Separata dal centro storico solo dal fiume Tanaro, la cittadella di Alessandria, fortezza militare stellata risalente alla prima metà del XVIII secolo, fin dalla sua edificazione si può considerare come uno specchio della città civile sull’altra sponda. E se la serietà e l’ordine tipici dell’esercito sono stati tratti presenti ad Alessandria nell’era sabauda e in quella industriale, oggi l’immagine riflessa restituita dalla cittadella è quella dell’abbandono e dell’incertezza sul futuro: la fortezza è passata nel 2016 dal demanio militare alla disponibilità del comune, ma ad oggi non ha trovato una nuova funzione degna della sua storia. Il parco che si dipana attorno ai suoi bastioni è affollatissimo dai cittadini nei giorni di sole, e i suoi spiazzi ospitano manifestazioni culturali e fiere, ma nessuna delle grandi idee che sono state lanciate per la sua rivalorizzazione – campus universitario, centro commerciale, grande museo, polo di innovazione – sono diventate realtà. Come se la cittadella avesse paura di affrontare un cambiamento radicale rispetto al passato. E oltre il ponte di Richard Meier, l’unico guizzo architettonico che la città si è concessa al di fuori della gelosa conservazione del proprio impianto medievale e ottocentesco, Alessandria è anch’essa incerta sulle direzioni da prendere per evitare un destino di abbandono, provando varie strade senza però il coraggio di imboccarne una sola con decisione.

Se qualche decennio fa la città (che oggi conta circa 94 mila abitanti) poteva vantarsi di essere il centro geografico del triangolo industriale, oggi Alessandria è marginale rispetto ai grandi corridoi territoriali e ai poli urbani, e si ritrova impaludata in una terra di nessuno tra Lombardia, Piemonte e Liguria, scavalcata da flussi che portano merci, persone e ricchezza in altri luoghi. Il polo di Spinetta Marengo resta un baluardo del manifatturiero, ma oltre a essere fonte di occupazione, è causa di preoccupazione per le conseguenze degli stabilimenti della chimica e della plastica sulla salute della popolazione, un tema sul quale ancora non si è fatta definitivamente chiarezza, forse nel timore che una valutazione estesa del danno ambientale porti a una nuova «crisi Ilva» e alla fuga delle imprese. Anche perché, oltre alla grande industria, l’economia alessandrina fatica a trovare spazi di crescita: la vocazione logistica come retroporto di Genova, su cui si ragiona da molti anni, non si è pienamente tradotta in realtà, con la qualificazione dell’imponente scalo merci ferroviario cittadino ancora in fase di progettazione dopo ritardi decennali, mentre le richieste degli operatori della grande distribuzione per insediarsi in città sono diventate oggetto di scontro, perché in assenza della previsione di aree attrezzate vicino all’autostrada andrebbero a localizzarsi in quartieri residenziali, con ovvie conseguenze su traffico e sicurezza. Anche l’università, su cui si è investito e si sta investendo molto con la prevista realizzazione di un grande campus nel quartiere Orti, non è ancora diventata il motore dello sviluppo che si sperava e al momento ha ricadute piuttosto limitate sul tessuto economico locale.

La città sta invecchiando e si sta impoverendo, senza che vengano messe in atto iniziative forti per invertire il declino demografico e il calo di attrattività

Tutto questo mentre la città lentamente invecchia e si impoverisce, senza che vengano messe in atto iniziative forti per invertire il declino demografico e il calo di attrattività. Solo in parte questa inazione può essere imputata a problemi di bilancio, che pure sono reali: il fallimento di Amiu e Atm, le aziende che si occupavano di gestione dei rifiuti e trasporto pubblico, e il dissesto finanziario del comune dichiarato nel 2012 (avvio di un interminabile e complesso scambio di accuse tra le fazioni politiche) hanno avuto un impatto pesantissimo sulla capacità di spesa dell’ente, e l’atteso «salvataggio» da parte del governo nazionale ancora non si è concretizzato, nonostante anni di appelli e lobbying.

Ma c’è anche la sensazione che manchi una visione di sviluppo della città in grado di ispirare interventi di trasformazione radicale, e che tutto sommato l’Alessandria tranquilla e decorosa di oggi non abbia bisogno di un’accelerazione che potrebbe creare scompigli. Emblematico è il caso del Pums, un’occasione potenzialmente unica per ripensare ex novo il sistema della mobilità urbana che si è invece sostanziato in cambiamenti tutto sommato modesti, diluiti nel tempo, che limitano ma non impediscono l’accesso delle auto all’interno della cerchia degli spalti e mantengono la destinazione a parcheggio di alcune delle piazze più importanti della città.

