La pandemia ridefinisce le priorità, mostrando la differenza tra ciò che è indispensabile e ciò che non lo è. Questo vale anche per la scuola. A partire dal 7 marzo la scuola italiana si è mobilitata ovunque e con ogni mezzo a disposizione per garantire la continuità dell’istruzione degli alunni. L’elemento straordinario della risposta è che essa avviene, di fatto, contando esclusivamente o quasi sulle iniziative decentrate di insegnanti, dirigenti, studenti e delle loro famiglie. A fronte di indicazioni necessariamente generiche del ministero.

Non è difficile immaginare che anche in questa emergenza siano all’opera disuguaglianze di opportunità in termini di accesso alla rete, disponibilità di dotazioni tecnologiche, di spazi e di sostegno dei genitori. Sono del 6 aprile gli ultimi dati Istat che quantificano appunto spazi e disponibilità di computer o tablet per bambini e ragazzi. Un terzo delle famiglie italiane non possiede né pc né tablet. E la percentuale sale nelle regioni del Mezzogiorno (41,6%). Anche tra chi ne possiede, tuttavia, si registrano disagi. Il 57% dei ragazzi, infatti, deve condividerli con la famiglia: solo 6 studenti su 100 dispongono di una postazione di studio e accesso alla rete per ciascun componente. A ciò si aggiungono le condizioni di sovraffollamento abitativo, registrate per oltre 4 studenti su 10.

Inoltre, non tutti gli studenti hanno connessione illimitata e veloce. Molti potrebbero dover risparmiare i giga a disposizione per attività prioritarie come parlare con familiari irraggiungibili. Il device più diffuso è lo smartphone (Istat, p. 16, 2018), il meno adatto per la didattica a distanza. Non tutti hanno in casa una stampante.  Il tempo da dedicare alla scuola potrebbe essere paradossalmente minore adesso poiché i genitori, nei casi più fortunati, occupano a loro volta spazi e postazioni per lo smart working, negli altri, sono fuori per lavoro (e si è preoccupati anche per questo). Non esistono ancora dati specifici sulla varietà dei problemi e delle soluzioni adottate per la didattica a distanza. La varietà è difficile addirittura immaginarla poiché dalla scuola materna al liceo tutto il sistema scolastico italiano è stato proiettato in una dimensione inimmaginabile solo poche settimane fa.

Con l’emergenza sono state sospese anche tutte quelle attività che in questi anni avevano assunto un peso via via crescente nell’organizzazione scolastica e focalizzato l’attenzione dei media: niente più test Invalsi, quindi; niente più simulazioni e addestramenti; niente più Alternanza Scuola Lavoro (oggi Pcto). Ma la scuola continua a funzionare, seppure a distanza, perché nella scuola ci sono studenti che imparano e insegnanti che insegnano e valutano. 

Di fatto, l’emergenza sta ridefinendo le priorità della scuola italiana. In particolare, fa riemergere l’istruzione come diritto fondamentale di cittadini liberi e uguali, disegnato nella Costituzione.

Nell’ultimo quarto di secolo la scuola della Costituzione è stata lentamente soppiantata da un modello diverso di scuola: per comodità, la scuola del capitale umano. In questo modello, l’istruzione è considerata leva strategica per la crescita economica. La scuola è funzionale a permettere a ciascuno studente di accumulare capitale umano, cioè di accrescere lo stock di conoscenze e competenze possedute. Accrescere il proprio capitale umano permette di aumentare la propria occupabilità e in prospettiva di godere dei ritorni privati dell’investimento, cioè di percepire in futuro redditi più elevati. Ognuno ovviamente secondo il suo merito. In questa prospettiva la scuola cessa di essere organo dello stato. Lo stato progressivamente abbandona i compiti gestionali diretti, limitandosi a definire standard e linee guida, svolgendo attività di audit e valutazione. La valutazione centralizzata realizzata da Invalsi diventa lo strumento chiave per garantire una scuola efficiente ed efficace.

Mentre i governi di centrodestra e centrosinistra operano in perfetta continuità per realizzare questo modello, intorno alla scuola si sviluppa, specialmente in anni recenti, un fiorente indotto popolato da imprese che si muovono nel mercato dei test, della loro correzione, dell’editoria, della formazione.

