Le educatrici di un centro estivo alle porte di Bologna, che accoglie bambini e bambine dai 2 ai 5 anni, decidono di dedicare un’attività educativa alle differenze di orientamento sessuale e di modelli famigliari. Lo spunto è il Gay Pride, che si svolgerà in città di lì a qualche giorno, ma l’attività si inserisce in uno degli assi che orienta la progettazione pedagogica della Cooperativa Dolce, che gestisce il nido: le diversità. A bambini e bambine viene proposto di giocare con i colori per disegnare arcobaleni e vengono letti due albi illustrati sulla diversità famigliare – Piccolo uovo e Buongiorno postino – che fanno parte stabilmente della biblioteca del servizio. L’attività, come le tante altre che vengono organizzate nel corso della giornata, viene restituita ai genitori nel “diario di bordo”, dei cartelloni che raccontano agli adulti le attività svolte durante le giornate al centro estivo.

Questi i fatti, cui sono seguite le immancabili polemiche, partite da un consigliere della Lista Civica del comune di Casalecchio di Reno, passate per la Curia bolognese, sono arrivate fino al ministro per le Politiche della famiglia, Lorenzo Fontana. Il risultato ad oggi è che la cooperativa ha avviato un’istruttoria interna per verificare i fatti e le eventuali responsabilità (nonostante fortunatamente pare non ci siano sanzioni all’orizzonte per le lavoratrici coinvolte) e imperversa un dibattito sull’opportunità o meno dell’operato delle educatrici. Due mi pare siano i nodi al centro di questo dibattito su cui vale la pena di riflettere.

Il primo riguarda la legittimità nei contesti educativi per la prima infanzia di nominare l’esperienza gay, lesbica e trans. Tanto chi ha attaccato le attività svolte dalle educatrici, quanto chi ha cercato timidamente di difenderne l’operato finiscono per concordare sul fatto che bambini e bambine di quella fascia d’età siano troppo piccoli per affrontare temi così sensibili. Il termine sensibile, che evoca il presunto turbamento di bambini e bambine al sapere che al mondo esistono persone non eterosessuali e che queste stesse persone fanno famiglia, cela di fatto il permanere di una profonda e strutturale omofobia: l’omosessualità resta un tema sensibile perché da una parte della società viene ancora considerata una forma di devianza dalla norma eterosessuale e non una delle declinazioni possibili dell’identità sessuale, perché suscita ancora oggi disgusto o diffidenza e, non in ultimo, perché permane l’idea che nominarne l’esistenza tra bambini e bambine possa “promuoverla” come fosse un brand o, peggio, una malattia.

Le polemiche che si sono scatenate attorno alla lettura di un albo e ad un arcobaleno di tempera, non raccontano di quanto l’omosessualità e l’omogenitorialità siano temi sensibili nella prima infanzia, ma di quanta strada ci sia ancora da fare per decostruire i presupposti omofobici su cui si articola il mondo degli adulti. Ed è proprio per contrastare l’omofobia e per costruire una società in cui tutti gli orientamenti sessuali e tutte le famiglie abbiano la medesima cittadinanza che è cruciale che sin dai servizi della prima infanzia bambini e bambine possano entrare a contatto con queste esperienze e inserirle nel loro repertorio di riferimenti sociali e simbolici. Chiaramente con strumenti adeguati all’età come le storie, il gioco, i colori. Proprio come hanno fatto le educatrici al centro delle polemiche.

Il secondo nodo riguarda la relazione con le famiglie. Cavallo di battaglia di chi ha criticato l’iniziativa è che i genitori non ne fossero stati informati e che il loro parere non sia stato preso in considerazione nella decisione di affrontare il tema dell’omosessualità e delle diversità famigliari. Questa declinazione del rapporto tra scuola e famiglie, però, è problematica per almeno due ordini di ragioni. In primo luogo poiché presuppone che questioni come l’identità, la sessualità, le differenze e gli stereotipi siano fatti privati che non devono essere oggetto di azione educativa, ma che rientrano esclusivamente negli ambiti dell’educazione famigliare. In secondo luogo poiché, proprio in virtù di questo, essa invoca la subordinazione dei contesti educativi e scolastici alle impostazioni valoriali delle famiglie ovvero la possibilità dei genitori di dare o negare il proprio consenso alla realizzazione di attività educative su genere, orientamento sessuale e identità.

Costruire un’alleanza tra scuola e famiglie condividendo lessico, pratiche e obiettivi è molto importante, ma è possibile solo sulla base di una relazione di reciprocità, riconoscimento e laicità. Non può essere costruita né sulla subordinazione della progettazione educativa ai valori della famiglia né, tanto meno, sulla prepotenza della visione di una parte di genitori sugli altri molteplici modi di stare al mondo.

 

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