La tendenza delle ultime giunte, di diverso colore, a privilegiare la «ordinaria manutenzione» della città senza grandi balzi inaspettati non può però ricevere un giudizio solo negativo: nonostante i pochi fondi e la scarsa crescita economica, Alessandria resta una città gradevole, sicura, ordinata. Si sono realizzate (o almeno progettate) iniziative di rivitalizzazione del sistema culturale (finalmente anche con un programma di recupero del teatro comunale, da tempo inagibile per inquinamento da amianto) e si discute animatamente sul modo migliore per potenziare l’eccellenza del polo ospedaliero.

È invece allargando lo sguardo al sistema d’area vasta che la mancanza di una strategia di sviluppo di lungo periodo diventa un fattore critico. Alessandria non è un polo isolato e autonomo, ma costituisce un nodo del grande sistema post-metropolitano che è il Nord Italia, in cui gli scambi e le interconnessioni tra aree metropolitane, città medie, aree produttive, aree agricole e naturali sono densissimi, e la facilità degli spostamenti ha annullato le distanze tra luoghi. All’interno dello scenario macroregionale, Alessandria è sottoposta a una concorrenza fortissima, e non ha molte carte da giocare per emergere. Milano, e in subordine Torino e Genova, occupano le posizioni apicali delle gerarchie urbane del quadrante, e sono i poli attrattori delle intelligenze, degli investimenti e delle creatività che garantiscono le risorse necessarie per creare valore: le città medie sono afflitte da una fuga di cervelli che non si indirizza solo all’estero, ma soprattutto verso le aree metropolitane. Nell’area tra Milano e Genova, soltanto Pavia riesce a mantenere un buon grado di attrattività verso i giovani talenti, grazie alla sua grande università e a un’offerta di servizi culturali e ricreativi dedicati agli studenti.

Per quanto riguarda i flussi turistici, a poca distanza da Alessandria ci sono mete di rinomanza globale: basti citare il sistema vitivinicolo delle Langhe e la riviera ligure. Solo una cittadella trasformata in qualcosa di unico e imperdibile potrebbe deviare una parte dei visitatori diretti a questi luoghi verso Alessandria. Città come Novara hanno trovato un ruolo nel mosaico d’area vasta come poli secondari delle aree metropolitane, ma Alessandria non può contare su una connessione ferroviaria rapida e frequente con Milano (nonostante gli sforzi in questo senso dell’amministrazione comunale), e non è stata finora in grado di approfittare della «fuga dalla città» di giovani e famiglie in cerca di una migliore qualità della vita e costi degli affitti più bassi, al contrario di centri minori come Tortona e Voghera che certamente hanno meno da offrire in termini di qualità urbana e servizi, ma sono avvantaggiati dalla linea ferroviaria diretta con il centro metropolitano, che consente un facile pendolarismo.

Anche nelle strategie regionali Alessandria non ha un ruolo forte: nei documenti di programma il quadrante Sud Est è caratterizzato dalla presenza del polo di innovazione della plastica e dalla funzione logistica (che però interessa solo marginalmente la città, avendo i suoi nodi lungo l’asse Milano-Genova e in particolare a Rivalta Scrivia), ma nel complesso non è una delle aree su cui si concentrano gli investimenti per lo sviluppo.

Per emergere nella competizione, la città dovrebbe cercare alleati con cui costruire una visione di sviluppo sulla quale concentrare le risorse, ma i vicini guardano tutti altrove

Per riuscire a emergere nella competizione territoriale, Alessandria dovrebbe cercare alleati insieme ai quali costruire una visione di sviluppo sulla quale concentrare le risorse: un compito non facile, perché i vicini paiono guardare tutti in altre direzioni. A partire da Asti: nonostante le due città abbiano caratteristiche e tendenze simili, e abbiano visto la recente fusione delle proprie camere di commercio, la città di Alfieri sembra più interessata a integrarsi nel sistema turistico ed economico delle Langhe, anche se in esso difficilmente potrà rivestire una posizione apicale.

Per Alessandria, questa tornata elettorale non è l’ultima possibilità per cambiare marcia: la crisi dell’economia locale non si è presentata qui in maniera dirompente come a Ivrea o a Biella, ma ha assunto un ritmo più lento e meno tragico, cui finora si è riusciti a rimediare senza grossi traumi. Il rinnovo dell’amministrazione è però un’occasione per fare ripartire il dibattito sullo sviluppo, costruendo nuovi equilibri di potere e di interessi che consentano di avviare le scelte coraggiose che sono necessarie per cambiare marcia alla città: che si punti sull’industria, sulla cultura o sulla qualità della vita e residenziale. Magari partendo proprio da un progetto-bandiera per l’area della cittadella. Il grande entusiasmo che ha accompagnato, lo scorso anno, la promozione della locale squadra di calcio dei «grigi» in serie B è il segno che l’orgoglio di essere alessandrini è ancora ben vivo, e meriterebbe di trovare altre conferme anche al di fuori del campo sportivo.