Nel leggere Il modello Cina: meritocrazia politica e limiti della democrazia si ha l'impressione di trovarsi in una stanza degli specchi. Ci si scontra, storditi, contro l'idea di politica che vorremmo vedere realizzata, contro le sue attuali deformità e le sue alternative. L'autore è Daniel A. Bell, sociologo canadese, direttore della School of Political Science and Public Administration della Shandong University e professore di Filosofia alla Tsinghua University. Pubblicato nel 2015, il libro attira grande attenzione: Bell difende l'idea di meritocrazia politica, da lui definita «l'idea che il potere politico dovrebbe essere distribuito secondo le abilità e le virtù». Due sono i suoi obiettivi principali: «desacralizzare» la democrazia e promuovere l'idea che la natura meritocratica del sistema politico cinese potrebbe migliorare senza ricorrere al suffragio universale.

Dipingendo un contesto molto poco rassicurante delle attuali democrazie e proiettandosi verso il futuro, Bell rende la sua analisi una provocazione per il lettore democratico. L'incertezza del domani preoccupa tutti noi, in particolar modo nella crisi sociale generata dalla pandemia di Covid-19, che ha acuito la mancanza di solidarietà e di senso di comunità, la paralisi e l'incoerenza nelle scelte, oltre alle difficoltà economiche e sociali delle nostre democrazie. Specie nel contesto italiano, la classe politica ha creato nel tempo una ferita di sfiducia difficile da colmare. Esistono il bisogno di avere di nuovo fiducia nel sistema e la paura che alcuni meccanismi non funzionino in modo efficace: Il Modello Cina può essere un'occasione per ripensare a ciò che davvero chiediamo alla politica.

Vengono presentati i quattro difetti delle democrazie, chiamate tirannidi, della maggioranza, della minoranza, della comunità degli elettori e degli individualisti competitivi, cui segue l'analisi delle qualità necessarie alla classe dirigente. Si affrontano poi i problemi relativi alle meritocrazie politiche, come la corruzione e la chiusura delle élite, per giungere alla proposta della coniugazione tra meritocrazia e democrazia in senso verticale: democrazia locale, sperimentazione delle politiche e meritocrazia pura ai vertici.

Il desiderio di Bell è mostrare gli aspetti positivi della Cina di oggi e poter contribuire a migliorare la Cina di domani. Non c'è un tentativo di convincere ad abbandonare il suffragio universale. È in questa logica che alla fine del primo capitolo viene richiesto di fermarsi al «fanatico» della democrazia ed è con sincera curiosità che si prosegue nella lettura. Da un lato, il libro vuole presentare il modello cinese senza pretese di universalizzazione, dall'altro, Bell auspica che la Cina diventi ambasciatrice della meritocrazia nel mondo. È a partire da questa ambiguità che nascono alcune tensioni. Bell afferma che le democrazie dovrebbero imparare dalle meritocrazie e cede a giudizi di valore confondendo i due obiettivi posti all'inizio del percorso. Descrive la democrazia come un «sistema politico disfunzionale che ostacola leader con buone intenzioni». E ancora, a proposito della possibilità di migliorare la classe politica «[…] la Cina ha un chiaro vantaggio sulle democrazie elettorali, che lasciano tutto ai capricci della gente svincolata dalle lezioni della filosofia, della storia e delle scienze sociali». Implicitamente, quindi, e a volte neanche troppo, l'autore sta cercando di convincerci che le democrazie non possono migliorare, mentre i sistemi meritocratici sì.

Al termine del primo capitolo il lettore democratico si potrebbe sentire senza speranza: la maggioranza degli elettori è disinformata e soggetta a bias cognitivi; l'enorme divario economico rende molto difficile la mobilità sociale; gli elettori condizionano la vita di chi non può votare, come le generazioni future e gli stranieri. Infine, la democrazia è basata sulla competizione e sul confronto spesso talmente ostile da diventare puro conflitto. È problematico il caso delle generazioni future in relazione al cambiamento climatico, che secondo Bell le meritocrazie potrebbero gestire in modo più efficace e più a lungo termine rispetto ai nostri governi in continuo cambiamento.

Di particolare interesse è il caso della tirannide degli individualisti competitivi. Per Bell, la Cina avrebbe più opportunità di agire per il bene comune perché più armoniosa a livello sociale. È difficile immaginare che cosa sia davvero l'armonia sociale, quando le idee divergenti vengono sopite prima ancora che possano generare un confronto. Inoltre, non viene presa in considerazione l'idea di addestrarci a un uso diverso delle parole in politica e di sfruttare metodi di dibattito sani (Lakoff, 2006).

Bell si dimostra anche scettico di fronte alla soluzione di istruire in senso civico e morale i cittadini (Nussbaum, 2011) arrivando ad affermare che «nulla impedisce ai politici di prendere la strada più breve verso la vittoria elettorale». Ma anche i politici che costituiranno l'élite dovrebbero essere parte del processo di educazione morale, e questo dovrebbe proprio portarli a ripensare le loro scelte politiche e i loro metodi. Lo scetticismo di Bell sembra qui una presa di posizione basata su una questione di principio.

