Quanto al metodo. Interrogate dai giornali sul post di Donatella Di Cesare in ricordo di Barbara Balzerani (“La tua rivoluzione è stata anche la mia. Le vie diverse non cancellano le idee”), la rettrice della Sapienza ha detto di essere “sconcertata”, e di voler “prendere le distanze” da quel post; e la direttrice del dipartimento (copio dai giornali) che “la possibilità di esprimersi non può essere confusa o sovrapposta alla simpatia manifesta per idee e pratiche che hanno seminato distruzione, ucciso innocenti, utilizzato la violenza come strumento di prevaricazione continua”. Invece avrebbero dovuto dire che un rettore e un direttore di dipartimento non sono pagati per giudicare e men che meno condividere le opinioni dei docenti che lavorano nei loro atenei o dipartimenti, e che queste opinioni sono libere, e possono essere espresse con libertà, a patto ovviamente che non configurino un reato o l’apologia di un reato (e naturalmente dire “le idee dei brigatisti rossi erano anche le mie, per un lungo tratto” non equivale a dire “è stato giusto ammazzare quelli che avete ammazzato” né tantomeno “bisognerebbe ammazzarne una buona manciata anche oggi”).

Un rettore e un direttore di dipartimento devono badare al comportamento dei docenti all’interno dell’università, cioè a ciò che essi fanno o non fanno nella loro veste di insegnanti e ricercatori (si presentano puntuali a lezione? Sono capaci di farla? Ricevono regolarmente gli studenti? Correggono le tesi? Sono presenti alle riunioni? Pubblicano cose decenti? Non cercano di smutandare i/le dottorandi/e?); tutto il resto – orientamenti sessuali, idee politiche, opinioni sull’universo mondo, in ispecie se espresse al di fuori dell’università (e i social network stanno al di fuori dell’università) – cade nel dominio della libertà. Della libertà, semplicemente, senza che il sostantivo debba essere decorato dall’aggettivo accademica: è la libertà di tutti, dall’artigiano nel suo laboratorio all’impiegato nel suo cubicolo all’insegnante nel suo studio.

Quanto alla sostanza. Non serve esserci stati, negli anni Settanta, basta aver parlato con chi c’era, basta aver letto qualche libro per sapere che in tanti pensavano che fosse una buona idea ammazzare i propri avversari politici. Non soltanto – a sinistra e a destra, s’intende – si comprendevano le ragioni degli assassini: si giustificavano gli omicidi; si caldeggiavano gli omicidi; e infine si festeggiavano gli omicidi (tra i festeggianti, alcune delle figure più assiduamente presenti nel dibattito pubblico odierno). “Uomini ci sono che debbono essere uccisi”. A meno che l’eccellente poeta che ha scritto questo verso non stesse scherzando, e non stava scherzando, questa era l’atmosfera di quegli anni. Spiegarlo a chi allora non era nato, provando a distinguere le buone e le cattive ragioni, sarebbe stato e sarebbe più utile che indignarsi per l’uscita scriteriata di una povera gaffeuse, promossa a “voce della sinistra” da un paio di spudorati anchormen o anchorwomen.

Il rumoroso caso Di Cesare e le sue dichiarazioni dopo la morte di Barbara Balzerani hanno fatto passare sotto silenzio un caso ben più allarmante

Solo che, come accade, il rumoroso caso Di Cesare ha fatto passare sotto silenzio un caso ben più allarmante. È successo questo. Nel 2020 un docente della Statale di Milano, Marco Bassani, ordinario di Storia delle dottrine politiche, ha condiviso su Facebook un meme relativo a Kamala Harris che alludeva a una sua vecchia relazione con l’ex sindaco di San Francisco Willie Brown. Il meme diceva:She will be an inspiration to young girls by showing that if you sleep with the right powerfully connected men then you too can play second fiddle to a man with dementia. It’s basically a Cinderella story”.Ovvero: “Sarà un'ispirazione per le ragazze: capiranno che, se vai a letto con gli uomini giusti e con amicizie importanti, potrai diventare il secondo violino al servizio di un uomo affetto da demenza. In pratica è la storia di Cenerentola”. Vulgo: pòrtati a letto un maggiorente democratico californiano, vedrai che ti assumono come badante di Joe Biden.

Erano le settimane delle elezioni presidenziali americane, il ticket Biden-Harris era la grande speranza anti-Trump, Kamala Harris era l’emblema del riscatto femminile dopo il fallimento di Hillary Clinton, l’atmosfera era tesa, l’ironia proibita: what side are you on? Svillaneggiato su Facebook, il professor Bassani ha cancellato poco dopo il suo post e ha scritto sulla sua pagina: “Ho condiviso imprudentemente un meme che ritenevo un semplice sberleffo politico. Mi sono poi reso conto che era di cattivo gusto e quindi l’ho tolto. Mi sta arrivando addosso di tutto. Se qualcuno c’è rimasto male me ne dispiaccio. Per il resto non so che dire… Non posterò davvero più nulla che non siano pensieri miei. Se proprio devo essere coperto di fango, che ciò accada su parole mie”.