La ridefinizione delle priorità indotta dalla pandemia rischia di mettere in crisi nel suo complesso la scuola del capitale umano, e l’indotto che vi gravita intorno. Non deve meravigliare allora la preoccupazione di chi negli anni ha contribuito a disegnare questo modello. A dare per primo il segnale è stato l’ex presidente del Consiglio, firmatario della “Buona scuola”, Matteo Renzi. In un videomessaggio su Facebook del 25 marzo si mostra preoccupato: se a causa della pandemia tutti fossero promossi, il merito uscirebbe sconfitto. Ma, rassicura Renzi, “l’epoca del 6 politico è finita”.

Paolo Sestito, ex presidente Invalsi coglie la palla al balzo in un articolo sul “Corriere della Sera” del 30 marzo. La proposta di Sestito adotta la retorica della “valutazione compassionevole”, ben consolidata a livello internazionale, almeno a partire dal no child left behind di Bush. Essa consiste nel nascondere il modello dentro una cornice attenta “ai più deboli”.  Poiché la didattica a distanza amplia i divari territoriali e sociali, Sestito propone perciò “una grande grande campagna tramite il mezzo televisivo, che è l’unico che entra davvero in tutte le case”. L’uguaglianza di opportunità è assicurata dalla soluzione (nazional-popolare) di contenuti televisivi uguali per tutti. Le ricette sostanziali sono invece basate sulla logica meritocratica. Innanzitutto, dilatare l’anno scolastico venturo, dedicando i primi 2 mesi – a partire dal 1° settembre “al recupero e al rafforzamento delle competenze degli alunni”. Solo al termine di questo periodo, si dovrebbe “decidere se un alunno abbia ancora debiti formativi da recuperare o se debba ritornare nella classe immediatamente precedente”. Eliminato il rischio del “6 politico” per l’intera platea degli studenti, arriva la parte più delicata: cosa fare per gli esami di Stato?  Ecco che l’emergenza diventa l’occasione per inserire strutturalmente i test Invalsi nell’impianto normativo di fine ciclo. Sestito propone di effettuare per il quinto anno della secondaria superiore i test Invalsi online. I risultati potrebbero così essere usati in un esame di maturità anche semplificato. L’ottenimento di una certa soglia nel test sarebbe “condizione necessaria (ma non sufficiente) per l’ottenimento del massimo dei voti”. E, “il test Invalsi potrebbe essere propedeutico, quanto meno come una sorta di prima fase, nelle esistenti procedure di ammissione ai corsi universitari”.

Sestito sembra voler usare la pandemia come vincolo esterno per giustificare l’”introduzione di una prova nazionale standardizzata all’interno dell’esame di Stato”, “realizzata separatamente” e i cui risultati non solo “contribuiscano” alla votazione finale, ma possano “essere utilizzati dalle università per accertare l’adeguatezza della preparazione degli studenti che si iscrivono”. Il virgolettato precedente è tratto dagli “Appunti per il ministro Gelmini sulla valutazione delle scuole e degli insegnanti” firmato nel dicembre 2008 da Daniele Checchi, Andrea Ichino e Giorgio Vittadini. Un documento chiave che ha ispirato le politiche scolastiche dei governi di centrodestra e centrosinistra realizzate in Italia a partire dal 2008. In questa prospettiva la pandemia permetterebbe finalmente la realizzazione di un disegno da alcuni a lungo coltivato.

Nel decreto ministeriale appena firmato dalla ministra Azzolina, che definisce le misure urgenti per la regolare conclusione dell’anno scolastico 2019-2020, saggiamente i suggerimenti di Sestito non sono stati ascoltati. L’anno accademico si concluderà grazie al lavoro degli insegnanti e degli studenti. La valutazione continuerà ad essere in mano agli insegnanti, senza l’ausilio dell’Invalsi. La pandemia potrebbe davvero essere un’occasione per ridefinire le priorità anche in tema di scuola, rimettendo al posto che meritano - indotto superfluo - le attività che appassionano economisti ed estensori di classifiche. Speriamo di non scordarlo quando tutto sarà finito.