Esisteva fino ad ora una sola storia del «Corriere della Sera», quella di Glauco Licata, pubblicata nel 1976 in occasione del centenario del principale quotidiano italiano. Chi la ha utilizzata sa che è affidabile, ricca di notizie, ma che non ha l’ambizione di proporre un’interpretazione della funzione del giornale rispetto alle trasformazioni della società italiana. A quasi cinquant’anni di distanza la sfida è ripresa da Pierluigi Allotti e Raffaele Liucci che hanno appena pubblicato Il «Corriere della Sera». Biografia di un quotidiano (Il Mulino, 2021). Impresa che ha richiesto anni di ricerca ma che si è potuta avvalere dei formidabili archivi del giornale, divisi tra una parte amministrativo-gestionale e una che raccoglie la corrispondenza tra la direzione e i giornalisti. Anche se la responsabilità è comune, Allotti si è occupato della parte che va dalle origini al 25 luglio 1943 escluso, mentre Liucci ha approfondito il seguito fino al 1992, con un rapido epilogo che ci conduce al presente.

Sfida ambiziosa ma, diciamolo subito, vinta dai due studiosi che, seguendo il succedersi delle diverse direzioni, hanno saputo raccontare in maniera avvincente e interpretare con sagacia il ruolo che il quotidiano ha avuto, sia in positivo sia in negativo, nell’ultimo secolo e mezzo della nostra storia. La forza del «Corriere» ha origine nelle mitologie create nei suoi primi trent’anni di vita, quando l’opinione pubblica italiana si stava formando e la foliazione era solo di 4 pagine. Un imprinting molto forte che in qualche modo perdura a tutt’oggi.

Il primo mito nasce col fondatore, il napoletano Eugenio Torelli Viollier, che crea un giornale sul modello anglosassone, anziché francese, in cui le notizie sono distinte dalle opinioni. Il secondo mito ruota intorno alla milanesità del «Corriere», che fa proprie le caratteristiche della città - dinamismo, efficienza, sguardo rivolto al futuro - definite dopo l’Esposizione nazionale del 1881, quando Milano diviene la «capitale morale» in contrapposizione a Roma, dove si intrecciano poteri pubblici e occulti. È a partire dai numeri speciali dell’Esposizione del 1881 che scrittori del calibro di De Amicis e Capuana cominciano a scrivere sul «Corriere», instaurando un’abitudine che vede collaborare, al di là della propria posizione politica, i grandi nomi della letteratura, e, in alcuni casi, divenire redattori uomini di cultura come Eugenio Montale o, fatto meno noto, Alberto Moravia.

Per assicurare gli investimenti necessari allo sviluppo imprenditoriale Torelli Viollier cede nel 1885 la proprietà del giornale all’industriale cotoniero Benigno Crespi. Entrano poi nella compagine societaria due industriali di prima generazione come Giovan Battista Pirelli ed Ernesto De Angeli. Nell’ultimo scorcio di XIX secolo ai tre soci sta bene la linea di Viollier, liberista in economia ma attento ai problemi sociali. La sua posizione entra in crisi coi moti popolari milanesi del maggio 1898, repressi duramente da Bava Beccaris. Torelli tiene una posizione moderata che, più che alla proprietà, dispiace al governo, che ne chiede di fatto la destituzione. La sua eredità è raccolta da un giovane poco meno che trentenne nato ad Ancona. Si stava infatti mettendo in luce Luigi Albertini (1871-1941) che, cresciuto nella città natale, aveva poi frequentato il Laboratorio di Economia politica di Cognetti De Martiis a Torino, dove aveva stretto amicizia con Luigi Einaudi, poi a lungo una colonna del giornale. Dopo un’esperienza a Londra, dove aveva potuto osservare da vicino il funzionamento della macchina organizzativa del «Times», allora il maggior quotidiano del mondo, entra al «Corriere» nel 1896, per diventarne direttore nel 1900. Una carriera fulminea per un genio prima di tutto imprenditoriale che crea, attraverso testate di successo come «La Domenica del Corriere», il «Corriere dei Piccoli» e «La Lettura», un impero editoriale e, allo stesso tempo, l’abitudine alla carta stampata in tutte le fasce di età della borghesia italiana.

