Passa a Berlino il referendum per l’esproprio e la socializzazione delle aziende immobiliari lanciato dalla campagna DeutscheWohnen&Co. enteignen. Deutsche Wohnen è la prima azienda immobiliare di Berlino, accusata di essere tra le responsabili di affitti sempre più alti e servizi (vale a dire la manutenzione degli immobili, degli spazi comuni ecc.) sempre peggiori. Negli ultimi anni si sono susseguiti i tentativi, per ora falliti, di una sua acquisizione da parte di Vonovia, il più grande colosso immobiliare tedesco, che sarebbe divenuta così leader continentale.

Indubbiamente sono stati molto bravi gli organizzatori a far coincidere il voto per il referendum con quello per le elezioni federali e del Parlamento della città-Stato di Berlino: oltre a doversi imporre sui «no», i «sì» alla proposta dovevano superare anche il quorum fissato in oltre 600 mila voti favorevoli. Ampiamente oltrepassato: alla fine i berlinesi che hanno votato a favore del progetto di esproprio sono stati oltre un milione; hanno vinto in quasi tutti i dodici quartieri di Berlino, a parte le due roccaforti della Cdu Steglitz-Zehlendorf e Reinickendorf.

Un grande sostegno alla campagna è venuto anche, indirettamente, dal Tribunale costituzionale federale, che nei mesi scorsi aveva dichiarato nulla la legge approvata a Berlino per il tetto agli affitti (Mietendeckel). L’argomento del Tribunale era tecnico-formale: in punta di diritto su queste materie, la competenza sarebbe del Bund, della Federazione, e non dei singoli Länder; Berlino quindi non aveva le competenze per approvare il provvedimento. Ma in questo modo il Tribunale ha eliminato lo strumento che la coalizione rosso-rosso-verde della capitale aveva individuato per mettere un freno all’impennata degli affitti e calmierarne il prezzo. A quel punto il referendum era apparso davvero l’ultima spiaggia per intervenire sulla questione immobiliare, diventata uno dei grandi temi della campagna elettorale, perlomeno nelle grandi e medie città.

Che la situazione fosse seria lo si è capito quando lo stesso amministratore delegato di Vonovia, Rolf Buch, ha dichiarato che l’azienda non avrebbe richiesto ai propri affittuari le somme non pagate per via del Mietendeckel e che, in base alla sentenza del Tribunale costituzionale, pure le sarebbero spettate. Una mossa in anticipo, per evitare un’ulteriore radicalizzazione della situazione.

Qualcuno, come al solito, ha tentato di criticare il progetto come idea della ricca e annoiata borghesia di Kreuzberg. In realtà, la campagna ha vinto perché ha attecchito ovunque, coinvolgendo giovani e anziani

La notte del 27 gli organizzatori hanno potuto festeggiare, perché si è conclusa felicemente una lunga maratona cominciata anni fa. E il risultato premia mesi e mesi di sforzi e di lavoro: i militanti della campagna, riconoscibilissimi nella loro divisa viola, hanno attraversato in lungo e in largo in questi mesi tutti i quartieri della città. Qualcuno, come al solito, ha tentato di criticare il progetto come idea della ricca e annoiata borghesia di Kreuzberg. In realtà, la campagna ha vinto perché ha attecchito ovunque, coinvolgendo giovani e anziani: a Lichtenberg come a Spandau, a Neukölln come a Marzahn. Il referendum ha unito la città, ha avvicinato le generazioni e i «nuovi» e «vecchi» tedeschi, riproponendo anche la questione di chi, pur vivendo e lavorando a Berlino, non può ancora prendere parte alle elezioni o votare in referendum come questo.

Che cosa accadrà ora? Nonostante la netta vittoria dei sostenitori della socializzazione al referendum, si apre una fase nuova e prevedibilmente lunga, il cui esito non è affatto scontato. Il progetto è chiaro: le imprese (ma non le cooperative) con oltre 3.000 immobili si vedranno espropriati quelli eccedenti, che finiranno quindi nel patrimonio immobiliare cittadino. In totale il provvedimento dovrebbe interessare circa 250.000 appartamenti. Richiamandosi all’articolo 15 del Grundgesetz, la Costituzione federale tedesca (“Il suolo, le risorse naturali e i mezzi di produzione possono essere assoggettati, ai fini della socializzazione, ad un regime di proprietà collettiva o ad altre forme di gestione collettiva mediante una legge che determini il modo e la misura dell'indennizzo”), gli organizzatori, che hanno già predisposto una proposta di legge che il Senato e il Parlamento di Berlino dovranno esaminare, pianificano la realizzazione del dettato costituzionale tramite la nascita di una fondazione di diritto pubblico (Gemeingut Wohnen, al cui vertice dovrebbero essere posti anche rappresentanti degli inquilini, ma sulla cui forma e struttura proposte ci sono perplessità molto forti di ordine giuridico) alla quale attribuire la titolarità e la gestione degli immobili espropriati. Qui, però, si aprono alcuni problemi giuridici e politici.

