L’intestazione di vie e piazze rappresenta una delle più feconde occasioni di storia pubblica. Se il rinvio è a longeve tradizioni municipalistiche, la crescente attenzione verso l’odonomastica permette di ricostruire non solo la cultura e le memorie comunitarie, ma anche di evidenziare gli snodi di una storia dell’immaginario civico. Fin dagli anni post-unitari e in ognuno dei “passaggi” principali della storia italiana – secondo Ottocento crispino, Primo e Secondo dopoguerra, anni Settanta, anni Novanta – lo spazio urbano ha costituito lo scenario in cui le classi dirigenti hanno messo in atto le rappresentazioni dei perseguiti valori laici e di democratizzazione.

L’attenzione a una cronologia di lungo periodo aiuta a evidenziare i fattori di continuità e di trasformazione nei contesti politico-istituzionali, amministrativi e socio-culturali. Occorre indagare il senso delle tradizioni civiche e con esse le forme e i linguaggi delle autorappresentazioni comunitarie, l’influenza delle élite locali, la natura peculiare dello sviluppo urbanistico nelle sue forme architettoniche e stilistiche. Sappiamo ormai dal classico studio diretto da Pierre Nora sui Lieux de mémoire (D. Milo, Le nom des rues, nel vol. II, La nation, Gallimard, 1986) in che misura la memoria collettiva e l’identità culturale siano collegate con gli spazi urbani e le intestazioni di strade e piazze.

Potenti dispositivi pubblici, le denominazioni odonomastiche riattualizzano il passato e definiscono la mappa della scena urbana in cui individuare i fattori dell’identità comunitaria, locale e nazionale insieme

Potenti dispositivi pubblici, le denominazioni odonomastiche riattualizzano il passato e definiscono la mappa della scena urbana in cui individuare i fattori dell’identità comunitaria, locale e nazionale insieme. Essi rappresentano un termometro sociale nel misurare il credito presso i cittadini di consolidate o antagonistiche narrazioni storiche. Se di recente la discussione si è sviluppata soprattutto in relazione ai monumenti, essa ha sempre più spesso riguardato anche l'odonomastica. Se siamo consapevoli che essa sia un terreno sensibile nel monitorare la trasformazione delle culture e delle pedagogie civiche, occorre evitare il rischio di una rivisitazione dei luoghi di memoria che, sotto la spinta di pur comprensibili esigenze di omogeneizzazione del lessico memoriale negli spazi urbani, risulti l’applicazione di concezioni intese a cambiare la narrazione del passato secondo le momentanee impellenze di un uso pubblico della storia.

Quanto è avvenuto nei giorni scorsi a Bologna rilancia un tema di riassetto del volto urbano che presenta molteplici motivi di interesse. La giunta del sindaco Matteo Lepore ha annunciato la volontà di uniformare la denominazione di vie e piazze (circa un’ottantina) che rinviano alla guerra di Liberazione, omogeneizzando con una sola dicitura tutti coloro i quali combatterono e caddero nella lotta contro i nazifascisti. È stata soprattutto la preannunciata sostituzione della qualifica di “patriota” con quella di “partigiano” ad aver acceso le polemiche. La conseguenza paventata è parsa la scomparsa dal vocabolario commemorativo di sottotitoli diversi, come “caduto per la Liberazione”, “patriota” e “patriota del Secondo Risorgimento”. Le accese reazioni suscitate dall’annuncio del provvedimento hanno indotto lo stesso sindaco a circostanziarne l’effetto pratico: «Per i partigiani riconosciuti dallo Stato italiano si ufficializzerà il titolo di “partigiano”, corredato da eventuali titoli professionali, riconoscimenti e anni nei quali sono vissuti. In alcuni casi, infatti, queste persone sono ora indicate in modo diverso. Ad esempio, “caduti per la Liberazione” o “patrioti del Secondo Risorgimento”. Questo avverrà solo per 6 targhe su 78 coinvolte (!!!)». Con una rivendicata sottolineatura politica: «Per quanto riguarda invece i patrioti del Risorgimento o di altra natura, nulla verrà toccato. Questo ha sempre detto la nostra delibera. In conclusione, l’idea che l’Amministrazione Comunale di Bologna volesse togliere di mezzo il termine “Patria” è una pura invenzione. Al contrario, le reazioni sguaiate e violente di molti a destra, e non solo a destra, hanno dimostrato quanto sia invece il termine “partigiani” a fare paura. Un sinonimo di “patriota”, ha detto qualcuno, ma meno divisivo» (post del sindaco Matteo Lepore su Facebook, 16.03.2023). E se ora risulta più chiara sul piano amministrativo e politico, la vicenda si presta a una più ampia riflessione di natura storico-culturale.

