Nella gremita Sala dei concerti di Stoccolma regna un silenzio quasi palpabile e due emozionati e composti Stanley Cohen e Rita Levi Montalcini si alzano in piedi per ritirare il loro premio Nobel in Medicina. Ed è proprio lei che, quel 10 dicembre 1986, si avvicina a re Carlo Gustavo XVI di Svezia per ricevere il premio sfoderando un modesto sorriso e facendo un piccolo inchino, ma dando una stretta di mano sicura e decisa. Durante una lecture tenuta qualche giorno prima della cerimonia ufficiale, Levi Montalcini aveva citato la fortuna di aver potuto ricevere un’ottima istruzione nell’università della sua città natale, Torino.

Dal 1901, anno in cui fu istituito il premio Nobel, a oggi sono stati assegnati 615 premi a 27 organizzazioni e 954 persone. Tra questi, sono solo 61 i premi consegnati a donne e, poiché Marie Curie fu premiata due volte, sono 60 le vincitrici: circa il 10% del totale. Se, però, limitiamo il focus a quante hanno ottenuto il Nobel nelle Stemm (Science, Technology, Engineering, Mathematics, Medicine), le cosiddette “scienze dure”, il numero scende a 24: 4 nel settore della fisica, 8 della chimica, 12 della medicina. Rita Levi Montalcini è l’unica scienziata italiana ad aver mai ricevuto questa onorificenza nelle Stemm.

La storia di Levi Montalcini è sicuramente straordinaria sia per i traguardi raggiunti, sia per la sua lunga e travagliata biografia. Nata nel 1909 a Torino in una famiglia di origini ebraico sefardite, le fu insegnato fin da piccolissima a definirsi “una libera pensatrice”, come racconta lei stessa nella sua autobiografia Elogio dell’imperfezione (Garzanti, 1987). Tuttavia, la forte influenza vittoriana nelle relazioni fra i generi, presente anche nella sua famiglia, la rese immediatamente edotta delle diverse aspettative e, dunque, destini sociali, che differenziavano le vite maschili e femminili.

Nonostante questo (o forse proprio per questo) e nonostante i dubbi del padre, Levi Montalcini decise di intraprendere all’età di 21 anni gli studi in medicina. Laureatasi a pieni voti nel 1936, iniziò la specializzazione in neurologia e psichiatria finché l’emanazione delle leggi razziali del 1938 costrinse lei e la sua famiglia a emigrare. Tornata in Italia, durante gli anni della guerra, Levi Montalcini continuò le sue ricerche allestendo un laboratorio casalingo nonostante i numerosi spostamenti a cui la sua famiglia fu costretta per sfuggire ai bombardamenti e alle persecuzioni razziali. Finita la guerra, nel 1946, venne invitata alla Washington University di St. Louis dove, contro le sue stesse aspettative, rimase per oltre 30 anni e dove divenne professoressa associata nel 1956 e poi ordinaria nel 1958. Fu grazie alle ricerche condotte in questa sede che, nel 1986, ricevette il premio Nobel per la Medicina insieme al biochimico Stanley Cohen per la scoperta della proteina denominata Nerve Growth Factor (Ngf), che rivoluzionò la conoscenza del sistema nervoso e di malattie come il cancro, l’Alzheimer e il Parkinson.

Durante gli anni della guerra, Levi Montalcini continuò le sue ricerche allestendo un laboratorio casalingo nonostante i numerosi spostamenti a cui la sua famiglia fu costretta per sfuggire ai bombardamenti e alle persecuzioni razziali

Ora, leggendo la biografia di Levi Montalcini – che oltre ad aver vinto un Nobel, è stata senatrice a vita della Repubblica, direttrice del Centro di ricerche di neurobiologia del Consiglio nazionale delle ricerche, fondatrice della Fondazione Rita Levi Montalcini per la formazione di giovani, donne in particolare, e tanto altro – la prima reazione è d'ammirazione. Il focus sulla ispirante straordinarietà della persona, però, tende a distogliere l’attenzione dalla scarsità di opportunità che il contesto socio-culturale e l’accademia italiana sono in grado di offrire, soprattutto alle donne.

