“Non posso fare a meno di sperare che venga. È questa attesa come se fossi nella sala d’aspetto del dentista che odio”. Così Virginia Woolf, in una lettera scritta nel gennaio del 1941, ricordava la propria frustrazione durante le settimane trascorse aspettando l’invasione tedesca che si temeva imminente: “vivere senza un futuro […] con il naso schiacciato su una porta chiusa”. La guerra seguita da casa, per i civili di un Paese sotto attacco, è un purgatorio così estenuante che si finisce quasi per desiderare l’inferno pur di uscirne. Virginia e Leonard Woolf avevano lasciato Londra in seguito ai pesanti bombardamenti del settembre del 1940, e si erano rifugiati in campagna nel Sussex, poco lontano da Brighton. Sarebbero rimasti a Monk House fino al suicidio di Virginia, il 28 marzo del 1941. Durante gli ultimi mesi della sua vita la scrittrice si aggrappa al lavoro, cerca di portare avanti i progetti iniziati, ne concepisce di nuovi, ma trova sempre più difficile proseguire. L’ipotesi del suicidio era stata presa in considerazione, insieme al marito (Leonard era ebreo), come ultimo gesto di libertà nel caso in cui i tedeschi fossero riusciti a invadere l’Inghilterra. Non ne erano consapevoli, ma i nomi di entrambi si trovavano nelle liste di intellettuali da eliminare redatte dagli zelanti carnefici a servizio di Himmler. In ogni caso erano sicuri di essere spacciati se l’isola fosse caduta nelle mani dei nazisti. Li avevano visti da vicino, durante un viaggio in auto attraverso la Germania. Ricordavano le scritte contro gli ebrei e la teppaglia in camicia bruna radunata in attesa di Hermann Göring.

Quelli della battaglia aerea sono mesi di ansia costante, di attesa per i radiogiornali della Bbc o di notizie da parte della vasta rete di relazioni che costituiva il loro mondo, fatto di intellettuali, artisti, accademici e politici, non soltanto britannici. Molti rifugiati dalla Germania (toccante il racconto che Virginia ha lasciato della sua prima, e ultima, visita a Sigmund Freud morente, che nel salutarla le chiede se gli inglesi avrebbero alla fine combattuto contro Hitler). Tanti i giovani desiderosi di battersi contro il nemico della democrazia, che alcuni di loro avevano già incontrato sui campi di battaglia spagnoli (dove il nipote di Virginia, Julian Bell, aveva perso la vita). Per la scrittrice questa situazione è l’occasione per pensare al passato, alla famiglia, ma anche alle sue convinzioni politiche, alla lotta per l’emancipazione femminile e all’impegno pacifista. All’inizio della Prima guerra mondiale nel movimento suffragista si era discusso di mettere in piedi una “Peace Expeditionary Force” di militanti da mandare al fronte, a interporsi tra gli eserciti schierati sui campi di battaglia. Non se ne fece più nulla, e anzi il movimento alla fine si spaccò sulla scelta pacifista. Alcune attiviste si impegnarono per sostenere lo sforzo bellico, altre, tra cui Virginia, rimasero fedeli all’ideale: la guerra è una follia dei maschi, combattere il patriarcato è anche combattere lo spirito che conduce alla guerra.

Questi temi erano già presenti nelle pagine del saggio Three Guineas (scritto durante la guerra di Spagna, e pubblicato all’ombra dell’Anschluss e dello smembramento della Cecoslovacchia) e ritornano nei Thoughts on Peace in an Air Raid. Un breve testo che descrive con ironico distacco le sue sensazioni durante un bombardamento aereo: “È un’esperienza strana, trovarsi sdraiati al buio ad ascoltare il volo di un calabrone che in ogni momento potrebbe pungerti fatalmente”. Ma non c’è più posto nella Seconda Guerra mondiale per il pacifismo di Bloomsbury: Lytton Strachey e J.M. Keynes che oppongono l’obiezione di coscienza alla chiamata alle armi, Bertrand Russell che va in prigione per aver fatto propaganda contro la guerra (anche la patria del liberalismo pone severi limiti alla libertà di espressione durante le ostilità), e Leonard che si butta a capofitto nel progetto della Lega delle Nazioni, il sogno di un pacifismo istituzionale per cancellare definitivamente la guerra dalla storia del mondo. Di fronte a Hitler e al nazismo, anche molti di coloro che si considerano pacifisti finiscono per rassegnarsi a combattere. Come dirà con amarezza molti anni dopo Quentin Bell, il nipote di Virginia Woolf: “vendendo come schiavi i nostri amici e alleati abbiamo comprato qualche mese in più di dubbia pace, e oh che sollievo è stato. Tutti erano terrorizzati e alla fine abbiamo combattuto solo perché non c’era più nessuno da tradire se non noi stessi”.

