Nel suo articolo più recente su questa rivista, Gianfranco Viesti ha il merito di interrogarsi non solo sull’attuazione delle misure, ma anche sul modello di sviluppo che il Pnrr intende perseguire, tema sul quale il dibattito in questi mesi sembra venuto meno. Il successo del Piano si misurerà proprio sulla capacità di contrastare l’indebolimento dell’economia italiana e qualificare il suo sviluppo in campo ambientale e tecnologico. In altre parole, con la prospettiva di politica industriale che si potrà sviluppare.

In queste settimane è in corso in Parlamento l’esame della “Relazione sullo stato di attuazione del Piano nazionale di ripresa e resilienza” per il 2021. Si tratta del documento con cui il governo dà conto delle misure introdotte e dei risultati conseguiti nell’attuazione del Piano. Il ministro Franco ha osservato come il Pnrr rappresenti una sfida sul piano dei tempi di attuazione e ha sottolineato la necessità di rafforzare la capacità “tecnica e amministrativa” di alcuni enti pubblici. Il ministro Giorgetti ha ricordato, invece, come sia necessario promuovere l’autonomia strategica dell’Italia: “Per 20 anni – ha detto – abbiamo fatto ragioneria pubblica, ora si deve fare politica industriale”. Ma è davvero così? Le parole del ministro sono una novità rispetto al passato, ma resta da vedere se il Pnrr rappresenterà davvero una svolta sul piano della politica industriale del nostro Paese.

Abbiamo già osservato, in altri contributi (cfr. Il Piano nazionale di ripresa e resilienza in una prospettiva di politica industriale, "Moneta e Credito", n. 295, 2021), come manchi nel Pnrr una vera strategia di politica industriale. Pur attivando una domanda di nuovi beni, servizi e tecnologie nelle aree della transizione digitale, ecologica e della sanità, il Piano non affronta il problema di come potenziare la capacità produttiva nazionale in queste aree, dove il nostro peso a livello internazionale risulta alquanto limitato (si veda anche M. Gaddi e N. Garbellini, Le politiche industriali nel Pnrr, "Quaderni di rassegna sindacale", 2/2021). Il rischio è che gran parte dell’effetto espansivo si trasferirà alle economie più forti ed emergenti. I settori produttivi principalmente attivati dalle misure saranno quelli legati alle attività delle costruzioni, dell’edilizia, del commercio al dettaglio e all’ingrosso, comparti in cui prevalgono lavori poco qualificati, con occupazioni precarie e bassi salari. Ciò renderà più difficile allineare le politiche al raggiungimento degli obiettivi “trasversali” del Pnrr: la riduzione dei divari di genere, generazionali e territoriali.

Sin da subito, il Pnrr è apparso più come una sommatoria di interventi che come una vera e propria agenda di sviluppo. Nel campo delle misure a sostegno del sistema produttivo, il Piano ha puntato su strumenti già esistenti (Transizione 4.0, Contratti di sviluppo, Accordi di innovazione, Fondi per l’internazionalizzazione), senza inserirli in una cornice unitaria di azione. La maggior parte delle risorse gestite dal ministero dello Sviluppo economico tra il 2021 e il 2026 (di fatto quasi 18 miliardi dei 24 previsti da Pnrr e Fondo complementare) è investita in incentivi alle imprese (Transizione 4.0), senza prevedere alcun tipo di condizionalità in termini di sostenibilità, innovazione, tenuta dei livelli occupazionali e qualità del lavoro creato. Altri interventi a favore del sistema produttivo sono suddivisi tra altri ministeri: le competenze per l’azione di politica industriale sono, del resto, oggi distribuite su più istituzioni (oltre ai ministeri, ci sono Cdp, Sace, Invitalia, che fanno capo al Mef) all’interno di un quadro poco coerente (e trasparente) che rende difficile costruire una strategia di azione ben integrata.

Per garantire un cambio di passo nell’economia non bastano nuove risorse, che pure sono necessarie, ma serve un nuovo ruolo di indirizzo dell’azione pubblica: servono una regia e un cambiamento nelle istituzioni

La nostra tesi è che per garantire un cambio di passo nell’economia – auspicato dallo stesso Pnrr – non bastino nuove risorse, che pure sono necessarie, ma serva un nuovo ruolo di indirizzo dell’azione pubblica: servono una regia e un cambiamento nelle istituzioni. L’assunzione di responsabilità da parte del governo richiederebbe intanto un’ampia condivisione di una strategia da parte delle imprese, del sindacato, dei lavoratori, della società civile, dell’opinione pubblica, unita a una leadership politica con una chiara visione di rilancio del sistema produttivo – un’idea precisa del posizionamento dell’economia italiana nel contesto globale, come sottolinea Viesti –, di come creare posti di lavoro di qualità e raggiungere gli obiettivi sociali e ambientali che si vogliono perseguire.

Per realizzare questi obiettivi sarebbe necessario, al contempo, ripensare le istituzioni coinvolte. Con un tessuto imprenditoriale frammentato e poche grandi imprese, occorrerebbe ricostruire le relazioni tra i soggetti economici, in particolare tra sistema della ricerca e mondo produttivo, tra amministrazioni locali e centrali, tra sistema finanziario e piccole imprese, migliorando quelle connessioni che sono ormai essenziali allo sviluppo di nuove attività, specie quelle ad alto contenuto di conoscenza (cfr. i lavori di Mariana MazzucatoMassimo Florio). Un’azione di politica industriale che punti a creare lavoro di qualità sarebbe peraltro il modo più efficace per ridurre nel tempo la spesa sociale in ambiti come gli ammortizzatori sociali e le politiche attive del lavoro, che richiedono già oggi un profondo rinnovamento.

