L’ottimale realizzazione del Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) potrebbe essere decisiva per un miglior futuro del nostro Paese, almeno per un decennio. Ma sarà così? Da che cosa dipenderà l’esito finale? Proviamo a mettere in fila alcuni dei fattori che lo condizioneranno.

1. Disuguaglianze e “modello di sviluppo”. Il Piano è stato scritto, sia con il governo Conte II sia con il governo Draghi, nelle chiuse stanze dei ministeri, senza confronto con i tanti saperi disponibili. Ne è scaturito un testo sterminato, che contiene tanti interventi utili, ma che manca di una visione dell’Italia del futuro. È un progetto di efficientamento, ma non di cambiamento, di quel che esiste oggi: a partire forse dall’idea erronea che i problemi del Paese siano principalmente di natura tecnica e non politica. Come sarà l’Italia del 2026? Un po’ semplificata; un po’ più digitalizzata e con qualche asilo nido e molti binari in più. Bene, ma certamente non basta. Il Pnrr sembra non affrontare a sufficienza alcuni grandi nodi economico-sociali: le disuguaglianze, specie di genere e generazionali, le miserie, il lavoro povero, la grande deriva demografica; non sembra offrire ai diciottenni e soprattutto alle diciottenni del 2026 uno scenario particolarmente diverso da lavori precari, spesso sottopagati, con modesta copertura previdenziale. Così come non affronta a sufficienza i grandi nodi della collocazione dell’economia italiana, della sua industria e dei suoi servizi, nell’economia internazionale di oggi e di domani; di un “modello di sviluppo” molto più centrato su ricerca e innovazione. Sembra ispirato dalla fiducia che in un’Italia resa più semplice ed efficiente, le forze di mercato saranno le grandi protagoniste del cambiamento che serve. C’è da dubitarne, per tanti motivi; il rischio è che le misure del Piano si attuino e i nodi restino gli stessi.

Il Piano sembra ispirato dalla fiducia che in un’Italia resa più semplice ed efficiente le forze di mercato saranno le grandi protagoniste del cambiamento che serve

2. Non basta realizzare le misure. Il Piano italiano è una parte fondamentale dell’iniziativa Next Generation (Ngeu): rispettarne le tappe rafforza anche le posizioni di quanti cercano di costruire un’Europa diversa da quella degli anni Dieci, più basata sugli investimenti. Il Governo fa benissimo a prestare la massima attenzione agli aspetti attuativi necessari perché proceda con successi (“traguardi” e “obiettivi”) e arrivino le risorse. Ma non basta “attuare il Piano”, realizzare le opere e fare le “riforme”. Il vero successo del Pnrr dipenderà dalla capacità di far vivere gli investimenti che si faranno, di organizzare il loro funzionamento con modalità anche molto innovative, determinando così uno strutturale miglioramento della vita dei cittadini e un incremento della produttività delle imprese. Senza più generali politiche per la salute, l’istruzione, il Welfare, il loro impatto rischia di essere di breve periodo (la costruzione delle opere) e non strutturale. In particolare, una buona spesa pubblica è indispensabile per costruire un Paese differente. Ci potrà essere? Questo dipende dalle grandi regole comunitarie che presiederanno, dal 2023, alla politica fiscale degli Stati membri, su cui è intensa la discussione: un ritorno all’austerità anni Dieci cancellerebbe le speranze nate per l’Italia con il Ngeu. Una partita politica decisiva. Ma dipende anche dai grandi indirizzi nazionali di bilancio: alcune scelte di questo secolo, dall’enfasi sui principi del new public management a un federalismo fiscale che penalizza i più deboli, dalla strisciante privatizzazione di sanità e istruzione al dilagare di bonus e misure particolaristiche, andrebbero radicalmente riviste. Purtroppo, recenti decisioni politiche (dall’intervento sulla tassazione ai superbonus per le villette dei ricchi) preoccupano molto.

Alcune scelte di questo secolo, dalla strisciante privatizzazione di sanità e istruzione al dilagare di bonus e misure particolaristiche, andrebbero radicalmente riviste

