1945, l’Italia è libera da pochi mesi, dovunque distruzione e macerie. Dalla stazione di Milano, il 16 dicembre parte il primo treno speciale che porta 1.800 bambini a Reggio Emilia, dove altrettante famiglie, per la massima parte composte da militanti comunisti, li ospiteranno fino alla primavera. Teresa Noce  ̶ dirigente comunista, combattente in Spagna con le Brigate internazionali col nome di battaglia Estella, internata dai nazisti nel campo di Ravensbrück   ̶  racconta come si avviò quel progetto: «Sarebbe toccato soprattutto alle compagne lavorare. Ma avremmo fatto in modo di mettere all’opera anche gli uomini. Tutte le compagne di Milano si misero al lavoro. Nel mio piccolo ufficio, che allora era chiamato “della stufa rossa” perché, quando ci davano un po’ di legna, era riscaldato da una stufa di terracotta rossa, era un via vai continuo di donne, uomini, bambini. Arrivavano richieste da ogni parte. I bambini affamati erano tanti. Cominciava il tempo umido e freddo e non c’era carbone. I casi pietosi erano molti, moltissimi. Bambini che dormivano in casse di segatura per avere meno freddo, senza lenzuola e senza coperte. (…) Bambini lerci, pieni di croste e pidocchi».

Il movimento “Per la salvezza dei bambini d’Italia”, come verrà poi chiamato nei numerosi comitati organizzatori sparsi per l’Italia, nasce quindi a Milano, dalla fantasia e dalla passione di Teresa Noce, organizzato dalla nascente Unione donne italiane (Udi), erede dei Gruppi di difesa della donna, nati all’interno della lotta partigiana. Non era, del resto, un’assoluta novità, riprendendo l’antica e ripetuta esperienza del solidarismo di classe e del mutuo soccorso.

Milano, nella sua periferia, era piena di bambini che soffrivano letteralmente la fame e il freddo. A una prima timida richiesta di aiuto per alcune decine di loro, Teresa Noce invia la compagna Dina Ermini a sondare la disponibilità dei compagni di Reggio Emilia a ospitare in affido un certo numero di bambini nel periodo invernale. Il radicamento e l’organizzazione del Pci nell’Emilia Romagna faceva presagire una buona risposta alla loro richiesta di aiuto. La risposta va al di là di ogni loro legittima speranza: all’ipotesi di ospitalità richiesta per poche decine di loro, Reggio Emilia risponde offrendo accoglienza per duemila bambini, seguita a ruota da Parma, Piacenza, Modena, Bologna e Ravenna. In parallelo avverrà un altro trasferimento: quello dei bambini di Torino verso Mantova.

Al V congresso del Pci (Roma, 29 dicembre 1945 - 6 gennaio 1946), dopo pressanti richieste di aiuto all’infanzia da parte dei rappresentanti territoriali, si decise di estendere l’iniziativa e radicarla a favore del Mezzogiorno.

Nei primi mesi del 1946 si avviò quindi il trasferimento a scaglioni di migliaia di bambini da Cassino e dal frusinate, terre devastate dalla guerra e dai bombardamenti alleati; e, quasi in contemporanea, altre migliaia da Roma, dalla sua periferia e dalle borgate più popolari. Nel 1947 si replicò con il trasferimento, forse il più imponente, da Napoli verso le regioni del Centro Nord, di circa 10.000 bambini, gli sciuscià sottratti alla strada e allo sfruttamento.Treni speciali continuarono a partire negli anni successivi, dal 1948 fino al 1952, dalla Calabria martoriata dall’alluvione, dalla Sicilia, dalla Sardegna, dalla Puglia e dal Polesine.

Il Pci e l’Udi, animatori principali dei comitati organizzatori, furono affiancati dai Comuni, dai Prefetti, dal Cln, dalla Cgil, dall’Anpi, dalla Croce rossa, dal Centro italiano femminile (Cif) di ispirazione cristiana, dalle cooperative e da tanti privati cittadini. Aiuti arrivarono anche dalle Ferrovie, dal ministero dell’Assistenza postbellica, dall’United Nations Relief and Rehabilitation Administration (Unrra). Protagoniste principali dell’organizzazione dei viaggi furono le militanti dell’Udi, che si occuparono di curare e vaccinare i bambini, raccolsero fondi e donazioni da privati, enti, commercianti, consigli di fabbrica, distribuirono indumenti e biancheria, calze e scarpe, organizzarono sedute di taglio di capelli e di eliminazione dei pidocchi.