Servirebbe, in sintesi, una visione di lungo termine della politica industriale. Un esempio l’abbiamo avuto poche settimane fa: sindacati e industriali hanno chiesto al governo un intervento sul settore dell’auto – colpito severamente dal crollo dei volumi produttivi e dalle prospettive della transizione all’elettrico – senza ottenere una risposta che esprima un progetto e una visione per il futuro della filiera.

L’enfasi sulla realizzazione delle misure del Pnrr e la loro rendicontazione, ben descritta da Viesti, non può motivare la rinuncia alle scelte di politica industriale. Negli ultimi anni il nostro Paese si è dotato di strumenti di azione in questo campo come mai nel passato recente (Patrimonio destinato, Fondo per l’Innovazione, lo stesso Pnrr), ma la discussione su come utilizzare al meglio quelle risorse e quegli strumenti non è mai decollata. Oggi – come prima della pandemia – ci sono alcuni problemi di fondo: ricreare le capacità di gestione delle amministrazioni pubbliche in campo economico senza ricadere negli errori del passato; riorganizzare le istituzioni esistenti sulla base del loro ruolo economico; individuare sedi e procedure di un dibattito pubblico che coinvolga nelle decisioni non solo governo e Parlamento, ma anche imprese, sindacati, esperti, il mondo ambientalista e della società civile. Nulla di tutto questo è all’ordine del giorno negli interventi del Pnrr.

In un articolo per "L’Industria", abbiamo avanzato alcune proposte di cambiamento delle istituzioni preposte all’azione di politica industriale: un’Agenzia per gli investimenti pubblici, con il compito di rinnovare le infrastrutture materiali, tecnologiche e sociali del paese; una Holding pubblica, che concentri le partecipazioni azionarie dello Stato nelle grandi imprese – da Enel a Eni, oggi nelle mani di Ccp, ministero dell’Economia ecc. – e coordini la loro azione in modo coerente con gli obiettivi della politica industriale, come proposto anche dal Forum Disuguaglianze Diversità (Missioni strategiche per le imprese pubbliche italiane, 2020); una Banca d’investimento pubblica che unisca e sviluppi le esperienze di Cdp e Invitalia, offra capitale “paziente” e “trasformativo” a iniziative private e potenzi alcune filiere ritenute strategiche, dando priorità a progetti industriali condivisi a livello di Unione europea.

C’è una preoccupante distanza tra le vecchie regole che hanno portato l’Europa a vent’anni di ristagno economico e l’urgenza di affrontare le molteplici crisi di oggi – militare, ambientale, pandemica – con adeguati strumenti di politica economica

La dimensione europea resta centrale in questa prospettiva. Nel corso del 2022 l’Unione europea dovrà ridefinire le regole fiscali. La vecchia impostazione – austerità, tagli alla spesa e al debito pubblico – continua a dominare il dibattito europeo, anche se l’intero Patto di Stabilità dovrebbe essere riformato. C’è una preoccupante distanza tra le vecchie regole che hanno portato l’Europa a vent’anni di ristagno economico e l’urgenza di affrontare le molteplici crisi di oggi – militare, ambientale, pandemica – con adeguati strumenti di politica economica e di spesa pubblica a livello europeo. L’altro ambito che avrà risvolti importanti sull’azione dei governi europei è la revisione della Disciplina sugli aiuti di Stato.

Negli ultimi mesi, la Commissione ha introdotto le nuove linee guida “a favore del clima, dell’ambiente e dell’energia” e ha approvato l’European Chips Act – sull’efficacia del quale, peraltro, vi sono forti dubbi (cfr. V. Comito, I ritardi Ue su chip e agroalimentare). Le regole straordinarie sugli Aiuti di Stato adottate nel corso dell’emergenza pandemica sono state comunque prorogate fino a giugno 2022, seppure con la raccomandazione di cominciare a ridurne l’impatto. Nel frattempo, con l’invasione russa dell’Ucraina si profila l’avvio di una rilevante spesa militare a scala europea: si rischia così di sottrarre le limitate risorse finanziarie disponibili per ricerca, innovazione e investimenti, per favorire attività che mirano alla potenza militare in contrapposizione allo sviluppo economico e alla sostenibilità ambientale.

Il quadro europeo resta comunque in rapida in evoluzione, mentre si discute di nuove iniziative fiscali per far fronte al rincaro dei prezzi, alla guerra in Ucraina e alle sanzioni alla Russia. In questo contesto sarebbe urgente una posizione chiara del nostro Paese per cambiare radicalmente la direzione delle politiche economiche, fiscali e industriali che hanno portato al lungo ristagno dei decenni scorsi. A Roma come a Bruxelles, il successo delle nuove politiche e del Pnrr dipenderà da un cambio di strategia per portare l’economia italiana ed europea su una traiettoria di sviluppo di lungo periodo che sia sostenibile sul piano ambientale e meno disuguale sul piano sociale.