Una delle tesi proposte è che la classe dirigente dovrebbe essere sopra la media relativamente a virtù, abilità sociali e intellettuali. Ai fini di escludere chi non possiede le qualità minime, l'autore propone di affidarsi alle scienze sociali per sviluppare sistemi di valutazione delle capacità intellettuali, e per quanto riguarda la virtù, un meccanismo di selezione trasparente dovrebbe affidare la scelta del leader per il 60%, e 20% a subordinati e superiori. Il quadro lascia perplessi, perché il bisogno di competenza non giustifica in modo così chiaro la costituzione di una gerarchia morale tra gli esseri umani, basata su criteri che possono rivelarsi fallibili, e che verrebbero stabiliti dalla élite.

Bell afferma che nella meritocrazia «il compito della politica è quello di individuare chi abbia abilità superiori alla media e fare in modo che siano loro a servire la comunità». L'impressione è che si cerchi di costituire una classe politica perfetta, che non può commettere errori di valutazione perché formata in modo eccellente. Come fa notare Sebastiano Maffettone nella prefazione all'edizione italiana, viene il dubbio che non sia solo l'efficienza ciò che chiediamo alla politica oggi. Forse, si è sovrapposta la frustrazione, frutto di una oggettiva mancanza di efficienza, alla perdita di fiducia nel senso di rappresentanza. Ma non è solo risolvendo i problemi tecnici che si può ricostituire il senso di comunità, e ancor più non è rinunciando alla libertà che le democrazie potrebbero risolvere le loro distorsioni.

Fondamentale per la proposta di Bell è l’idea che la Cina non debba aprirsi al multipartitismo. Afferma che «il bisogno di formare leader per diversi cicli elettorali significa che la meritocrazia è incompatibile con il governo multipartitico» perché nessun leader accetterebbe di formarsi per stare in carica per poco tempo. Inoltre «[...] è possibile (e desiderabile) ridurre in modo sostanziale tale divario [tra l'ideale e la realtà della meritocrazia politica] senza istituire una democrazia elettorale ai vertici». È per questo che conclude il libro affermando che il Pcc non è un partito ma «un'organizzazione pluralistica composta da membri scelti per meriti da diversi gruppi e classi, e punta a rappresentare l'intero Paese».

Questo mina l’idea stessa che la Cina sia già da ora o che possa diventare una meritocrazia politica. Se non si abbandona il partito unico, la scelta non sarà realmente tra i migliori, ma solo tra i migliori che si adeguino al partito, che ne accettino i fondamenti e si muovano entro i suoi confini. Allora il merito diventa ciò che viene stabilito dal partito. Lo stesso Bell sostiene che l’idea di merito è mutevole e in constante evoluzione, e propone di ampliare la libertà di parola e di confronto, oltre al fatto di includere in una «minoranza di posti» membri eccellenti non appartenenti al partito. Anche se si ampliasse la competizione interna e si lasciasse più libertà a organizzazioni esterne e al mondo dell'informazione, come viene proposto da Bell riferendosi alle attuali correnti riformiste cinesi, impedire a gruppi di persone di organizzarsi secondo le proprie idee e di confrontarsi a livello di dirigenza politica rende molto difficile modificare l'idea di merito prevalente.

I dubbi relativi all'analisi del contesto cinese sorgono perché lo schema argomentativo oscilla tra la ricerca della migliore soluzione per la Cina e la sensazione che si stia cercando di convincere della superiorità della meritocrazia. Il libro suscita però una riflessione sull'idea di merito in sé.  Che tipo di natura hanno le richieste di merito nel contesto occidentale? Perché questo concetto è quasi ogni giorno sui giornali? È solo un desiderio di efficienza? Esiste un merito utile alle democrazie che non sia ancora stato messo in atto?

Forse l'idea di merito dovrebbe essere ripensata per renderla compatibile con le nostre idee di eguaglianza e libertà, per non cadere nelle pericolose tendenze assolutiste e nella gerarchia morale tra gli esseri umani. Parlare di merito non è soltanto parlare di meritocrazia: potrebbe essere necessario rompere il legame tra merito e potere, spesso dato per scontato. Molto si potrebbe fare per ripristinare quel senso di comunità e di patto sociale che oggi manca, investendo parte dei nostri sforzi intellettuali su un'idea di merito che contribuisca al senso di solidarietà e non rappresenti solo l'efficienza. Investire sulla scuola, ripensare al ruolo dei partiti, a riformare la cultura nel senso del rispetto reciproco tra ruoli sociali diversi: la stanza degli specchi non diventerebbe allora un labirinto senza fine, ma un prezioso esercizio per ripensare il nostro futuro di democratici.