Fu un lavoro gigantesco: bisognava selezionare i bambini più bisognosi – non solo quelli provenienti da famiglie ideologicamente “vicine” – andando casa per casa per conquistare la fiducia delle famiglie, verificare le condizioni di salute di ognuno, prepararne le schede personali e i cartellini di riconoscimento, abbinare ogni bambino alla famiglia di accoglienza, accompagnarli nel viaggio fornendo vitto e vestiario, mantenere i contatti tra le famiglie. Le donne dell’Udi furono sostenute dai militanti di tutte le sezioni del Pci, da moltissimi medici volontari, ma trovarono nelle Crocerossine, delegate all’assistenza nei vagoni, le più inaspettate e pragmatiche partner nei lunghi e faticosi viaggi in treno.

Decine di migliaia di bambini furono ospitati e accuditi dalle famiglie contadine e operaie della Toscana, delle Marche, dell’Emilia-Romagna, del Veneto e della Lombardia, presso le quali vennero rivestiti, curati, mandati a scuola. Ritornava spesso il detto: «Dove si mangia in sette si mangia anche in otto!». Nelle stazioni, a salutarli alla partenza e all’arrivo, c’erano le bande musicali di ferrovieri e tranvieri, i sindaci con intere giunte comunali, i militanti e le militanti dei Comitati di accoglienza che provvedevano alla collocazione dei bambini presso le famiglie ospitanti.

Molti bambini viaggiarono però traumatizzati da una propaganda feroce, operata soprattutto dai parroci del Sud, che costantemente facevano circolare voci che evocavano la leggenda dei comunisti “mangiabambini” o il loro trasferimento forzato in Russia, spaventando le famiglie. In Emilia-Romagna e in altre regioni del Centro Nord, invece, altri parroci e qualche vescovo parteciparono bonariamente ai comitati organizzatori. All’arrivo nelle nuove famiglie, la sorpresa dei bambini meridionali spesso fu scioccante, perché scoprivano agi e comodità sconosciuti, una società molto lontana da quella di provenienza. L’incontro tra queste due Italie e il confronto tra queste due culture fu il vero risultato della scelta, politica, della “solidarietà nazionale”.

Un’Italia popolare si sostituiva alle istituzioni, organizzando dal basso nuove forme di società solidale e la gestione collettiva della cosa pubblica. La politica diventava lo strumento collettivo, necessario e pragmatico per costruire il bene comune. Si scoprì inoltre «una solidarietà possibile tra Nord e Sud, tra operai e contadini – scrive Miriam Mafai in L’apprendistato della politica – un conoscersi tra gente che aveva vissuto in modo diverso le atrocità della guerra, il superamento da una parte e dall’altra di antiche incomprensioni e diffidenze, un entrare in contatto di mondi diversi: il mezzadro emiliano e il sottoproletario meridionale, con lo stabilirsi di rapporti di fraternità che resisteranno nel tempo».

“I treni della felicità”, come oggi chiamiamo quel movimento, non fu mai, in realtà, la sua definizione ufficiale, né una definizione propagandistica. Non la troviamo in discorsi pubblici, né in documenti organizzativi, né sui giornali dell’epoca che titolavano In partenza il treno speciale, Parte il treno dei bambini, In viaggio con il più bel treno del mondo. Una sola volta, viaggiando su uno di questi treni che riaccompagnava a Napoli i bambini ospitati nella sua città, il sindaco di Modena, Alfeo Corassori, rivolgendosi a una delle accompagnatrici Udi, ebbe a definirlo “il treno della felicità”. Sintetizzava, con queste parole, la difficile scelta dell’allontanamento dei bambini dai loro affetti e, insieme, la felicità della loro restituzione alle famiglie, dopo aver conosciuto nuovi affetti e sentimenti. La felicità negli occhi di quei bambini, nel guardare al futuro con minor paura e più fiducia.