Sussiste dapprima un problema concettuale, legato al significato e all’uso nelle fonti commemorative dei lemmi oggetto dell’intervento odonomastico. Era stato Claudio Pavone, il grande storico della “moralità” nella Resistenza, a rilevare l’influenza del patriottismo di matrice risorgimentale e democratica, traendone “forza e insieme ambiguità”, sulla scorta della per altro abusata espressione del “Secondo Risorgimento” (C. Pavone, Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità nella Resistenza, Bollati Boringhieri, 1994, p. 179). Se stiamo a quanto stabilisce il vocabolario Treccani in relazione al lemma “patriota”, si ricorda in primo luogo che “il significato politico si è sviluppato sull’esempio del francese patriote” e che nella storia italiana rinvia sia alla sua origine risorgimentale sia alla declinazione che ebbe nel corso della Seconda guerra mondiale.

Con riguardo invece al sostantivo “partigiano”, detto di “chi parteggia, chi si schiera da una determinata parte”, si specifica nel merito quanto segue: «Chi fa parte di formazioni irregolari armate che agiscono sul territorio invaso dal nemico esercitando azioni di disturbo o di guerriglia. In partic., in Europa, durante la seconda guerra mondiale, il termine indicò gli appartenenti ai movimenti di resistenza contro la potenza tedesca che occupava molti paesi, qualunque fosse la forma della loro organizzazione e della loro attività». Si potrebbe forse aggiungere che già nel Risorgimento «l’idea della guerra partigiana si salda con gli ideali di ascesa nazionale, basata su una guerra di popolo, che saranno condivisi, in Italia, da G. Pepe e soprattutto da G. Mazzini». A riprova di una correlazione tra i due lemmi che tra Primo e Secondo Risorgimento si sarebbe rinnovata, peraltro proprio sulla scorta della reviviscenza della tradizione democratica e mazziniana.

Quando il regime fascista cadde, nella transizione democratica il riassetto della toponomastica urbana impegnò la classe politica almeno fino all’inizio degli anni Cinquanta (ne ho scritto in Il nuovo volto delle città. La toponomastica negli anni della transizione democratica e della nascita della Repubblica, “Memoria e Ricerca”, n. 20, settembre-dicembre 2005). Se sul piano generale il quadro normativo continuò a uniformarsi alla legge n. 1188 del 23 giugno 1927, in realtà l’eccezionalità del momento e le spinte contrastanti furono ben esemplificate dal tenore assunto dalle circolari ministeriali, le quali indicarono altrettanti vincoli all’operato delle amministrazioni municipali. Nella compresenza di poteri territoriali diversi (il Regno del Sud e la Repubblica sociale italiana al Nord, l’amministrazione anglo-americana nelle aree nel frattempo liberate) e nel susseguirsi dei governi (ciellenistici, tripartito, centristi), la disciplina dell’odonomastica urbana rappresentò uno dei più significativi terreni di riconoscibilità dell’élite prefascista e nel contempo di legittimazione della nuova classe politica resistenziale. Emerse una sorta di territorialità civica con peculiarità diverse, in relazione tanto alle ideologie politiche di più lungo periodo quanto ai caratteri assunti dalla transizione democratica.

Nella fase di transizione democratica, la disciplina dell’odonomastica urbana rappresentò uno dei più significativi terreni di riconoscibilità dell’élite prefascista e nel contempo di legittimazione della nuova classe politica resistenziale

Di inequivocabile segno antifascista furono le rivisitazioni odonomastiche promosse in quei centri laddove la libertà dai nazi-fascisti fu conquistata con il decisivo concorso delle formazioni partigiane e attraverso la giurisdizione del locale Comitato di liberazione nazionale. Nell’Italia ormai del tutto liberata, informando i Soprintendenti ai monumenti sui criteri normativi relativi alla nuova toponomastica, nella compagine governativa guidata dall’azionista Ferruccio Parri, il 24 luglio 1945 il ministro della Pubblica istruzione Arangio Ruiz emanò una circolare che avrebbe segnato la cornice entro la quale ricondurre la riscrittura dei nomi di vie e piazze. Si sottolineava che «ove apprezzabili motivi lo consiglino, sarà bene ripristinare i toponimi precedenti all’anno 1922». Si ribadiva quanto prescritto dalla succitata legge del 1927, secondo la quale l’intitolazione in memoria di persone decedute da meno di dieci anni necessitava dell’autorizzazione da parte del ministro dell’Interno. Anche a tal fine, il ministro chiedeva ai soprintendenti di procedere nella concessione delle autorizzazioni, ma di darne sempre preventiva informazione. Laddove erano infatti attive, le giunte del Cln promossero mutamenti radicali nella toponomastica urbana, nel nome sia dei martiri dell’antifascismo sia dei caduti nella Resistenza.