Per noi che non ne abbiamo mai fatta una, la guerra è un’esperienza difficile da comprendere. Puoi aver letto migliaia di pagine sulle guerre del passato; i diari e i saggi, visto i film e i documentari, ma fai comunque fatica a immedesimarti in quelli che ci sono dentro

Per noi che non ne abbiamo mai fatta una, la guerra è un’esperienza difficile da comprendere. Puoi aver letto migliaia di pagine sulle guerre del passato; i diari e i saggi, visto i film e i documentari, ma fai comunque fatica a immedesimarti in quelli che ci sono dentro. Guardo la foto dei diciottenni ucraini con il fucile mitragliatore, vestiti come se andassero a pesca. Quella del padre che rimane in città per combattere, e tocca il vetro dello scompartimento del treno in cui ci sono la moglie e il figlio piccolo. La sua mano e quella del fanciullo si sovrappongono, ma non si incontrano, il bambino risponde naturalmente al gesto dell’adulto, e io mi chiedo se si rende conto che la sensazione di quella superficie piatta e fredda potrebbe essere l’ultima che associa al padre. Oppure guardo il breve video del giovane prigioniero russo, anche lui poco più che adolescente, che piange perché i civili ucraini che lo circondano gli permettono di chiamare la madre col cellulare. Non ho la forza di andare oltre. So già che ci sono anche quelle dei cadaveri, e che diventeranno sempre più numerose nelle prossime ore, se il conflitto non si ferma. Lo so, come so le cose che ho appreso dai libri, come so che la guerra, lo scrive Tucidide, è “una maestra violenta” che riesce a soggiogare i sentimenti di chiunque. Ha una sua necessità che spinge anche chi non vorrebbe farlo a combattere.

So queste cose eppure assisto sgomento a decine di interviste in cui cittadine e cittadini ucraini che fino a pochi giorni fa vivevano una vita non troppo distante dalla mia, facendo un lavoro simile al mio, oppure uno molto diverso (c’è un tennista professionale, tra gli altri) rispondono ai giornalisti, che un po’ ottusamente continuano a rivolgere la stessa domanda: “cosa provi?”. C’è un momento di imbarazzo, spesso l’intervistato sembra alla ricerca delle parole giuste, talvolta si commuove, accenna a un sentimento strozzato, ma poi torna al punto: dice che si accinge a combattere. Insomma questi soldati per necessità non sono interessati al rito della televisione, ma invece diventano molto pragmatici, chiedono sostegno, ma vogliono anche le armi. Implorano, come ha fatto nelle scorse ore un’attivista ucraina, rivolgendosi a Boris Johnson, una “no fly zone” della Nato. Non ho stima né simpatia per il Primo ministro britannico, certamente tra i peggiori della lunga storia del suo Paese, ma ho provato rispetto per il modo onesto in cui ha risposto. Non possiamo farlo, ha detto, perché correremmo il rischio di essere coinvolti in un conflitto diretto con la Russia. Putin ha più volte alluso all’impiego dell’arma nucleare. Questa non è la Jugoslavia o l’Iraq. Si torna indietro a prima del 1989, del disarmo e degli accordi di Helsinki. Tuttavia nello scenario ucraino la vecchia strategia Mad (mutual assured destruction) ha perso buona parte del suo fascino intellettuale. Sarà che tanti anni di crisi economica ci hanno resi guardinghi quando si applicano modelli che assumono la razionalità delle parti alle situazioni della vita reale, soprattutto se la vita in questione è la nostra.

