Rosarno è il centro più importante della Piana di Gioia Tauro, nel Sud della Calabria, un territorio da decenni dominato da agrumi e olive. Dai primi anni Novanta, nella raccolta sono impiegati in misura crescente lavoratori migranti. Le loro condizioni di vita e di lavoro sono difficili, con salari molto bassi o a cottimo. Le uniche “abitazioni” disponibili sono vecchie ex-fabbriche ai margini del paese o casolari abbandonati nelle campagne. E, spesso, questi lavoratori subiscono aggressioni violente e razziste. Nel pomeriggio del 7 gennaio 2010, due braccianti di origine africana al ritorno dai campi vengono feriti con colpi di arma da fuoco.

All’aggressione i migranti reagiscono uscendo dalle fabbriche abbandonate e scaricando la propria rabbia nelle strade, contro automobili e cassonetti. Segue una contro-reazione di una parte della popolazione locale: due giorni di pestaggi e “caccia al nero”. Intervengono forze dell’ordine ed esercito. Il bilancio è di decine di feriti, tra mille e duemila lavoratori vengono trasferiti o fuggono in altre città italiane. Il ministro dell’Interno, Roberto Maroni, attribuisce la causa degli scontri all’eccessiva tolleranza dell’immigrazione irregolare.

Quegli eventi drammatici, passati alla storia come la “rivolta di Rosarno”, hanno almeno tre effetti importanti. In primo luogo, fanno crescere in maniera decisiva la consapevolezza dell’opinione pubblica italiana ed europea in merito alle condizioni di lavoro nelle quali è prodotto il cibo che finisce nei supermercati e sulle tavole di tutto il continente; non solo a Rosarno, ma in molte aree di agricoltura intensiva in Italia – da Foggia a Salerno, da Campobello di Mazara a Saluzzo – e, allargando lo sguardo, in altri Paesi dell’Europa mediterranea. In particolare, diventano oggetto di inchieste e dibattiti il caporalato e i “ghetti”, le baraccopoli informali nelle quali i braccianti, specie di origine africana, trovano un precario riparo nei loro spostamenti per inseguire la domanda di manodopera in agricoltura. Certo, non è possibile sostenere che prima del gennaio 2010 questo tema fosse sconosciuto; si pensi all’eco che aveva avuto, vent’anni prima, l’uccisione di Jerry Masslo a Villa Literno. Tuttavia, nel decennio che si apre con la rivolta, la questione diventa ineludibile.

In secondo luogo, la rivolta di Rosarno, assieme allo sciopero messo in atto ancora da braccianti africani in un altro centro rurale del Mezzogiorno, Nardò, nel Salento, solo un anno e mezzo dopo, nell’agosto 2011, ha spinto singoli e organizzazioni a impegnarsi in favore dei lavoratori agricoli migranti, talvolta insieme a essi. Associazioni, sindacati, Ong, organizzazioni religiose, gruppi del consumo critico: i progetti di intervento sociale, economico, sindacale, politico di questi dieci anni non si contano.

In terzo luogo, quegli eventi – e l’impegno di individui e organizzazioni – hanno sollecitato le istituzioni locali e i governi nazionali a intervenire sulla questione. Due leggi nazionali, (agosto 2011 e novembre 2016) introducono e modificano l’articolo 603 bis del Codice penale, ridefinendo le norme sul contrasto al caporalato e allo sfruttamento del lavoro. A partire da queste norme, sono un’ottantina le inchieste e i processi in corso in tutta Italia, non solo al Sud e non solo in agricoltura. Vengono firmati protocolli e istituiti tavoli, da ultimo il “Tavolo nazionale anticaporalato” presso il ministero del Lavoro, attivo da gennaio 2019. Le regioni sono intervenute soprattutto per sgomberare ghetti e allestire tendopoli e altre tipologie di centri di “accoglienza” per braccianti, dalla Piana di Gioia Tauro al foggiano, dalla Basilicata al Piemonte.

