Negli ultimi mesi il tema della cosiddetta autonomia differenziata ha catalizzato l’attenzione dell’opinione pubblica, sia nelle regioni dell’Italia centro-settentrionale sia in quelle centro-meridionali. Uno degli aspetti che è stato maggiormente oggetto di discussione è l’impatto che il processo di autonomia avrebbe sul sistema nazionale di istruzione. Un tema delicatissimo, che ha incrinato a volte profondamente gli equilibri interni all’esecutivo.

L’intera questione rappresenta un elemento decisivo per la legittimazione delle forze di governo, che in occasione della campagna elettorale delle ultime elezioni politiche hanno proposto in modo molto marcato un approccio fortemente territorializzato – e spesso contraddittorio – rispetto al tema delle politiche scolastiche. La comune opposizione alla Buona Scuola, che ha avvicinato Lega e Movimento 5 Stelle prima del contratto di governo, non è riuscita a nascondere i diversi approcci di soggetti politici che vedono il problema dai capi opposti della Penisola.

Il dibattito degli ultimi mesi si è spesso soffermato sulle questioni legate ai contenuti dell’insegnamento: la storia e la cultura regionale, la riscoperta dei dialetti, il legame con le specificità economiche del territorio, la valorizzazione delle identità locali. A ben guardare però il tema che ha maggiormente acceso il confronto è il reclutamento del corpo docente, partendo dalle modalità di accesso per arrivare alle regole e alla strutturazione di sistemi diversi da quelli fino a oggi sperimentati.

Quando si parla di scuola – e soprattutto quando si parla di scuola e territorio – viene spesso messa in secondo piano una delle caratteristiche più importanti: la scuola italiana è un gigantesco datore di lavoro. Dopo la previdenza, l’istruzione scolastica è la maggiore spesa sociale erogata dall’amministrazione centrale (circa 46 miliardi di euro nei bilanci degli ultimi anni), ma a differenza della previdenza si traduce quasi interamente in stipendi. Il Miur si ritrova ad essere di conseguenza il dicastero più importante per il denaro versato in redditi da lavoro dipendente: 43 miliardi, praticamente tutti assorbiti dall’istruzione scolastica. Dopo il Miur, a grande distanza, troviamo il ministero della Difesa e quello dell’Economia, con 17 miliardi circa ciascuno.

È evidente dunque l’enormità della posta in gioco: manovrare a livello regionale un comparto fondamentale dell’impiego pubblico, che occupa oggi sul territorio nazionale circa un milione di addetti, tra personale docente e Ata. Il costituzionalista Massimo Villone ha quantificato in «decine di migliaia di docenti e 8 o 10 miliardi in più» la «succulenta polpetta» su cui in particolare i due governatori regionali più nettamente autonomisti, Zaia e Fontana, vorrebbero mettere le mani.

In tempo di crisi la questione dell’occupazione diventa decisiva e la scuola, prima fabbrica di posti di lavoro del Paese, ne è stata investita in pieno. Negli ultimi anni questa caratteristica è balzata agli onori delle cronache soprattutto per due ragioni, tipiche di ogni mercato del lavoro: la ridefinizione delle forme di collocamento e la mobilità territoriale. Rispetto al reclutamento e al collocamento si sono continuamente intrecciati livelli sempre più articolati che hanno finito per rendere estremamente confuso e contraddittorio l’intero sistema. I canali di ingresso in ruolo sono molteplici, riconducibili a tre logiche differenti (concorsi pubblici, immissioni dalle graduatorie, corsi abilitanti) che si trovano spesso incrociate o sovrapposte. Rispetto alla mobilità, soprattutto a partire dall’applicazione della legge 107 del 2015 che da un giorno all’altro ha costretto circa 18.000 docenti al trasferimento dal Sud al Centro Nord, è diventato sempre più evidente come il lavoro nella scuola rispecchi in modo particolarmente marcato le disparità territoriali presenti in Italia.