Ovviamente le donne e le ragazze contemporanee, rispetto alla generazione di Levi Montalcini, hanno un inedito accesso all’istruzione e, anzi, rispetto ai loro coetanei maschi, si laureano in numero maggiore, in tempi più brevi e con risultati migliori. Eppure, la scienza e la ricerca – soprattutto nel campo delle Stemm – rimangono ambienti dominati da uomini. L’assenza delle donne nelle Stemm inizia, in realtà, molto presto, fin dalla scelta delle scuole superiori ed è il combinato disposto degli stereotipi di genere, declinati nei termini di predisposizioni e preferenze, da un lato, e dei vincoli legati alle pratiche di funzionamento della scienza e del mondo della ricerca, soprattutto accademica, dall’altro. In sostanza, c’è una (auto)selezione fin dall’inizio e poi una successiva scrematura anche fra quelle determinate che continuano a perseguire una carriera nell’ambito della ricerca.

Il primo dei due fattori attiene strettamente agli stereotipi di genere che, costruendo le dicotomie razionale/irrazionale, logico/emotivo, strumentale/espressivo, hanno plasmato i fondamenti della scienza occidentale. Le (supposte) predisposizioni, dunque, hanno a che fare con l’idea che le donne siano meno “brave” e meno “adatte” per le scienze. Questo induce le famiglie, le scuole, gli/le insegnanti e le bambine stesse a orientare le preferenze femminili verso percorsi di studio – e, dunque, di lavoro – ritenuti più “appropriati” per il proprio genere: le materie umanistiche.

Nonostante questo, secondo i dati Almalaurea del 2022, le laureate nei settori Stem (scienze, tecnologie, ingegneria e matematica) sono circa il 40% sul totale del settore, mentre in medicina e chirurgia rappresentano addirittura il 56,6%. Inoltre, le donne costituiscono più del 50% dei dottorandi in tutti i settori eccetto che nei dottorati Stem, sebbene in quest’area rappresentino comunque il 43,8% di coloro che conseguono il titolo.

Questi numeri possono essere spiegati dall’incontro-scontro tra due categorie di stereotipi: quelli sulle attitudini e quelli sui ruoli professionali. I percorsi in ambito sanitario e il dottorato di ricerca, infatti, hanno a che fare con l’ambito scientifico, però permettono di inserirsi nel mondo del lavoro in ruoli, come quello della dottoressa o dell’insegnate, coerenti con l’aspettativa sociale che associa cura e femminilità. Inoltre, in entrambi i casi i lavori futuri si esercitano quasi sempre nel settore pubblico che più facilmente permette di conciliare gli impegni familiari con l’attività lavorativa.

Ma perché, allora, contrariamente a quanto sta accadendo in ambito medico, l’accademia e la ricerca faticano a femminilizzarsi? Nella lunga fase di precarietà che segue il dottorato, pesano numerosi vincoli che producono il cosiddetto “tubo che perde”, cioè il progressivo abbandono della carriera accademica da parte delle donne. L’estrema precarietà che dura fra i 10 e i 15 anni in una fase del ciclo di vita particolarmente delicata è sicuramente una delle principali cause di abbandono della carriera accademica (e talvolta dell’abbandono dell’Italia) da parte delle donne che si somma, però, anche ad altri fattori. Tra questi pesano il modo in cui si “misura” il merito che è tutt’altro che neutrale rispetto al genere, i modelli lavorativi intensivi e iper competitivi, la minore visibilità delle ricercatrici (il cosiddetto effetto Matilda), la delegittimazione dei risultati ottenuti dalle donne.

La storia di Rita Levi Montalcini è emblematica del funzionamento del sistema accademico italiano, avendo lei dedicato la sua intera vita alla ricerca e, dopo aver ricevuto un’ottima formazione in Italia, costruito la sua carriera all’estero

Certo, alcuni di questi aspetti non sono una novità. La stessa Rita Levi Montalcini fu oggetto, nel 1994, di illazioni – infondate – circa l’aver “comprato” il proprio Nobel. Inoltre, la sua storia è per certi versi emblematica del funzionamento del sistema accademico italiano, avendo lei dedicato la sua intera vita alla ricerca e, dopo aver ricevuto un’ottima formazione in Italia, costruito la sua carriera all’estero.

Questa ricorrenza, dunque, deve essere un’occasione per riflettere su quali sono le condizioni strutturali e culturali, presenti e future, perché una donna possa affermarsi nella scienza e ottenere premi così prestigiosi. Sarebbe il miglior modo per rendere giustizia alla storia, alla memoria e all’impegno di una scienziata come Rita Levi Montalcini e forse per smettere di aver bisogno di (essere) eroi/ne per raggiungere certi traguardi.