I democratici americani, il clintonismo e la Terza Via. Nello spazio politico e intellettuale transatlantico di impronta progressista ferve il dibattito sulla “Terza Via”,  quel fascio di politiche e principi multilateralisti che la tradizione socialdemocratica e liberal-progressista ha abbracciato in risposta all’insorgenza neoconservatrice degli anni Ottanta, e che ha raggiunto notevoli successi elettorali dal decennio successivo in poi, con leader come Bill Clinton, Gerhard Schroeder, Tony Blair, François Hollande e Matteo Renzi. Tuttavia l’insorgenza americana del neo-nazionalismo populista viene imputata da autorevoli critici, come il filosofo e politico americano Michael Walzer, anche agli squilibrati risultati socio-economici della “Terza Via”.

La versione americana di questa controversia si concentra sui risultati del clintonismo, delle presidenze di Bill Clinton (1993-2001) e di Barack Obama (2009-2017), che pur muovendosi in contesti socio-economici diversissimi – la grande espansione degli anni Novanta il primo, la depressione dal 2008 il secondo – si sono indirizzati verso una stessa visione e uno stesso programma politico. La vittoria inattesa del populista Trump alle presidenziali del 2016 denuncerebbe, dunque, gli errori del clintonismo.

Il suo cuore politico è il liberalismo post-welfarista, elaborato fin dagli anni Ottanta dai cosiddetti New democrats in risposta all’insorgere del neoliberismo conservatore e alle sue vittorie elettorali. La narrazione clintoniana sottolineava la novità di idee politiche adatte al XXI secolo, alla società digitale e tecnologica, ai nuovi protagonisti sociali, all’economia della conoscenza – al di là del liberalismo newdealista superato da tempo. Il compito del governo era passare da uno Stato protettivo a uno incentivante delle opportunità; liberare il dispiegarsi del mercato; diminuire gli interventi e le burocrazie del governo; tagliare le tasse e ridurre il Welfare. L’aumento delle opportunità per cittadini operosi e responsabili sarebbe stato il risultato della globalizzazione liberista, destinata a valorizzare il ruolo dell’America nel mondo e la leadership delle sue imprese a tecnologia avanzata. Il governo promosse un’ampia deregolamentazione, soprattutto, ma non solo, nel settore finanziario, e sottolineò le responsabilità personali invece che i diritti nelle politiche sociali e ridusse i sussidi ai poveri, insistendo sul principio di attivazione al lavoro. Prendeva così corpo il nuovo “centrismo democratico” contiguo a quello della “Terza Via” europeo.

Clinton promosse queste politiche con successo. Fu il primo presidente democratico rieletto dal tempo di Roosevelt grazie sia alla sua brillante leadership, sia alla grande espansione avvenuta negli anni Novanta. La crescita oscurò la polarizzazione economica del centrismo clintoniano, con profitti industriali e finanziari in netta espansione; con stipendi di manager e lavoratori specializzati in crescita, mentre nelle zone di manifattura tradizionale e nelle ampie fasce basse di lavoratori i redditi e i salari arretravano o erano stagnanti. Il cosiddetto “autogoverno del business”, largamente presente nella “Terza Via” all’americana, mostrava il suo insuccesso con il drammatico crollo del 2008.

Obama si è quindi trovato di fronte a un paesaggio politico tutto diverso e, giunto al potere in tempi di crisi, ha rinverdito la formula keynesiana della spesa pubblica. Ma, seguendo logiche clintoniane, ha affidato a uomini di Wall Street la fondamentale politica economica, mostrando che il malloppo pubblico veniva soprattutto dedicato al salvataggio di banche ed enti finanziari, piuttosto che al sostegno di proprietari di case espropriati.

Nel suo Era Obama (Feltrinelli, 2017), Mario Del Pero, fine lettore europeo delle vicende pubbliche americane, vede nel terreno socio-economico – con una disoccupazione in calo ma una notevole riduzione della popolazione attiva, limitati incrementi di reddito per gli strati più bisognosi e scarso contenimento della diseguaglianza – i punti più incerti del governo Obama, insieme all’eccesso di pragmatismo tecnocratico e alla prolungata, immobilizzante ricerca di un consenso bipartitico che non è mai arrivato. In un recente dibattito sulla sua eredità, l’autorevole intellettuale pubblico Samuel Moyn ha contrapposto gli entusiasmi suscitati dalla sua elezione nel 2008 a quelli per Bernie Sanders nel 2016. I primi, più ampi ma più illusori, hanno creduto di portare con sé tutto il Paese sulla via del cambiamento; più concreti i secondi, consapevoli che le conquiste si ottengono solo con la lotta politica e il conflitto degli interessi. L’elezione dell’“impossibile” Trump che succede a Obama e l’avanzato smantellamento della sua eredità sono indicati spesso come la cartina di tornasole dei limiti del clintonismo.

