«Prendete il potere nelle vostre mani! Sarà più semplice per noi venire a patti con voi che con questa banda di drogati e neonazisti di Kiev che ha preso in ostaggio l’intero popolo ucraino». Ormai, alla luce di quanto concretamente, tragicamente, vergognosamente sta avvenendo in Ucraina, le dichiarazioni di Vladimir Putin tendono a non stupire più per i loro toni. Eppure, con questo appello, a suo modo, sorprende nuovamente: Putin si è rivolto infatti ai soldati ucraini, invitandoli di fatto a un colpo di stato in alleanza con le truppe russe.

Sorprende questo invito (anche) perché nella rumorosa consultazione internazionale in merito all’introduzione di nuove sanzioni mirate, poche parole ‑ oltre a quelle di circostanza ‑ sono state rivolte direttamente agli ucraini, costretti in queste ore e da giorni ormai a vivere nella totale incertezza, rifugiati nelle cantine e nelle stazioni della metro, appiattiti a terra, il più possibile distanti dalle finestre delle abitazioni. Tra loro, è bene ricordarlo, ci sono anche bielorussi e persino russi, che da anni ormai hanno optato per vivere in Ucraina per scappare a persecuzioni e restrizioni dei rispettivi regimi.

La sensazione che traspare da diversi appelli e commenti pubblicati in questi giorni dagli ucraini sui social media è quella del più totale abbandono e isolamento

La sensazione che traspare da diversi appelli e commenti pubblicati in questi giorni dagli ucraini sui social media è quella del più totale abbandono e isolamento. Quell’integrità, quell’indipendenza, quella vita che vanno internazionalmente salvaguardate, «noi ucraini ce le difendiamo da soli», parafrasando il presidente Zelenskij. E nel farlo «difendiamo l’Europa intera», chiosa il sindaco di Mariupol’, Vadym Bojčenko. «Le maggiori potenze mondiali osservano tutto da lontano. Le sanzioni di ieri hanno forse convinto la Russia? Noi lo sentiamo sopra le nostre teste e sul nostro suolo che questo non è stato abbastanza», ha dichiarato Zelenskij. Certo, che la società civile si sia mossa ‑ in Europa, come anche in Russia ‑ è evidente, eppure sul campo, concretamente, il Paese si sta difendendo da solo.

Nel frattempo, le truppe di Putin ‑ ufficialmente incaricate di liberare il popolo ucraino dal «governo fantoccio» che lo terrebbe in ostaggio, arrestarne le autorità e portarle davanti a un «tribunale» dove dovranno rispondere delle «loro responsabilità» (così il ministero degli Esteri russo) — ha messo a ferro e fuoco le principali città del Paese, violandone l’integrità e le vite dei cittadini (198 morti secondo le fonti ufficiali alle ore 14 del 26 febbraio), costringendone oltre centomila alla fuga (i Paesi vicini, baltici e Polonia in primis, si sono già mossi per l’accoglienza; in terra nostrana, c’è chi da consuetudine non ha perso tempo per strumentalizzare il tema). Così come risulta assente ogni timore nell’utilizzo deliberato di parole forti come «fascisti» e «nazisti» ed espressioni che travalicano il surreale, altrettanto spavaldo pare essere l’atteggiamento nei confronti delle manovre militari, quasi a suggerire una preventiva sicurezza di impunità e libertà di azione.

I Paesi vicini si sono già mossi per l’accoglienza dei profughi. Da noi c’è chi come sua consuetudine non ha perso tempo per strumentalizzare il tema

Nel rivolgersi agli ucraini (ai soldati ucraini), tuttavia, Putin dimentica ‑ ancora una volta deliberatamente ‑ di porre l’attenzione sui suoi cittadini, soggetti da anni a una guerra diversa, più e meno manifesta, più e meno violenta, che si gioca sui loro diritti e libertà (e, talvolta, sulla loro pelle). Quest’«operazione militare» che il Cremlino non vuole definire «guerra» (e punisce chi lo fa, comprese molte testate) ha generato ondate di proteste e una resistenza diffusa in questi giorni che i numerosi arresti non sapranno probabilmente fermare. A una popolazione attraversata da i più disparati problemi socio-economici, la guerra con un vicino così storicamente vicino (con tutto ciò che ne deriva) non può che risultare ancora più inaccettabile. Inaccettabile soprattutto per le ricadute che determinerà (e determina già ora) proprio per i cittadini russi stessi, i risvolti che tutto ciò avrà sulle loro vite, l’esclusione e l’isolamento che provocherà a questa società e ai suoi singoli individui. Suona allora ancora più sinistro il commento dell’ex premier russo Medvedev in merito all’interruzione della partecipazione di Mosca al Consiglio d’Europa: «in fin dei conti è una buona occasione per ristabilire alcune importanti istituzioni: la pena di morte, ad esempio».