Dal 1904 la sede, progettata da Luca Beltrami, è in via Solferino ed è da qui che Albertini crea un giornale-partito: la sua idea è che l’Italia debba recuperare il tempo perduto ed entrare nel concerto delle grandi potenze. Nell’età dei piccoli passi di Giolitti, Albertini, nel frattempo diventato socio dei tre figli di Benigno Crespi, è il suo principale oppositore. È favorevole alla Guerra di Libia, così come sarà decisivo il peso del «Corriere» per combattere il neutralismo giolittiano e schierare l’Italia al fianco di Francia e Gran Bretagna nella Prima guerra mondiale.

Due sono i massimi tenori del "Corriere" di Albertini: Luigi Barzini, reporter sempre a ridosso degli avvenimenti, e Gabriele d’Annunzio, che dalle colonne del quotidiano milanese contribuirà a spostare l’opinione pubblica da posizioni neutraliste a interventiste

Due sono i massimi tenori, seppur di diversa caratura, del «Corriere» di Albertini: il primo è Luigi Barzini, mobile reporter di nuovo conio, sempre a ridosso degli avvenimenti, inventore di una lingua tachigrafica e al tempo stesso ricca di immagini che farà scuola. Decisivo, a partire dalla Guerra di Libia, in un giornale di sei pagine ma che ne dedica una (la famosa terza) alla cultura, il contributo del secondo: Gabriele d’Annunzio. Lo scrittore-vate scrive ad Albertini dall’esilio di Arcachon, alla vigilia dell’impresa coloniale (1911), che ritiene suo «dovere di concorrere con tutte le forze del mio spirito ad esaltare in questo momento la coscienza del paese». È quello che farà, da par suo, nel «maggio radioso» del 1915 in cui, insieme ad Albertini, sposta l’opinione pubblica da posizioni neutraliste a interventiste: nella retorica del giornale si tratta dell’«ultima guerra dell’Indipendenza». Resta abbastanza misteriosa la natura del legame tra Albertini, prototipo di una borghesia che sta inventando una propria tradizione, e d’Annunzio, campione del «vivere inimitabile», antiborghese per eccellenza. Si potrebbe azzardare che uno trova nell’altro quello che lui non è.

Albertini mette il «Corriere» a disposizione di Cadorna e ogni mese lo raggiunge per qualche giorno al fronte; lo appoggia fino a Caporetto e non ne perde la stima nemmeno dopo. Si lamenta però che la censura militare impedisca al giornale di fare il suo lavoro, pur essendo preposto all’ufficio Ugo Ojetti, un «corrierista» di peso. Come sottolineano gli autori, «i vertici politici e militari, tuttavia, non percepivano ancora appieno l’importanza della propaganda come arma bellica». Nonostante ciò, la tiratura del giornale raggiunge le 800 mila copie, anche se dopo Caporetto il «Corriere» finisce brevemente sul banco degli imputati. Finita la guerra, si consuma una rottura mai rimarginata tra d’Annunzio e Albertini, contrario all’impresa di Fiume.

Più ondivaghi i rapporti con Mussolini: il «Corriere» e il «Popolo d’Italia» furono i quotidiani più interventisti, così a seguito del Biennio rosso 1919-20, Albertini, al pari di liberali moderati come Croce e Casati, pensa che il fascismo possa restare tra le forze costituzionali e, anzi, fungere da bastione in funzione antisocialista. La marcia su Roma coglie di sorpresa il direttore che, pur spostandosi su posizioni ostili a Mussolini, esita a condannare apertamente il fascismo, condizionato anche dalla prudenza dei Crespi, cosicché il giornale si astiene dal commentare la politica interna fino al delitto Matteotti (10 giugno 1924). Da allora e per i pochi mesi che mancano all’instaurazione del regime, il «Corriere» si schiera apertamente contro il fascismo.

Nel corso del 1925 i fratelli Crespi comprano le quote del giornale degli Albertini (importante anche la figura di Alberto Albertini) e Luigi si accomiata, nel novembre di quell’anno, con nobili parole, ma le esitazioni di fronte al fascismo, condivise con buona parte della classe dirigente italiana, durarono davvero troppo a lungo. Non furono molti i giornalisti che si dimisero quando avvenne il cambio di proprietà. Tra di essi i futuri direttori Mario Borsa e Guglielmo Emanuel. La fascistizzazione del giornale avvenne abbastanza lentamente: il «Corriere» era il principale quotidiano italiano e Mussolini, almeno fino alla Guerra d’Etiopia, godeva di un ampio credito nella comunità internazionale che faceva riferimento al «Corriere» per seguire gli affari italiani.