Senza pensare di produrre un elenco completo di questi aspetti, è importante innanzitutto tener presente che a Berlino si è votato non sul testo concreto di una proposta di legge, che è stata presentata a maggio 2021 e che avrebbe avuto un valore più vincolante per il Senato e il Parlamento della città-Stato, ma si è trattato di una iniziativa popolare su una opzione politica, certamente molto chiara (la socializzazione in base all’articolo 14 del Grundgesetz) che, giuridicamente, non è vincolante per gli organi costituzionali della capitale, ma che dovrà essere comunque analizzata nei prossimi quattro mesi. Ovviamente, non prendere in considerazione il parere di oltre un milione di berlinesi rappresenterebbe qualcosa di, quantomeno politicamente, assai discutibile.

Va poi tenuto presente che la previsione costituzionale di una socializzazione sino ad oggi non è mai stata applicata. In effetti, quello previsto dall’articolo 15 non è un semplice esproprio per pubblica utilità, contenuto nell’articolo 14 (questo simile al terzo comma del nostro articolo 42: “La proprietà privata può essere, nei casi preveduti dalla legge, e salvo indennizzo, espropriata per motivi d’interesse generale”), ma di uno finalizzato espressamente alla socializzazione (Vergesellschaftung) e pensato originariamente per le grandi industrie manifatturiere; ecco perché nessuno fa mistero che l’intero articolo 15 sia oggetto di interpretazione. Può valere, ad esempio, anche per le aziende immobiliari? Quanto grande deve essere l’indennizzo, tema sul quale si è giocata gran parte della campagna elettorale referendaria? Discusso e controverso è se questo indennizzo debba riferirsi, ad esempio, al valore di mercato degli immobili. Risposta negativa secondo gli organizzatori (e anche per numerose perizie che si richiamano alla giurisprudenza del Tribunale costituzionale federale intervenuta per espropri in base all’articolo 14), per i quali si tratta di un importo tutto sommato contenuto, finanziabile tramite dei prestiti (che verrebbero ripagati tramite gli affitti che la Fondazione continuerebbe a riscuotere) e quindi “neutrale” per il bilancio della città. Secondo altri, il costo dell’indennizzo dipende dalle modalità dell’esproprio, ad esempio se con esso vengono trasferiti anche la proprietà del suolo (non è escluso, infatti, che anche nel caso di socializzazione alcuni diritti siano conservati dai titolari originari). In ogni caso non si tratta solo di interpretare gli articoli 14 e 15 del Grundgesetz; ci sono questioni che saranno necessariamente anche oggetto di una mediazione politica quando il testo della legge arriverà al Parlamento federale (quindi non sarà solo il Senato a occuparsene, dove è più facile raggiungere un accordo, ma gli stessi deputati di Berlino, molti dei quali anche nella Spd sono a favore del referendum o comunque guardano con simpatia all’iniziativa).

Se si dovesse procede in modo troppo frettoloso nell’approvazione di una legge il rischio è che poi sia annullata dal Tribunale costituzionale. E non solo quello federale di Karlsruhe, ma la stessa Corte costituzionale della città-Stato di Berlino

Si tratta di questioni di estrema importanza perché se si procede in modo troppo frettoloso nell’approvazione della legge il rischio è che poi sia annullata dal Tribunale costituzionale. E non solo quello federale di Karlsruhe, ma la stessa Corte costituzionale della città-Stato di Berlino. In effetti, un argomento molto insidioso, che non a caso è stato prodotto dalle imprese immobiliari contrarie al referendum, afferma che la Costituzione di Berlino non preveda il caso dell’articolo 15 e cioè un esproprio per socializzazione ma solo quello per ragioni amministrative, simile all’articolo 14 del Grundgesetz e contenuto nel comma 2 dell’articolo 23 della Costituzione cittadina. Platealmente si è anche affermato che la Costituzione cittadina, approvata nel 1995, voleva evitare altri casi di socializzazione dopo la fine della Repubblica democratica tedesca. In altri termini: il diritto di proprietà sarebbe garantito in modo molto più stringente dalla Costituzione cittadina rispetto a quella federale. La proposta dei referendari sarebbe così incompatibile con la Costituzione della capitale.

Oltre a questi aspetti, e a tanti altri, c’è da considerare il piano politico. Franziska Giffey, che ha vinto le elezioni con la Spd e che quindi dovrebbe essere la prossima borgomastra della capitale, non ha mai fatto mistero di essere del tutto contraria al progetto. Che, a suo dire, non risolverebbe l’emergenza abitativa, che si affronta solo costruendo nuove case. Obiezione respinta dagli organizzatori del referendum, che non hanno mai nascosto la propria convinzione che Giffey sia l’ostacolo principale alla realizzazione del progetto e che probabilmente speravano che alla fine la spuntasse la candidata dei Verdi, Bettina Jarasch: negli ultimi anni il numero di case è costantemente aumentato, ma ciò non ha avuto effetto sugli affitti, che, al contrario, sono esplosi.

Nelle prossime settimane si deciderà il futuro governo di Berlino: vedremo se e in che modalità sarà ripresa la formula della coalizione rosso-rosso-verde, che Giffey in campagna elettorale aveva messo in discussione proprio per l’eccessiva condivisone di Verdi e Linke del referendum. Il giorno dopo le elezioni, comunque, Giffey ha scelto parole più moderate, dichiarando di voler rispettare l’esito referendario. Adesso comincia una fase nuova, al comitato del referendum lo sanno: i festeggiamenti sono finiti, ci si rimette al lavoro.