Le scuse però non sono bastate (non bastano mai, in casi del genere: sono anzi la ferita che eccita il predatore). La cosa è rimbalzata in rete, è arrivata ai giornali, quindi al rettore della Statale Elio Franzini attraverso email indignate di colleghi e studenti invocanti una punizione esemplare. E punizione c’è stata: convocato dal Collegio di disciplina dell’ateneo, riconosciuto colpevole («tanto più – così il verbale del Collegio – se si considera che le considerazioni da lui condivise anche da mezzi di stampa di livello locale e nazionale, in cui la notizia è stata diffusa, sottolineando sempre la qualità dell’autore come docente dell’Università degli Studi di Milano e così recando un danno all’immagine e alla reputazione dell’Università stessa»: sconciamente aggiornato a “difesa del brand” è pur sempre il cruccio piccolo-borghese per il figlio degenere che “ci ha fatto finire sulla bocca di tutti”), Bassani è stato sospeso per un mese dalla funzione di docente e gli è stata tolta una mensilità di stipendio. Le dichiarazioni di stima di colleghi e studenti non sono servite a niente. Ha fatto ricorso al Tar, e il Tar lo ha respinto. Sono passati un paio d’anni e, pochi giorni fa, Bassani ha comunicato di essersi dimesso dalla Statale e di essere stato assunto in ruolo dall’Università telematica Pegaso.

Caso ben più allarmante di quello relativo a Donatella Di Cesare, dicevo: sia per l’esilità della colpa (tanto esile da non essere colpa, anche perché di battute sgraziate quanto e più di quella condivisa da Bassani sono piene le pagine social di metà dei miei colleghi) sia per il profilo dello studioso (del quale nel giudizio di un tribunale composto da studiosi è ben legittimo tenere conto). Caso incredibile, si vorrebbe dire, se in questioni come queste la soglia della credibilità non fosse già stata superata da un pezzo (non si è sentito, giorni fa, vaneggiare un uomo politico sempre troppo loquace circa i “requisiti etici” dei quali sarebbe sprovvista la suddetta Di Cesare? Le togliamo la cattedra perché non ha i “requisiti etici”? Che bel menu autoritario ci preparano i nostri liberali!). Ma del resto, se ci si pensa, caso credibilissimo, addirittura ovvio, perfettamente in linea con lo spirito del tempo. Spirito del tempo che sempre più spesso – non solo quindi in relazione a questi casi universitari, ma a mano a mano che le sciocchezze, le inadeguatezze si accumulano – fa venire in mente la formula famosa di Musil: “il mostruoso miscuglio di rigore nelle minuzie e d’indifferenza per l’insieme”, ma con alcune varianti sintomatiche: la principale delle quali mi pare consista nell’oblio sempre più vasto intorno ai princìpi generali, ai valori generali che dovrebbero regolare la vita associata, l’insieme, appunto (la libertà, in questo caso: libertà di manifestare la propria opinione, e poi anche eventualmente di modificarla, di correggerla, di riconoscerla affrettata o sciocca); e, simmetricamente, nello zelo giustizialista applicato non solo con rigore ma con violenza ai fatti più insignificanti, ai giudizi più anodini – le minuzie: quelle che la cronaca, cioè il pettegolezzo, o il caso, consegnano all’attenzione del pubblico o di quelle caricature di tribunale rivoluzionario che si montano e si smontano ogni giorno, a capriccio degli algoritmi (o di qualche non disinteressato collega: nella vicenda di Bassani ci sono stati anche questi; come, immagino, in quella di Di Cesare).

Che la reputazione di un’università vada difesa con lo scrupolo e gli strumenti con cui si difende la reputazione di un marchio commerciale è né più né meno, un'idea scellerata

A ciò collaborano, mi pare, la cattiva informazione della Tv e dei giornali (cattiva nel senso di: amministrata da persone non all’altezza del compito perché prive, tra l’altro, dei necessari – ecco: qui vanno invocati, prima no – “requisiti etici”); il nuovo, come si dice, contesto comunicativo modellato dai social network; il moralismo demenziale, tra giacobinismo e vittorianesimo, che ha pervaso buona parte dell’insegnamento scolastico; e l’idea scellerata che la reputazione di un’università vada difesa con lo scrupolo e gli strumenti con cui si difende la reputazione di un marchio commerciale, cioè dandosi pensiero non della qualità del prodotto (in questo caso: la qualità dei professori, la loro abilità nella ricerca e nella didattica) bensì del sentiment che in un determinato momento circonda quel marchio (che questo canone del marketing contemporaneo sia stato introiettato con tanta serenità da quelli che amano spesso rappresentarsi come i nemici giurati del neoliberismo è solo un’altra sfumatura della tragicommedia in cui ci troviamo a vivere). In un simile quadro desolante, soprattutto per ciò che lascia intravedere del futuro, mi pare che almeno i docenti universitari dovrebbero – per riabilitare una parola adoperata molto a sproposito in questi anni – provare a resistere.