Eppure, per molti aspetti le condizioni di vita e di lavoro dei braccianti migranti sono rimaste immutate. Nel settembre 2019 è stato diffuso un report delle Nazioni Unite – frutto della visita in Italia dello Special Rapporteur sulle forme contemporanee di schiavitù – che rileva che “i diritti dei lavoratori sono spesso violati ed essi possono essere esposti a severo sfruttamento o schiavitù” e chiede allo Stato italiano di fare attenzione alla “continue sfide nell’assicurare condizioni di vita e di lavoro decenti ai lavoratori migranti nel settore”.

Come possiamo spiegare la persistenza delle condizioni di grave sfruttamento dei lavoratori migranti in agricoltura? In dieci anni gli interventi delle istituzioni locali e nazionali non hanno affrontato adeguatamente quelle appaiono come le tre cause più importanti di questo fenomeno: le relazioni diseguali di potere nei sistemi agroalimentari, che spingono le imprese agricole a comprimere i salari dei lavoratori; la vulnerabilità giuridica di questi lavoratori, soprattutto quanti sono appena arrivati in Italia; la segregazione abitativa dei migranti rispetto alle popolazioni che vivono nei centri abitati. Tali cause strutturali non sono state intaccate e, per certi versi, nell’ultimo decennio si è verificato addirittura un peggioramento.

Molti osservatori hanno riconosciuto che lo sfruttamento del lavoro bracciantile è in parte dovuto alla posizione di potere assunta nei sistemi agroalimentari dalle grandi aziende della trasformazione e della distribuzione, le quali, peraltro, per rispondere a queste accuse hanno attivato percorsi di certificazione dei propri fornitori e lanciato campagne di marketing. Tuttavia, i processi di concentrazione dei canali di distribuzione del cibo e di diminuzione delle aziende agricole sono continuati, mentre le normative adottate per riequilibrare le relazioni nelle filiere agroalimentari, dalla rete del lavoro agricolo di qualità alla legge che vieta la vendita sottocosto dei prodotti agroalimentari, approvata dalla Camera nel giugno 2019, sembrano inadeguate. In questi anni, i migranti hanno rappresentato, sul mercato del lavoro, una fascia di lavoratori sottopagati e flessibili che ha consentito di ammortizzare un processo di ristrutturazione del sistema agroalimentare italiano che altrimenti sarebbe stato molto più crudo; il loro numero continua a crescere e oggi essi rappresentano più di un terzo del totale dei lavoratori dipendenti in agricoltura. Se già le leggi sull’immigrazione del 1998 e del 2002 avevano contribuito a determinare la vulnerabilità giuridica dei migranti, la gestione della “crisi migratoria” cominciata con le primavere arabe del 2011 ha peggiorato le cose, con l’arrivo nelle campagne di un gran numero di lavoratori con permessi di soggiorno per richiesta di asilo, titolari di protezione internazionale o “diniegati”, tutti particolarmente vulnerabili, tanto più in seguito ai decreti “sicurezza” emanati dal primo governo Conte. Essi si sono posti di fatto in concorrenza con lavoratori presenti da più anni nelle campagne italiane, causando un nuovo processo di parziale sostituzione tra gruppi differenti di braccianti.

D’altra parte, le istituzioni locali non hanno saputo – o non hanno voluto – fornire servizi adeguati ai braccianti e alle imprese stesse: si è quasi sempre preferito concentrare le risorse su grandi centri di accoglienza per gli stagionali, restando nella logica dell’emergenza, invece che favorire l’insediamento dei braccianti in abitazioni nei paesi (cosa che li aiuterebbe nell’accesso ai servizi) e, nonostante alcune sperimentazioni, senza realizzare progetti efficienti per il trasporto al lavoro e la mediazione lavorativa, che sono rimasti quasi sempre nelle mani dei caporali.

Inoltre, e questo è cruciale, le istituzioni locali e nazionali non hanno mai individuato gli stessi lavoratori come interlocutori nella lotta allo sfruttamento. Eppure, con la rivolta di Rosarno e lo sciopero di Nardò, essi hanno mostrato di essere tutt’altro che passivi. La storia degli ultimi dieci anni ci insegna probabilmente questo: lo sfruttamento del lavoro in agricoltura va combattuto non solo con gli strumenti del diritto penale e con politiche di emergenza, ma incidendo con politiche attive sulle cause strutturali di questo fenomeno e coinvolgendo i lavoratori sfruttati e le loro organizzazioni nella costruzione e nella realizzazione di queste politiche.