbolo è stato realizzato in modo eccellente, mentre il processo complessivo, purtroppo, si è dispiegato solo in parte.