Roma e la sua crisi continuano a viaggiare appaiate nel dibattito pubblico nazionale e internazionale  da circa tre anni, ossia dall'esplosione del cosiddetto caso di «Mafia Capitale» (la derubricazione del Tribunale a crimine associativo non cancella gli ultimi tre anni: la ricorderemo comunque così). Prendiamo – in modo non casuale – due titoli di questa stessa rivista: Roma, una città senza vocazione («il Mulino», n. 2/2016, con autore chi scrive) e la tappa dedicata a Roma, a firma di Fabrizio Barca, Liliana Grasso e Flavia Terribile, del Viaggio in Italia (rivistailmulino.it, 13.7.2017). In entrambi i casi l'analisi dei problemi della città appariva lunga e articolata, mentre era assai più timida la pars construens: non è facile prendere il toro per le corna avanzando proposte solide.

Proprio in un momento così difficile per la città va aumentando, in modo esponenziale, l'interesse degli studiosi per Roma. Il grande convegno presso il Gran Sasso Science Institute dal titolo «Roma in transizione», nell'aprile di quest'anno; la mappatura socio-demografica della città del gruppo Mapparoma (dall'analisi del voto alla distribuzione dei redditi e dei servizi, passando per il boom dei divorzi a Roma Nord); il gruppo di lavoro sulle periferie urbane che si raccoglie attorno a Carlo Cellamare; la “sezione” romana di Urban@it, che grazie al coordinamento di Ernesto D'Albergo e Daniela De Leo analizza oggi l'evoluzione dei processi di policy in alcuni settori chiave della capitale; le “conversazioni su Roma” ospitate da Giovanni Caudo; più un numero consistente di autori che hanno scritto molto di recente su e di Roma (difficile citarli tutti, ma pensiamo a Tocci, Erbani, De Lucia... per dire solo dei più noti). Perché tornare a interrogarsi su Roma? Solo perché si sta male, cresce il disagio, manca l'acqua? Piuttosto, si tratta di indagare su una delusione epocale,  quella successiva ai Duemila, gli anni del cosiddetto “modello Roma”. Cosa accadeva davvero alla città? Cosa non si è visto? Come ha fatto Roma a divenire una città periferica? E, soprattutto, a che serve Roma?

Chiedendoselo, si è improvvisamente coscienti del fatto che Roma oggi è una città periferica, con un papa che guarda poco alla città e alle beghe italiche (tranne quando da esse si deve difendere) e molto al mondo; la capitale di un Paese periferico nel quadro geopolitico europeo e mondiale: il trattamento che subisce dal resto d'Europa nell'ambito della questione della gestione dei migranti, tema che porterebbe Roma al centro del Mediterraneo che cambia, ne è prova; come la continua minaccia di fare di noi la nuova Grecia. Una città in crisi economica, che ha ceduto il passo al resto del Paese (quello che ce la fa, almeno), la cui centralità politica è venuta meno attraverso i processi di trasferimento di sovranità verso l'alto (l'Europa) e verso il basso (soprattutto le regioni). Una città senza banche di «sistema» dai tempi dell'acquisizione/fusione di Capitalia da parte di Unicredit, vituperata politicamente dal nuovo ceto dirigente nazionale «milanese» (Berlusconi e la Lega), mai amata da quello fiorentino (Renzi), genovese (Grillo) e con un ceto politico locale che non è mai riuscito nel progetto di prendersi il governo dell'Italia dallo scranno di sindaco (Alemanno, Veltroni, Rutelli: ognuno ha trovato la sua Waterloo).

La «Quarta Roma» – dopo quella imperiale, quella papalina e la terza vagheggiata da Mussolini, la quarta Roma dei ministeri e del centro amministrativo della Repubblica – esiste ancora, ovviamente. Essa, però, è in declino: aveva rappresentato per la città un'incredibile opportunità di crescita, l'ascensore sociale dei romani e degli emigrati che si facevano piccola borghesia, oltre che per i contadini che arrivavano dalle campagne per farsi muratori, costruendo i palazzi per chi lavorava nella Roma dei ministeri e per loro stessi (l'autocostruzione delle borgate abusive).

Se a Roma l'87% degli occupati lavora nel variegato comparto dei servizi, quello a cui assistiamo è una riduzione sempre più consistente degli impiegati del pubblico impiego nel perimetro di questo 87%: ministeri, Comune ed enti che non assumono quasi più, interrompendo il ciclo dorato del trasferimento di risorse dallo Stato alle famiglie, e dalle famiglie al motore defunto dell'economia romana, il mattone. E allora le famiglie sezionano quello che hanno, dividono eredità, mandano figli (magari istruiti) a vivere nella nuova periferia cresciuta attorno al Raccordo anulare, creatasi negli ultimi 25 anni a ritmi sostenuti, prima che la crisi edilizia si abbattesse sulla città. Oppure in quella dell'hinterland romano, che a nord arriva ormai a Civitavecchia (con la multietnica Ladispoli a metà strada, che conta 40 mila abitanti e la scuola media più interculturale d'Italia); a sud si spinge nella provincia di Latina (la stessa Latina, Aprilia..) e di Frosinone... e poi i Castelli, le città della costa a sud di Roma (Ardea, Nettuno, Anzio); le città dell'area Tiburtina: Guidonia (80 mila abitanti, il terzo comune del Lazio), Tivoli... Da qui – ma anche da luoghi più lontani, pensiamo alle maestre pendolari della provincia di Caserta – arrivano ogni giorno quasi 700 mila persone.