Rispetto alla normativa, un primo problema insorse a proposito della denominazione di vie e piazze in memoria di caduti partigiani, poiché l’articolo 2 della citata legge del 1927 prevedeva che non vi potessero essere intestazioni a persone che non fossero decedute da almeno dieci anni. L’articolo 4 della stessa legge aveva introdotto però una deroga automatica a vantaggio delle persone della famiglia reale e quindi, come recitava il passo, anche dei «caduti in guerra o per la causa nazionale». Fu quel comma a permettere alle giunte municipali ciellenistiche – come accadde anche a Bologna – di intraprendere una larga rivisitazione degli odonimi e più in generale della toponomastica cittadina. Con l’autorizzazione del prefetto, la legge prevedeva (e ancora oggi contempla) il necessario «parere della regia deputazione di storia patria, o, dove questa manchi, della società storica del luogo o della regione» (art. 1). Ciò permette di disporre, fin dagli anni post-unitari, di un prezioso archivio documentario sulle intestazioni della toponomastica urbana, con l’opportunità pertanto di indagarne i caratteri, le trasformazioni e le integrazioni promosse dalle giunte municipali nel corso di tutto il Secondo dopoguerra.

Nel merito delle attribuzioni, la distinzione fra “patriota” e “partigiano” emerse quasi contestualmente alle attribuzioni odonomastiche promosse dalle giunte ciellenistiche. Nel momento in cui occorse misurare il diverso grado di coinvolgimento cui essa alludeva, fu sempre il governo Parri a promuovere un decreto (ddl 21 agosto 1945, n. 518) che mise a punto le qualifiche di “partigiano” e il profilo diverso di “patriota” (in base alla partecipazione o meno ad almeno tre azioni armate). Dal canto suo, la Commissione regionale per il riconoscimento della qualifica di partigiani in Emilia-Romagna, operativa nel primo biennio post-bellico, indicò l’opportunità di estendere la qualifica di “patrioti” attivi, pur sempre distinguendoli dai “partigiani” combattenti: prefigurando già allora la valorizzazione di forme di partecipazione alla Resistenza non limitate al solo terreno militare.

Del resto se la strutturazione territoriale della Resistenza mosse da espliciti propositi patriottici (per esempio con i Gap, Gruppi di azione patriottica), non tutti quelli che agirono per liberare il Paese dai nazifascisti erano “partigiani combattenti”. Basti pensare ai militari del Corpo italiano di liberazione schierati al fianco degli Alleati angloamericani; e comunque al fatto che l'impegno in azioni armate non fu la sola forma di partecipazione attiva alla Resistenza. Motivo per il quale la qualifica di “patriota” (come si è ricordato, definita sul piano normativo) avrebbe permesso di ricondurre a tale fattispecie un insieme differenziato di figure resistenziali. Di qui anche la compresenza nelle targhe commemorative di lemmi che attribuiscono a combattenti e caduti nella guerra di Liberazione l’indistinta qualifica sia di “partigiano” sia di “patriota”.

Anche in ragione di quelle ripetute circostanze, discutibile risulta la decisione di uniformare odonomastica e toponomastica; anche perché essa rischia di incentivare la rincorsa a una rivisitazione odonomastica ancor più larga dei luoghi di memoria. A Bologna come altrove, innumerevoli sono i monumenti e le lapidi con scritte in onore dei caduti della Resistenza la cui memoria si nutre di richiami al patriottismo risorgimentale e alla retorica del Secondo Risorgimento. Emblematico è il caso della lapide di via Pietralata, dedicata per altro ad alcuni “patrioti comunisti”: ebbene, se il termine “partigiano” non vi figura proprio, essi sono ricordati come vittime del «piombo assassino degli invasori tedeschi e dei traditori fascisti», il cui “sacrificio” contribuì «alla vittoriosa insurrezione liberatrice della Patria, premessa a più ampie conquiste democratiche del popolo lavoratore» (Tommaso Milani, Il cosiddetto (Secondo) Risorgimento, post su Facebook, 14.03.2023).

Che cosa fare, allora, di fronte alla lettura, in epigrafi e targhe commemorative, di enfatiche e retoriche manifestazioni di patriottismo, ormai lontane dalle sensibilità del tempo presente, anche nella memoria storica comunista della “rossa” Bologna post-bellica? Più che tendere a una forzata omogeneizzazione odonomastica, sarebbe preferibile preservare le radici di quelle diverse e longeve occorrenze. Nell’uniformare i nomi degli spazi urbani, è insomma necessario rispettare la loro duplice natura di manifestazione di sentimenti comunitari e di fonti di conoscenza. Se proprio si vuole perseguire una comunicazione responsabile e avvertita, basterebbe esplicitare nelle targhe cittadine la denominazione di patriota con un riferimento esplicativo: “risorgimentale” o “antifascista”, a seconda dei casi, tutelandone così il diverso contesto storico, la specifica valenza morale e la veridica circolazione nella memoria pubblica.