L’irrazionalità sembra all’ordine del giorno da noi, che non siamo coinvolti direttamente nel conflitto, anche se ci siamo schiarati collettivamente dalla parte dell’Ucraina, come era giusto fare. Dichiarazioni fuori posto, promesse avventate, raffiche di parole

Del resto l’irrazionalità sembra all’ordine del giorno da noi, che non siamo coinvolti direttamente nel conflitto, anche se ci siamo schierati collettivamente dalla parte dell’Ucraina, come era giusto fare. Dichiarazioni fuori posto, promesse avventate, raffiche di parole: interi caricatori di ostilità contro un “nemico” a poche centinaia di chilometri. Nello zaino di ogni opinionista, con il portatile, c’è un bastone di maresciallo. La geopolitica diventa la continuazione del Risiko con altri mezzi, mentre un Paese il cui governo ha faticato a varare una riforma minore del catasto è attraversato da inquietudini e paure. Chi ricorda il mondo prima del 1989 rivisita i propri incubi, chi è nato dopo fatica a trovare le parole per esprimere quelli di oggi. Intanto seguiamo le notizie, cercando di non perdere l’orientamento “in the fog of war”. Guardiamo Volodymyr Zelens’kyj che continua a rivolgere i suoi appelli al mondo intero. Gli ucraini sembrano invincibili visti in tv, hanno persino voglia di scherzare. Vengono in mente vecchie foto. Penso a Umberto, il fratello di mia nonna, in Albania: lui e un gruppo di ragazzi in divisa che sorridono baldanzosi sotto un ulivo. Immagino che scherzare serva a farsi coraggio, perché non puoi combattere se non ne hai, e fortunato è chi non ne ha mai avuto bisogno. In quella guerra gli italiani erano gli aggressori. Umberto scriveva al padre che avrebbero vinto in pochi giorni, che i greci non combattevano neppure, scappavano. Poi la guerra è cominciata sul serio, e lui dice che è molto diversa da come l’immaginava. Non è mai tornato, neppure da morto. Vorrei sperare che questi ragazzi che vedo in tv siano più fortunati. Vorrei, ma so che più passano i giorni e più aumentano i caduti, e non solo tra i combattenti.

L’Ucraina è stata aggredita dall’esercito russo senza una giustificazione, e l’ordine che ha dato il via alle ostilità è stato dato da Vladimir Putin. Questo è il nocciolo della questione. Ma non possiamo accontentarci di questa certezza. Credo che sia nostro compito – come studiosi e come intellettuali, per me le due funzioni si possono distinguere ma non separare – farci delle domande su quel che sta accadendo. Tentare di distinguere, come diceva Arnaldo Momigliano, le cause prossime e quelle remote, e queste due a loro volta dai pretesti. Non mi faccio illusioni riguardo al fatto che questo tipo di impegno serva a qualcosa. Non ferma chi ha torto, non aiuta chi ha ragione, non impedisce la prosecuzione delle ostilità. Però sono fermamente convinto che questa vocazione che ci spinge a cercare di capire, anche quali sono i limiti del nostro comprendere, vada coltivata con determinazione ancora maggiore di fronte alla “feroce forza delle cose”.

Putin potrebbe fermare la guerra, ma non sembra intenzionato a farlo. Si può fermare Putin? Ci affidiamo alle sanzioni (sarebbe interessante parlarne con Umberto, che è cresciuto sotto una dittatura che le ha sfidate per inseguire il sogno di un impero). Quelli di noi che credono nella legittima difesa confidano anche nelle armi che diversi Paesi, tra cui l’Italia, si sono impegnati a fornire agli ucraini. Arriveranno in tempo? Saranno sufficienti? Funzioneranno? Qui ci fermiamo, perché la logica ci costringerebbe a contemplare quel che non vorremmo, come conseguenza ultima dell’aver preso parte. Ho grande rispetto per i pacifisti e i non violenti, ma anche per la storia, e fatico a trovare un esempio di conflitto armato che sia stato arrestato dai testimoni di pace. Alla fine se un aggressore non si ferma devi fermarlo. Questo la generazione che ha combattuto contro Hitler ci ha insegnato, assicurando all’Europa un lunghissimo periodo di pace. Ma fatico anche a immaginare una “potenza gentile” in un mondo in cui si stanno rimettendo in moto le dinamiche della politica di potenza. Sull’onda dell’emozione alcuni Paesi europei hanno preso decisioni importanti. La Germania ha messo da parte decenni di prudenza per annunciare un sostanzioso aumento delle spese militari. Tucidide approverebbe: il timore reciproco è la migliore assicurazione contro la violazione dei patti. Dubito però che i tedeschi da soli siano sufficienti a controbilanciare la Russia. Ci vorrebbe un’Europa capace di mettere in campo una forza di dissuasione credibile, ma è realistico che 27 Paesi si mettano d’accordo su una cosa impegnativa come un’efficace difesa comune? Un grande storico delle guerre, sir Michael Howard, ha scritto che sono gli Stati a fare le guerre, ma anche a fare la pace.