L’Unione europea è pronta ad avviare una nuova procedura d’infrazione nei confronti dell’Italia. Non è l’ennesimo rimbrotto sul rischio tenuta dei nostri conti pubblici, o una nuova richiesta di procedere più speditamente con le tanto invocate riforme. Più semplicemente, ma forse anche più drammaticamente, è il richiamo al rispetto delle regole comunitarie per quanto riguarda i valori degli inquinanti nell’aria. O, più precisamente, il richiamo alla messa in atto di misure per contenere tali valori nei limiti.

Piccolo riepilogo. L’Italia – in particolare con il primato non invidiabile della Pianura Padana, grazie alle sue nebbie basse e alla mancanza di correnti d’aria – spicca sulle carte mondiali per concentrazione di biossido di azoto (NO2), particolato (PM10, PM25), ozono (O3), benzene (C6H6). Se ne occupano varie istituzioni. Tra queste la Nasa, che ricorrendo a nuove mappe satellitari ad alta risoluzione è in grado di misurare i livelli di inquinamento della Terra ottenendo visualizzazioni anche su singole città. Studi sempre più sofisticati sono poi quelli effettuati dall’Organizzazione mondiale della sanità, che recentemente ha prodotto mappe particolarmente precise sui livelli di inquinamento divisi per aree. In questo modo, ora disponiamo di una bella (si fa per dire) mappa interattiva che ci fornisce immediatamente l’idea di quanto siamo esposti a rischi seri per la nostra salute. Per comodità, selezioniamone una parte e prendiamo – perché abbiamo anche noi il nostro bravo istinto di conservazione della specie, non per altro – quella relativa al Nord Italia. Non è un bel vedere. 

Di tutto ciò di parla molto poco, di solito solo quando lo «sforamento» dei limiti imposti per legge avviene per più giorni consecutivi. Altrimenti la questione è pressoché ignorata. Come si vede, è proprio la Pianura Padana a raggiungere livelli record: nella mappa sono le zone colorate di rosso, lo stesso colore che copre la Cina e l’India. In Europa, parte della Romania e della Serbia.

La Commissione europea, come detto, nei giorni scorsi ha dato il via alla seconda fase della procedura d’infrazione contro l’Italia – ma anche nei confronti di Germania, Francia, Spagna e Gran Bretagna - per l’inquinamento da biossido d’azoto. Nelle motivazioni, la Commissione contesta la violazione della direttiva Ue del 2008 perché non sono state affrontate «le ripetute violazioni dei limiti di inquinamento dell’aria per il biossido di azoto. La maggior parte delle emissioni provengono dal traffico stradale», in particolare dai motori diesel. Il prossimo passo sarà il deferimento degli Stati coinvolti alla Corte di giustizia dell’Unione europea.

Nella nota di Bruxelles si sottolinea che ogni anno più di 400.000 cittadini muoiono in Europa a causa della pessima qualità dell’aria. Milioni di persone, inoltre, soffrono di malattie cardiovascolari e respiratorie causate dall’inquinamento atmosferico. «Nel 2013 il persistere di elevati livelli di biossido di azoto ha causato tre volte il numero dei decessi provocati da incidenti stradali nello stesso anno». Per quanto riguarda l’Italia, la Commissione fa riferimento esplicito a 12 zone, tra le quali, di nuovo, spicca l’area padana.

Siamo proprio noi ad avere l’aria peggiore di tutta l’Europa occidentale, nessun angolo del nostro Paese può contare su zone «pulite», a differenza di altri Paesi europei che portano avanti da molti anni politiche forse difficili e impopolari ma sicuramente efficaci per contrastare il fenomeno.

Da noi questo non accade. Le misure sono sempre temporanee, tardive, comunque del tutto insufficienti.

Che tra i Paesi dell’Unione europea l’Italia sia quello con il più alto numero di morti premature rispetto alla normale aspettativa di vita a causa dell’inquinamento dell’aria si sa da tempo. Più volte l’Agenzia europea dell’ambiente (Aea) lo ha certificato: gli ultimi dati disponibili parlano di 84.400 decessi solo nel nostro Paese (si veda la tabella «Morti premature attribuibili all'esposizione a particolato sottile, ozono e biossido di azoto nel 2012 in 40 Paesi europei e nell’Ue-28»).

Come abbiamo visto le istituzioni scientifiche mettono a disposizioni dati, quelle politiche di controllo sovranazionale minacciano sanzioni. Intanto, in attesa di provvedimenti stringenti e obbligatori da parte dei governi nazionali, molto potrebbero fare i governi locali. Ma che cosa fanno, nella pratica quotidiana?

Vediamo in breve, tra i tanti possibili, il caso di Bologna.

La prima parte dell’anno ha fatto registrare dati pessimi, complice una situazione meteorologica straordinaria (ma alla quale, bene o male, saremo costretti poco alla volta ad abituarci). Sono stati sufficienti i primi 29 giorni di gennaio per ottenere 12 sforamenti dei 35 ammessi in un anno dalla legge (ad altri è andata ancora peggio). Il 5 febbraio il Comune è intervenuto resuscitando l’idea della domenica ecologica, che si è tradotta nello «stop alla circolazione per le seguenti categorie di veicoli: autoveicoli e veicoli commerciali a benzina Euro 0 ed Euro 1; autoveicoli e veicoli commerciali diesel Euro 0, Euro 1, Euro 2 ed Euro 3 (anche se dotati di filtro antiparticolato); ciclomotori e motocicli Euro 0». Nei fatti, una porzione assai limitata del parco di veicoli privati circolanti.

Quella domenica, in pieno periodo di saldi, il traffico in città non appariva diverso dal solito. Anche in centro storico. L’assessore alla Mobilità della città metropolitana, Marco Monesi, si è difeso dalle critiche rivoltegli dagli ambientalisti sostenendo che «Bologna fino a pochi giorni fa sembrava un’oasi felice [sic!], poi c’è stato un aggravamento della qualità dell’aria» e invocando «misure strutturali».

Le «limitazioni» al traffico non hanno contribuito certo a ridurre significativamente lo smog in città, che è invece precipitato grazie alla pioggia. A distanza di soli dieci giorni dalla domenica «ecologica», con un clima quasi primaverile e in assenza di vento, le concentrazioni di inquinanti, in particolare quelle di PM10, erano di nuovo oltre i limiti di legge

Nel frattempo si registra una certa rassegnazione tra le persone che, ogni giorno, vivono la città. Legambiente invoca maggiori investimenti nel trasporto pubblico, maggiori limitazioni nell’uso dei mezzi privati, l’implementazione del sistema ferroviario metropolitano. Parole utili, ma per ora inascoltate, a giudicare dall’inversione a «u» attuata da questa Giunta rispetto alla precedente in fatto di mobilità.

La città è preda del traffico privato, chi tenta una mobilità alternativa rischia ogni giorno di soccombere.

Ancora una volta, come tante altre nel corso dei decenni trascorsi dalle domeniche a piedi imposte dall’austerity nei primi anni Settanta, sembra mancare la volontà politica di fare una scelta semplice: quella tra imbrigliare il traffico privato e agevolare, con investimenti ma anche con scelte dal valore simbolico, il traffico pubblico. È una scelta politicamente difficile, ma inevitabile se si vuole andare oltre le buone intenzioni e, soprattutto, si intende modificare poco alla volta la mentalità dei cittadini riducendo i danni possibili (e quelli reali) alla loro salute.