Dopo alcuni direttori di passaggio, fu il calabrese Aldo Borelli, al timone tra il 1929 e il 1943, a mettere il giornale «in camicia nera». Lo fece evitando temi come la cronaca nera o la disoccupazione che potevano urtare l’idea di pacificazione sociale trasmessa dal regime. Nel frattempo entrarono, nel corso degli anni Venti, nuovi redattori come Dino Buzzati, Orio Vergani, Tommaso Besozzi, mentre Indro Montanelli, Curzio Malaparte e Virgilio Lulli nel decennio successivo. Tutte ottime penne, ma chi più o chi meno scrissero articoli inneggianti al fascismo, qualcuno distinguendosi anche per gli accenti antiebraici dopo le leggi razziali del 1938. Sono casi che negli ultimi trent’anni sono stati studiati e rappresentano una prova della debolezza della categoria – della sua matrice letteraria che la porta a perdere di vista il proprio ruolo nella società – più ancora che dei singoli.

Allo scoppio della Seconda guerra mondiali i grandi inviati sono mandati da Borelli sui principali fronti: sono entrati nella storia del giornalismo i reportage di Montanelli dalla Finlandia e quelli di Malaparte dal fronte orientale, poi confluiti nel suo discutibile capolavoro Kaputt (1944). È chiaro che alla caduta del fascismo il «Corriere» fu considerato uno dei simboli più evidenti del Ventennio. Dopo il 25 luglio diventa direttore Ettore Janni, liberale di stampo albertiniano. Sono allontanati i giornalisti più compromessi col regime: Augusto Guerriero, poi noto come «Ricciardetto», Vergani, Lilli, Monelli. Dopo l’8 settembre, quando il giornale è nel territorio della Repubblica Sociale, direttore è un moderato, Ermanno Amicucci, ma è inevitabile che il «Corriere» divenga un megafono dell’ultimo Mussolini. Molti collaboratori continuarono a firmare, nonostante la pericolosità della situazione («Chi si firma è perduto», si motteggiava), nel periodo della guerra civile.

I Crespi, come molti industriali, fecero il doppio gioco: finanziarono la Resistenza e continuarono a tenere i rapporti con i nazi-fascisti, ma al momento della Liberazione furono espropriati. Il nuovo direttore, Mario Borsa, era un antifascista di provata fede che durante il Ventennio collaborò al «Times» dall’Italia. «La colpa non è tutta e solo di Mussolini», così esordì Borsa, mettendo in chiaro le responsabilità della borghesia italiana, pronta a tutto di fronte alla minaccia bolscevica. Borsa ripulì la redazione dagli elementi troppo compromessi col fascismo, ma il vento favorevole non durò molto a lungo e i Crespi stavano manovrando per tornare in possesso del giornale. Borsa riuscì a combattere la battaglia istituzionale, schierando il «Corriere», che fino al 1959 mantenne un pudico è minuscolo «Nuovo» sopra la testata, a favore della Repubblica. Fu uno degli artefici della vittoria, ma quando, nell’estate del 1946, i Crespi tornarono proprietari della testata, non fecero passare molto tempo prima di allontanare Borsa e chiamare come direttore Guglielmo Emanuel, liberale e antifascista ma su posizioni più prudenti e pronto ad assecondare la restaurazione in atto, seppur recuperando firme di grande prestigio come il vecchio Benedetto Croce e Luigi Einaudi, prima che questi salisse al Quirinale. Scrivono gli autori: «Sotto la direzione di Emanuel prenderà dunque forma il paradosso del "Corriere", destinato a perpetuarsi lungo l’intera "prima Repubblica", un quotidiano conformista e imbalsamato, quasi sempre salmodiante di fronte ai poteri costituiti, e tuttavia in grado di sfornare fior di collaboratori, inviati e "inchiestisti", autori di pagine inappuntabili, incise nella storia del giornalismo».

Un quotidiano conformista e imbalsamato, quasi sempre salmodiante di fronte ai poteri costituiti, e tuttavia in grado di sfornare fior di collaboratori, inviati e "inchiestisti", autori di pagine inappuntabili, incise nella storia del giornalismo

Tornano in mente le strofette di Ennio Flaiano: «Alle cinque della sera/ sulla piazza di Matera/ da una millecento lusso/ scende Giovanni Russo/ redattore viaggiante/ del Corriere della Sera/ Che successo! Che carriera!». Detto per inciso, Giovannino Russo fu una punta di diamante del giornale, come testimoniano i suoi bellissimi libri degli anni Cinquanta (Baroni e contadini, L’Italia dei poveri,) nati dalle inchieste per il «Corriere».