3. Il ruolo delle amministrazioni pubbliche. Il Pnrr italiano è colossale, anche tenendo conto del fatto che per circa 60 miliardi finanzia progetti che già disponevano di risorse nazionali (e così crea risparmi nel bilancio pubblico). A differenza di tutti gli altri principali Paesi europei, abbiamo “messo tutte le uova in un paniere”, utilizzando tutti i prestiti europei del Ngeu, e aggiungendo risorse nazionali (il “fondo complementare”). La Francia ha costruito il Piano con i soli contributi europei e a parte, con fondi propri, si è dotata di un programma nazionale. Un programma così grande in un tempo limitato può produrre un grande effetto di spinta: tanti interventi che possono rafforzarsi a vicenda e determinare un big push. Ma può anche restare in parte inattuato: molti esperti sono preoccupati per i tempi previsti (luglio 2026) per la conclusione di tutte le opere. Difficile dire cosa potrà accadere; se e quando questo diverrà palese. Ma quel che sorprende è che di fronte a questo carico, che è grande e concentrato sulle amministrazioni pubbliche, non si sia pensato a rafforzarle. Il Piano prevede assunzioni a termine nella giustizia, un po’ nelle altre amministrazioni centrali, poco o niente in quelle locali. Così, un enorme carico attuativo si riversa sull’attuale settore pubblico, che ha personale con età media elevata e livello di istruzione modesto, con un ricambio limitatissimo nell’ultimo decennio. Probabilmente ha contato la diffusa, pregiudiziale e ideologica opposizione a un rafforzamento del settore pubblico (propugnata anche da importanti esperti che circondano il presidente del Consiglio); forse si ritiene che l’efficienza (semplificazioni, digitalizzazione) risolverà tutto, senza necessità di nuove competenze. Invece, è lecito temere che ciò determinerà non solo rischi nelle tempistiche attuative, ma anche possibili problemi nella qualità degli interventi selezionati (sia dai soggetti che propongono gli investimenti e sia attuali burocrazie ministeriali che hanno poteri assoluti in questa fase) e poi attuati. Un’Italia con tanti binari ed edifici per asili, ma senza una nuova, motivata, giovane generazione di insegnanti elementari, di assistenti sociali, di ingegneri comunali, di pianificatori dei servizi territoriali difficilmente sarà diversa, migliore, da quella di oggi.

Difficile non vedere rischi nelle tempistiche attuative, ma anche possibili problemi nella qualità degli interventi selezionati e poi attuati

4. L’Italia dei sindaci, disarmati. Questa riflessione vale ancor più per le amministrazioni comunali. Il Pnrr è stato scritto a Roma, con una modestissima interlocuzione con le Regioni; ha misure largamente uguali per tutti i territori italiani. È principalmente un piano di investimenti pubblici: in Italia questo significa interventi gestiti dalle imprese del settore pubblico allargato nazionale (le Ferrovie, Terna, Infratel) e locale (le municipalizzate) e dalle amministrazioni comunali. Si tratta di una grande novità politica: una riduzione del potere delle Regioni, a vantaggio dell’esecutivo nazionale e dei Comuni, con molti pro ma anche alcuni contro. L’Italia del Pnrr è in larga misura l’Italia dei sindaci: che per la prima volta da decenni hanno l’onere ma anche la possibilità di progettare e realizzare interventi su larga scala. Onere non banale, anche perché gli interventi rigidamente settoriali del Pnrr vanno attentamente raccordati sui territori. Ci riusciranno? Anche qui, una forte preoccupazione, motivata da due circostanze. La prima è che tutti i Comuni italiani hanno sofferto moltissimo dell’austerità (hanno perso un quarto del loro personale) e che sono poco attrezzati per questi nuovi compiti, che si sommano all’ordinario. Il tema è quasi ignorato; si è provato a mettere in piedi qualcosa (un po’ di personale a termine, qualche fondo per progettazioni, qualche possibile consulenza della Cassa depositi e prestiti) ma poco. A Napoli, dove i dipendenti comunali sono passati da 14.000 a 5.000, arriveranno 4 collaboratori esterni.

L’Italia del Pnrr è in larga misura l’Italia dei sindaci: che per la prima volta da decenni hanno l’onere ma anche la possibilità di progettare e realizzare interventi su larga scala

La seconda è che le capacità delle amministrazioni sono molto differenti: vi è un tradizionale divario fra Sud (e parte del Centro) e Nord, dove le amministrazioni sono più forti e meno indebitate, i territori sono più ricchi, e agiscono di supporto soggetti importanti come le Fondazioni; ma anche fra piccoli centri e città. Questo divario è rilevante perché il Pnrr in molti casi si attua per bandi: non è garantita una copertura uniforme del territorio, né tantomeno una significativa concentrazione delle risorse dove le dotazioni sono minori. Gli investimenti si faranno nei Comuni che presenteranno i progetti “migliori”, stando ai criteri definiti dai Ministeri (e i criteri di allocazione con cui sono stati costruiti i primi bandi destano grandi perplessità). Scelta probabilmente motivata dalle tempistiche strettissime (progetti “cantierabili”) e da un comprensibile desiderio di selezionarli (ma questo dipende dai criteri con cui sono scritti i bandi!). Il Governo, in sostanza, non si assume la responsabilità politica della allocazione delle opere sui territori: noi mettiamo a disposizione le risorse, voi fate e vincerà il migliore.