Le nuove mappe della perifericità interna all'area romana, ma Pasolini non abita più qui: non riconoscerebbe la periferia povera di servizi ma ricca di centri commerciali dell'area vasta romana; non riconoscerebbe nemmeno le strade di quartieri ultra-periferici composte però da appartamenti super-rifiniti, a risparmio energetico «classe A» ma senza asfalto, allaccio alla rete del gas, illuminazione. Come Monte Stallonara (5 mila abitanti), dove si sta attuando un Piano di Zona del Comune di Roma: terreni espropriati dall'amministrazione e dati in concessione alle cooperative edilizie e alle imprese (gli eredi dei vecchi Peep). Queste ultime devono affittare e vendere a prezzi calmierati, ma a volte i prezzi non sono poi così calmierati e gli oneri di concessioni non vengono rispettati, ovvero il costruttore non allaccia i palazzi alla rete del gas, oppure non fa una strada, o nessuna delle due cose. Roma da vent’anni ne è piena, ce ne sono circa 60 (a Monte Stallonara, poi, gli abitanti sono preoccupati perché hanno scoperto che nessuno aveva bonificato la discarica su cui poggiano i palazzi, che potrebbero venire giù. Ma a loro è andata particolarmente male). Ecco: se la vediamo dal lato del Pil cittadino, questo tipo di economia edilizia è ormai in grave crisi da qualche anno.

E allora? Si seziona e si divide, tutti si fa meno con quello che si ha e chi ha un po' di più mette a valore le microrendite (le case-vacanza, in una città che ha visto la presenza turistica aumentare in 10 anni del 56%: una delle poche centralità certe di Roma, quella nei flussi turistici mondiali). Ci si arrangia e ci si adatta, come ha descritto il ricercatore del Censis Stefano Sampaolo in un working paper del Convegno «Roma in transizione»: si perde il posto di lavoro e lo si reinventa, oppure si fa lo stesso lavoro; ma l'avvocato, il grafico, il disegnatore di software, il medico, il giornalista, l'estetista e l'autista di Ncc chiedono meno o offrono più servizi allo stesso prezzo. Processi adattivi, li chiama Sampaolo: e spiega che il calo del Pil romano dall'avvio della crisi è stato del 6,3%, quasi in linea con quello nazionale. Una volta non era così, Roma era anti-ciclica, il portafoglio del lavoratore pubblico la metteva al riparo dalle grandi tempeste.

Oggi, racconta ancora Sampaolo, mentre il numero delle imprese in Italia diminuisce, a Roma la crisi porta un aumento del 11,7%. Il romano (e l'immigrato) si mette in proprio, si arrangia e saluta il posto al ministero: ditte individuali, partite iva e tanta «economia dei piani terra». Corsi da pasticciere, da pizzaiolo... e poi l'attività in proprio: minimarket e ristoranti take away crescono, in 6 anni, del 20%. Economia del «food» per necessità e per adeguamento al turismo low cost, in costante crescita, della città; economia del «food», qualche volta, per necessità criminali: a giugno 2017, ben 46 esercizi che vanno in amministrazione controllata, quasi 300 milioni di beni sequestrati dalla Procura. C'è bisogno di liquidità, le banche fanno poche domande, il socio forte serve...

Insomma, Roma non è più un porto sicuro: subisce la crisi globale e nazionale, non possiede centri manifatturieri capaci di esportare all'estero, non si può mettere sotto l'ombrello di mamma-ministero. Si scopre periferica: «l’area romana pesa appena per il 9% circa del Pil nazionale, contro percentuali ben più elevate ad esempio di Parigi (30%), Vienna (26%), Lisbona (37%), Copenaghen (39%), Londra (22%)» (Sampaolo, cit.).

Che fare di Roma Capitale? Se lo è chiesto, in un recente seminario, l'urbanista Giovanni Caudo, che ha gettato le basi – insieme ad altri – per la creazione di un gruppo di studio sulla crisi di ruolo di Roma Capitale. Riflessione necessaria in vista della celebrazione dei 150 anni del trasferimento della Capitale unitaria nella modesta Roma papalina – quando vere capitali, come Londra, erano già allora più popolose della Roma del 2017 – che cadrà nel 2021. «Roma non può più essere, o non può più far finta di essere, la “Capitale” che è stata per tutto il Novecento e soprattutto ciò che è stata nel secondo dopoguerra», scrive Caudo. Perché, in sostanza, Roma dovrebbe godere di un assegno in bianco per il semplice fatto di essere capitale? L'assegno è già stato fatto fuori

 

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