Gli insegnanti rappresentano un segmento importante della mobilità dotato di media e alta qualificazione e formazione. Si tratta di personale come minimo diplomato, molto spesso laureato e sovente anche in possesso di dottorato di ricerca e altri titoli di specializzazione post laurea. Questo segmento qualificato si trova però a ripercorrere dal punto di vista migratorio le rotte che hanno percorso e continuano a percorrere lavoratori e lavoratrici in cerca di occupazione o di migliore occupazione che non presentano un profilo altrettanto qualificato. Allo stesso tempo, gli insegnanti sperimentano nella loro esperienza migratoria forme di segregazione residenziale, reazioni di stampo discriminatorio, difficoltà nell’accesso al lavoro, ritardi nel pagamento del salario, vischiosità, insicurezza e precarizzazione delle condizioni di lavoro e di avviamento al lavoro. Si tratta di problemi che solitamente non vengono associati ai percorsi di mobilità qualificata o altamente qualificata.

Le differenze che esistono tra regione e regione in fatto di scuola (dal tempo prolungato alla valutazione del rendimento, dall’accesso ai finanziamenti europei alla dispersione scolastica, solo per citarne alcune) sono tutto sommato mitigate da un sistema che mantiene una sua compattezza e omogeneità a livello nazionale. Le migrazioni degli insegnanti ci dimostrano che le vere differenze tra i territori italiani esistono più al di fuori della scuola che al suo interno: è in rapporto ai livelli socio-economici complessivi delle diverse realtà che il sistema scolastico assume sembianze differenti a seconda dei luoghi. Ecco quindi che il docente meridionale si muove al Nord non tanto perché le scuole del suo territorio siano peggiori, ma per la situazione del mercato del lavoro.

Se la mobilità gioca quindi un ruolo strutturale, ciò è dovuto proprio alla dialettica tra un sistema di norme unico a livello nazionale e profondi divari socioeconomici a livello regionale. È l’esistenza di una cornice legale e contrattuale unica che permette a molti docenti meridionali di lavorare alcuni anni come emigranti per poi avere la possibilità del ritorno a casa. In una prima fase del percorso professionale degli insegnanti precari la salita al Nord può ricordare quella della grande migrazione interna degli anni Cinquanta e Sessanta, ma in seguito la tanto aspirata stabilizzazione consente al docente di ruolo ciò che era precluso agli operai meridionali: ottenere un posto di lavoro – lo stesso posto di lavoro – nel paese di origine.

Se la scuola è davvero anche un grande mercato del lavoro sembra che numerosi attori pubblici e privati muoiano dalla voglia di entrarci. La prima occasione per operare in questa direzione - e quindi avviare un processo di frantumazione di questo mercato del lavoro - è la strada della regionalizzazione. Colpendo un sistema di norme faticosamente conquistate su base nazionale, il progetto di regionalizzazione intende attaccarne la dimensione universalista. Intervenendo a gamba tesa sul reclutamento e provando a limitare la circolarità degli insegnanti, consentendo stipendi, orari e norme contrattuali differenti su base regionale, l’autonomia differenziata prova a modificare in un colpo solo ciò che finora era stato impossibile da intaccare, nonostante numerosi tentativi: la presenza di un sistema di istruzione capace di garantire ovunque le stesse condizioni di lavoro per chi vi è impiegato e la medesima offerta formativa per chi vi è iscritto.

La posta in gioco è quindi altissima e non si esaurirà con l’attuale congiuntura politica, quali che siano le decisioni finali governative. Nel prossimo mese di settembre, ad esempio, quando le scuole riapriranno, esploderà in modo ancora più forte del passato la questione delle supplenze e delle carenze di organico, proprio a causa delle enormi disfunzioni del sistema di reclutamento. Ancora una volta, sarà una ghiotta occasione da cavalcare per i detrattori del modello nazionale di scuola pubblica e i fautori delle differenze salariali nel pubblico impiego.