Il 10 febbraio 1961 venne abrogata una legge del 1939 intitolata “Provvedimenti contro l’urbanesimo” di contrasto all’immigrazione urbana. Con questa norma il fascismo aveva costruito intorno alle città italiane tante barriere burocratiche contro gli immigrati, ovviamente italiani: chi voleva iscriversi all’anagrafe municipale venendo da fuori – dalle campagne o da altre città – doveva dimostrare di avere un lavoro; per avere un lavoro era necessario registrarsi all’ufficio di collocamento, ma l’iscrizione era riservata ai soli residenti. I vantaggi che rispetto alle campagne potevano dare i contesti urbani (lavoro, servizi, sussidi) dovevano rimanere esclusivamente nelle mani degli abitanti “storici”, di chi vantava un maggior tempo di permanenza e quindi una certificazione nei registri di popolazione: sotto Mussolini non esistevano ancora gli slogan “Roma ai romani” o “Verona ai veronesi”, ma il criterio della restrizione dei diritti ai soli residenti e delle porte chiuse verso gli estranei – italianissimi – era stato tradotto in una normativa molto stringente.

Che il fascismo abbia tentato di contenere gli spostamenti all’interno della Penisola è un aspetto noto e in fondo comprensibile, coerente con la retorica ruralista e di “strapaese” del Ventennio. Ovviamente non riuscì nell’intento: le migrazioni interne non solo non furono fermate, ma aumentarono nel corso degli anni Trenta, con un’intensificazione dei flussi dal Meridione al Centro Nord (su questo ha scritto lavori fondamentali la storica Anna Treves).

Meno noto è il fatto che la legislazione vincolistica non scomparve con la caduta del fascismo. La Costituzione dichiarò il diritto dei cittadini italiani a spostarsi liberamente all’interno del Paese (art. 16), ma questo diritto rimase sulla carta. I primi governi repubblicani decisero che la legge contro l’urbanesimo doveva rimanere in vigore, anzi andava applicata con criteri estremamente rigidi, oltre il dettato normativo. La situazione sociale era in effetti molto delicata: in un Paese impoverito dal fascismo e dalla guerra, il rientro degli uomini e delle famiglie nei luoghi di origine rendeva più penosa la mancanza di lavoro. La ricostruzione aveva bisogno di tempi lunghi e l’emigrazione all’estero stentava a ripartire: la scelta da parte dello Stato fu quella di mantenere gli strumenti di controllo dei mercati del lavoro ereditati dal fascismo.

Così per tutti gli anni Cinquanta i comuni italiani continuarono (in alcuni casi iniziarono) ad avvalersi della legge 1092/1939 contro l’urbanesimo per impedire l’iscrizione anagrafica ai nuovi arrivati. I quali continuarono a spostarsi da una parte all’altra del Paese, seppur costretti a lunghi periodi di irregolarità amministrativa: continuavano a risultare cittadini di Enna o Battipaglia, anche se vivevano e lavoravano da anni a Torino o Firenze. Non avevano diritto all’assistenza, alla casa, neanche a un lavoro regolare. Negli anni della ricostruzione e del boom economico centinaia di migliaia di persone in Italia vissero come “clandestini in patria”, uomini e donne che lavoravano al nero nei cantieri o cucivano vestiti in casa. Per potersi regolarizzare, aggirando i vincoli normativi, bisognava avere l’appoggio del datore di lavoro o di una persona influente, oppure la compiacenza di qualche funzionario comunale.

Su questa situazione scrisse parole durissime l’allora presidente della Repubblica Luigi Einaudi, già nel 1953: «Le leggi limitatrici della mobilità del lavoro crescono nelle popolazioni l’avversione ed il disprezzo verso lo Stato. In un Paese nel quale il rispetto alla legge scritta è debole […] è naturale che gli immigrati illegali cerchino di sormontare le difficoltà e di ottenere i permessi di soggiorno e i libretti di lavoro con le raccomandazioni, con le mance, con la corruzione». Parole che oggi suonano di un’attualità sorprendente, ma che allora rimasero inascoltate: almeno fino alla fine degli anni Cinquanta né i partiti né i sindacati si impegnarono in una battaglia per l’abrogazione della legge contro l’urbanesimo.

La situazione aveva ormai raggiunto livelli allarmanti: le inchieste di Danilo Montaldi e Franco Alasia sulle coree milanesi, di Luigi Berlinguer e Piero della Seta sulle borgate romane, raccolsero le voci e le storie di cittadini che chiedevano solo di vedere riconosciuto uno stato di fatto da parte delle amministrazioni, ovvero il loro vivere e lavorare nel territorio comunale.

Nel 1958 un processo celebrato presso il tribunale di Roma contribuì a smuovere le acque. La vicenda merita di essere ricordata come la prima sentenza pilota sulle migrazioni della storia italiana. Giuseppe De Meo, ordinario di Statistica presso la Sapienza e futuro presidente dell’Istat, costruì un vero e proprio caso giudiziario: mise in contatto un brillante avvocato, Francesco Mazzei, protagonista nel 1956 della prima sentenza della Corte costituzionale insieme a giuristi del calibro di Calamandrei, Crisafulli o Mortati, con un disoccupato campano, tal Baldassare D’Avino di Somma Vesuviana. D’Avino abitava a Roma ma non riusciva a iscriversi all’anagrafe perché non aveva un lavoro; allo stesso tempo l’ufficio del lavoro gli rifiutava l’iscrizione nelle liste di collocamento perché non era residente. Con tutti i documenti in mano, l’avvocato Mazzei citò in giudizio il Comune di Roma e vinse: nel maggio 1958 una sentenza dichiarò illecito il diniego degli uffici di iscrivere all’anagrafe un cittadino che viveva stabilmente nel territorio comunale.

Da quel momento il dibattito si infiammò, dando forza a chi sosteneva l’abrogazione della legge contro l’urbanesimo. Il fronte si fece sempre più ampio e finalmente il 10 febbraio 1961, dopo anni di discussioni, la legge 1092/1939 venne abrogata. Nell’ultimo scambio parlamentare è possibile avvertire il timore sulle possibili conseguenze che l'abrogazione dei vincoli avrebbe portato. «Siamo in presenza di una legge rivoluzionaria rispetto all'organizzazione demografica del lavoro italiano: una rivoluzione con passaggi delicati che meriteranno di essere attentamente seguiti», disse il ministro del Lavoro Fiorentino Sullo.

Oggi questi timori suonano ridicoli, irreali. Il diritto dei cittadini italiani di risiedere ovunque vogliano all’interno della Penisola è ormai dato per scontato. Eppure all’inizio degli anni Sessanta, a pochi anni dall’inizio di una vera immigrazione straniera in Italia, non lo era. Negli ultimi decenni il nesso tra il possesso di un lavoro e il permesso di soggiorno ha riguardato milioni di cittadini non italiani, che sono stati costretti a passare attraverso la farsa del decreto flussi per potersi vedere riconosciuto il diritto a stare in Italia. Lo strumento anagrafico tuttavia continua ad essere utilizzato da parte delle amministrazioni comunali per tracciare nuovi e discrezionali confini di cittadinanza, come sta studiando da anni il sociologo Enrico Gargiulo. I conflitti e le mobilitazioni non sono mancati in questi ultimi anni, dai braccianti africani a Foggia ai bengalesi di Tor Pignattara. La partita rimane aperta, il discrimine tra inclusione ed esclusione nelle città continua a essere una delle cartine di tornasole dello stato della democrazia in Italia.