5. La questione meridionale. Questo ci porta a Sud. Il Pnrr prende un importante impegno politico: il 40% degli investimenti “territorializzabili” (e in questo termine si nascondono alcuni problemi), cioè circa 80 miliardi, nel Mezzogiorno. Ma poi dice solo in minima parte quali. Il resto dovrebbe scaturire, auspicabilmente, dai processi attuativi. Accortosi all’improvviso dei rischi di questa impostazione, il governo è corso a emendare un proprio decreto nel luglio scorso, a Piano già a Bruxelles, prevedendo che per ogni bando il 40% dovrà andare a Sud. Il punto è che garantire una percentuale in ogni materia è assai rozzo (e si presta a recriminazioni dal resto dei territori italiani) in mancanza di chiari obiettivi politici da raggiungere: un conto è dire che il Sud ha diritto al 40% di tutto, un conto è perseguire il principio secondo il quale tutti gli studenti delle elementari hanno diritto al tempo pieno, e quindi bisogna investire nelle opportune strutture in tutti i luoghi del Paese ove ve ne sia bisogno. Nel Piano si dice che si mira a una copertura di asili nido per il 33% dei bambini 0-2 anni, ma non che bisogna raggiungerla costruendoli prioritariamente nei Comuni dove non ci sono (e i criteri del bando del ministero dell’Istruzione non vanno particolarmente in questo senso). Al di là degli aspetti quantitativi, il Pnrr non “vede” il Sud, e in generale i forti divari territoriali del nostro Paese. Contiene taluni grandi investimenti (alcuni dei quali, però, come il nuovo tracciato ferroviario da Battipaglia verso Sud suscitano non poche perplessità) e poi tanti interventi settoriali. Nelle aree deboli si fa un po’ di tutto quello che si fa nell’insieme del Paese. La responsabilità ultima della realizzazione degli interventi è delle autorità locali (anche se sono opportunamente evocati poteri sostitutivi: si vedrà); se una amministrazione comunale non presenta progetti o non riesce a realizzarli, peggio per i suoi cittadini. “Al Sud abbiamo destinato tanti soldi, ma non è stato capace di utilizzarli”: si leggerà così sui giornali del 2026?

Un conto è dire che il Sud ha diritto al 40% di tutto, un conto è perseguire il principio secondo il quale tutti gli studenti delle elementari hanno diritto al tempo pieno

6. Quale “modello di sviluppo”? Il Piano confida molto che una volta avviate tutte le opere e i nuovi servizi, il sistema produttivo nazionale si adeguerà a queste richieste e riuscirà a soddisfarle; vi è però il timore, leggibile anche dalle stime sull’impatto macroeconomico del Pnrr, che la forte spinta alla domanda interna possa produrre un boom dell’import. Vi sono misure che prevedono interventi sulle imprese, ma quella dotata di maggiori finanziamenti (Transizione 4.0) si limita a prevedere detrazioni fiscali per chi investe in nuove tecnologie, senza condizionalità, in qualsiasi produzione. Coerentemente con la sua impostazione generale, nel Piano non c’è una politica industriale; ancora meno che nelle più recenti comunicazioni della Commissione europea. Non vengono esplicitate “missioni” di sviluppo (come la transizione verde) rispetto alle quali il sistema delle imprese private e a partecipazione statale (queste ultime grandi beneficiarie del Pnrr) è spinto a modificare le proprie strategie. Ad esempio, il Piano non considera le grandi trasformazioni che in questo decennio investiranno le produzioni di mezzi di trasporto con l’elettrificazione, salvo annunciare un possibile sostegno al nuovo (ma non ancora definito) stabilimento di batterie di Stellantis a Termoli. Più banalmente, ma concretamente, il Piano non contiene riflessioni sui possibili colli di bottiglia (e quindi aumenti di costi o forte crescita dell’import) che si determineranno una volta che le tante opere pubbliche andranno a regime: chi produrrà tutte le finestre per le scuole, gli asili, gli ospedali di comunità che sorgeranno fra il 2023 e il 2025?

Coerentemente con la sua impostazione generale, nel Piano non c’è una politica industriale; ancora meno che nelle più recenti comunicazioni della Commissione europea

Da tutto ciò, una conclusione: non sembra utile il diffusissimo atteggiamento di delega verso il governo dei migliori, e il plauso acritico alle sue comunicazioni sul rispetto delle scadenze di “traguardi” e “obiettivi” che sbloccano le diverse tranches di pagamenti; esse sono un mezzo, non un fine. Stiamo facendo tutto, certo: ma come? Allo stesso tempo è profondamente sbagliato fare i profeti di sventure, o peggio ancora, remare contro.

Il quadro ha luci e ombre, l’esito è ancora aperto; il processo attuativo in corso comporta e determina importanti scelte. Più se ne discuterà pubblicamente, nel Paese come in Parlamento (specie nel prossimo appuntamento di discussione sulla Relazione di attuazione del governo), meglio sarà. Il Piano non è un documento tecnico la cui realizzazione va delegata a tecnocrati illuminati, ma un’occasione per discutere, e incidere, sul futuro di un’intera generazione.