La posizione moderata del giornale è confermata, attorno al 1950, dalla collaborazione piena di incidenti di Ernesto Rossi, economista allievo di Luigi Einaudi, ma su posizioni ultraliberiste e scomode per i poteri economico-finanziari che il «Corriere» rappresentava. A Emanuel succede Mario Missiroli, antifascista in gioventù ma poi rapidamente reinseritosi durante il Ventennio. Abile equilibrista tra i poteri, lasciò di fatto la conduzione del giornale al potente caporedattore Michele Mottola. A dare una svegliata al sonnolento «Corriere» degli anni Cinquanta, che raggiungeva comunque tirature tra le 6 e le 700 mila copie, ci pensò «Il Giorno», fondato nel 1956 da Enrico Mattei, diretto prima da Gaetano Baldacci (ex «Corriere»), poi da Italo Pietra, con un gruppo di giovani giornalisti, spesso con un passato nella Resistenza, che cominciarono a raccontare l’Italia e il mondo in modo nuovo, così come nuova è l’impaginazione, l’uso del colore e in generale l’aria in sintonia con i tempi che significava, nella nostra stagnante politica, l’apertura al centrosinistra e a una stagione di riforme.

I Crespi sostituirono Missiroli (1961) con Alfio Russo, siciliano di Giarre, che rinnova il giornale con un restyling grafico, assolda nuove firme (Bettiza, Leonardo Vergani, Zincone), ne promuove altri (Ottone, Cavallari), chiede a Enrico Emanuelli di ripensare la terza pagina e una donna (Giulia Borgese) diviene per la prima volta redattrice del giornale. Un’altra donna, Giulia Maria Crespi, figlia unica di Aldo, prende a occuparsi del giornale, frequentando con assiduità la mitica stanza della proprietà in via Solferino. Russo fa un buon lavoro ma a un certo punto la società italiana sembra correre più veloce delle sue intenzioni e la Crespi lo sostituisce nel 1968 con Giovanni Spadolini, che ha poco più di quarant’anni, ma è allievo di Missiroli per stile e sostanza.

È la Crespi a chiamare Antonio Cederna, che introduce con grande vis polemica temi ambientalisti sul giornale, mentre Spadolini assolda giovani scrittori in ascesa come Goffredo Parise e Alberto Arbasino. Spadolini fa un giornale che non piace né a destra né a sinistra, è soprattutto troppo prudente nel valutare le inchieste che seguono Piazza Fontana, quando nasce un giornalismo «democratico» che non crede più alle verità di Stato, e alla fine è messo alla porta dalla Crespi, «in modo guatemalteco», commenta Montanelli, sempre più a disagio in un giornale che si sposta verso sinistra.

Moderatamente di sinistra è il nuovo direttore, Piero Ottone, di britannico aplomb, che recluta Pasolini e Bernardo Valli e rende il «Corriere» più sensibile al vento dei cambiamenti sociali. Tanto basta a Montanelli e a un gruppo di giornalisti in cui spicca il nome di Enzo Bettiza per promuovere una secessione e fondare «Il Giornale Nuovo» (1974). Nel frattempo la galassia «Corriere» comincia a perdere ingenti quantità di denaro, inadeguata di fronte ai grandi cambiamenti tecnologici e sociali. La Crespi fa entrare in società Gianni Agnelli e Angelo Moratti per tappare le falle più evidenti, ma è una compagine male assortita, così decide di vendere la sua quota ad Andrea Rizzoli, presto seguita dai due soci. Alle spalle di Rizzoli s’intravede la figura di Eugenio Cefis, presidente di Montedison, che in quel momento sta investendo grosse cifre nella carta stampata.