Come si è evoluto il Partito dopo la sconfitta devastante del 2016? Malgrado la visibilità data alla sinistra democratica dal disastro di Hillary, e l’entusiasmante insorgere di una nuova, più radicale, generazione di attivisti democratici, spesso donne, giovani e membri di minoranze etniche, il Partito è saldamente in mano a una leadership favorevole a quella moderate majority che scaturisce dall’eredità clintoniana. I recenti risultati di elezioni primarie e supplementari sono contraddittori nel mostrare le potenzialità elettorali di tradizionali o nuovi democratici. I dirigenti sono orientati a calibrare il colore dei candidati al grado di progressismo o tradizionalismo percepito nell’elettorato, specialmente quello democratico, di ogni Stato. Pare di capire che, in vista delle prossime elezioni intermedie, il Partito preferisca piuttosto perdere qualche altro voto “proletario” a favore di ceti medi suburbani arrabbiati per le idiosincrasie e gli estremismi di Trump.

Ma in che direzione si muove il pensiero post, e filo, clintoniano? I think tanks che negli anni Novanta hanno collaborato con il presidente si pongono ancora oggi in continuità con la tesi della moderate majority, e semmai cercano di tenere conto della sconfitta di Hillary. Tra questi la Third Way Foundation, emersa nel 2005 da personale politico clintoniano, che ha assorbito precedenti iniziative dello stesso colore. I suoi documenti abbandonano ogni enfatizzazione della “società arcobaleno” e del “politically correct” multietnico. Abbracciano invece l’idea di un popolo americano unico, e insistono che i democratici si ricolleghino al mainstream degli elettori “di mezzo” (un concetto che sa molto di “bianco”) e ai valori considerati tipici della americanità.

La forza rivendicata da questi “opportunity democrats” (un linguaggio nettamente clintoniano), rispetto ai progressisti della sinistra del Partito, sono i successi elettorali dell’era Clinton-Obama da rinnovare alle presidenziali del 2020. Per questo i loro studi programmatici sono spesso condotti come analisi di opinione piuttosto che come valutazioni di merito delle singole misure. Questa è la chiave adottata dall’importante report The Political Case for Becoming Opportunity Democrats, pubblicato il 25 luglio scorso e volto a dimostrare il maggiore appeal elettorale delle proposte dei democratici centristi rispetto sia all’egualitarismo filo-governativo di Bernie Sanders, sia al nazionalismo estremista di Donald Trump. I due sono spesso dipinti come accomunati specularmente nella critica alla cultura democratica prevalente, vista come centrale nell’identità nazionale americana. Meglio, quindi, incrementi regionali del salario minimo a seconda delle condizioni locali rispetto alla proposta della sinistra di un aumento nazionale a 15 dollari; meglio il sostegno all’attuale programma “Obamacare” che un’unica tutela nazionale pubblica della salute; meglio cancellare tutte le tasse federali annuali per i primi 15.000 dollari di reddito, che abbracciare la proposta di università gratuita per tutti gli americani.

La conclusione della Fondazione è che il potenziale elettorato democratico e indipendente è più favorevole a una opportunity agenda, sostenuta magari da un ampio programma di apprendistato, che alle misure federali necessarie per ridurre la crescente diseguaglianza. Questa prospettiva e molte di queste idee si ritrovano nel programma economico del Partito democratico intitolato A Better Deal e reso pubblico nel luglio 2017.

Questa chiave programmatica inoltre si è incontrata con il rilancio del globalismo economico ribadito nei suoi successi mondiali dal recente Global Business Forum, organizzato a New York dall’ex sindaco Michael Bloomberg, il più illustre dei cosiddetti “repubblicani senza casa”, anti-Trump e potenziale (ma improbabile) candidato presidenziale democratico nel 2020, dove Bill Clinton, accanto a leader politici ed economici mondiali, ha svolto un ruolo di assoluto primo piano.

È una prospettiva sufficiente a fondare un revival democratico all’interno, e a contrastare con successo l’ondata populista internazionale?