La Crespi lascia il «Corriere» dopo che la sua famiglia è stata proprietaria o comproprietaria della testata per quasi 90 anni. Questo il giudizio degli autori su di lei: «La generosa e fin troppo emotiva Giulia Maria non possedeva il sangue freddo e la diplomazia necessari per amministrare un quotidiano come il "Corriere" in un periodo in cui le grandi testate erano divorate da deficit paurosi». Non è che i nuovi proprietari dessero particolari garanzie: Andrea Rizzoli, figlio di Angelo, fondatore della dinastia, soffriva il confronto con l’ombra paterna e presto lasciò strada ai figli Alberto e Angelo jr. I Rizzoli avevano fatto il passo più lungo della gamba e, mentre cresceva il debito e bisognava affrontare redazioni molto sindacalizzate, furono nella necessità di chiedere aiuto a Ortolani, Gelli e al Banco Ambrosiano di Roberto Calvi. All’interno del giornale, dove Ottone godeva di una certa autonomia e dove erano stati assunti giornalisti come Ronchey e Biagi, moderatamente progressisti, a tutelare i nuovi, opachi, interessi si stagliava l’inquietante figura di Bruno Tassan Din, direttore generale della Rizzoli. È lui a manovrare dall’interno per sostituire Ottone con Franco Di Bella, il primo direttore che arriva dalla cronaca. Dotato di grande fiuto giornalistico, capisce che verso la fine degli anni Settanta la società ha un ritorno verso il privato e pubblica in prima pagina la lettera di un uomo di mezza età in crisi, che si scoprirà anni dopo essere stata scritta in segreto dal vicedirettore Gaspare Barbiellini Amidei. È il segnale del «riflusso», accompagnato dagli articoli in prima pagina di Francesco Alberoni, mentre la coscienza critica del giornale diventa, dopo la morte di Pasolini, Giovanni Testori, allora organico a Comunione e Liberazione.

Negli anni di piombo il «Corriere» è sempre stato sul fronte della fermezza e la linea la danno gli articoli di un antifascista a ventiquattro carati come Leo Valiani e le indagini sul terrorismo di un cronista preparatissimo come Walter Tobagi, assassinato nel 1980 da due aspiranti brigatisti. Il problema è che il giornale è sempre più infiltrato dagli uomini della P2, come è evidente da una lunga intervista di Maurizio Costanzo a Licio Gelli, allora un perfetto sconosciuto. L’inversione di ruoli tra Angelo Rizzoli jr. e Tassan Din ricorda, scrivono gli autori, quello tra il maggiordomo e il padrone nel film Il servo di Joseph Losey. Di Bella riesce in qualche modo a tutelare l’indipendenza del giornale ma quando, nel 1981, vengono rese note le liste della P2, deve dimettersi quasi immediatamente. La proprietà è ancora dei Rizzoli, ma nel frattempo Roberto Calvi viene trovato impiccato sotto il ponte dei Frati Neri a Londra, Tassan è arrestato poi rilasciato, il giornale è in amministrazione controllata. Andrea Rizzoli, ritiratosi a Cap Ferrat, poco prima di morire assiste alla dissoluzione del suo impero e all’arresto dei due figli ed esclama: Ho sofferto le pene dell’inferno quando li ho visti in televisione portati via come malfattori”.

In un frangente difficilissimo, mentre «la Repubblica», nata nel 1976, conquista copie e lettori, Alberto Cavallari diventa il nuovo direttore. Deve ridare credibilità a un’istituzione, perché tale resta il «Corriere», e ridare smalto a una redazione molto divisa. Lo fa nell’unico modo possibile: restando indipendente dai partiti. La sua posizione non piace a Craxi, che lo porta in tribunale che lo giudica – siamo nel 1984 e il segretario del Psi è diventato presidente del Consiglio – «colpevole del reato di diffamazione aggravata».

Nel frattempo ai Rizzoli è subentrata una proprietà composita che ha come maggior azionista la finanziaria Gemina, di fatto controllata dagli Agnelli. Cavallari deve dimettersi e il nuovo direttore è il liberale piemontese Piero Ostellino, meno inviso a Craxi e nettamente anticomunista. Gli anni Ottanta si consumano nelle lotte con «la Repubblica», giornale anticraxiano, nel predominio delle tirature. Dopo Borsa, il direttore più indipendente dai partiti è stato Ugo Stille, storico corrispondente dal giornale da New York, considerato «un alieno in via Solferino». Il giornale, in quegli anni (1987-1992), fu retto soprattutto dal vicedirettore Giulio Anselmi. Le conseguenze della caduta del Muro di Berlino sulla nostra politica interna non sono ben misurate dal «Corriere», ma i quotidiani vivono un momento di riscossa dalla politica con la fine della Prima Repubblica, cavalcando l’inchiesta Tangentopoli. A quel punto c’è un cambio generazionale anche nella direzione: arriva il quarantenne Paolo Mieli, che rende meno paludato il giornale in quella mescolanza di alto e basso che, fatalmente, negli anni successivi, lo fa risucchiare verso il basso.

E poi? Benché la sede non sia più di sua proprietà, il «Corriere», dopo essersi barcamenato negli anni di Berlusconi, è ancora lì, nel pieno della transizione digitale, e continua a essere il primo quotidiano italiano. Gli autori dichiarano che non disponendo più degli archivi, in futuro sarà difficile continuare a raccontare la storia del giornale. Ma è davvero così?