Gli interventi di Sabino Cassese, di Alberto Baccini e di Antonio Banfi e Giuseppe De Nicolao in questo stesso numero (1/2013) hanno esaminato alcuni punti critici dei recenti interventi di riforma dell’università e della ricerca nel nostro Paese, specie per quel che riguarda il settore, di importanza cruciale, della valutazione. Cassese e Baccini, in particolare, segnalano aspetti della normativa entrata in vigore su cui sarebbe opportuno intervenire per correggere gli squilibri e i profili di irragionevolezza più evidenti. Difetti del disegno istituzionale che potrebbero – nel breve periodo – dar luogo a significativi problemi sul piano del reclutamento, e nel lungo periodo – generare gravi distorsioni nella distribuzione dei fondi e nel progresso della ricerca. Nel mio contributo a questa discussione, vorrei invece provare ad allargare un po’ lo sguardo per suggerire qualche spunto di riflessione sul contesto politico e sociale che fa da sfondo alla legislazione di cui si discute. Come ogni riforma, infatti, anche quella dell’università e della ricerca ha principi ispiratori che vanno portati alla luce per discuterne la forza e la coerenza sia sul piano normativo sia su quello fattuale. Prima di entrare nel merito della mia ricostruzione vorrei sgombrare il campo da un equivoco. Secondo un autorevole commentatore, nel nostro Paese, «data la maggiore influenza avuta dalla cultura marxista e la quasi assenza di una cultura liberale, si è protratta più a lungo, in una parte dell’opinione pubblica e della classe dirigente, la priorità data alla rivendicazione ideale, su basi di istanze etiche, rispetto alla rivendicazione pragmatica, fondata su ciò che può essere ottenuto, anche con durezza ma in modo sostenibile, cioè nel vincolo della competitività» (Mario Monti sul «Corriere della Sera», 2 gennaio 2011). Lasciando da parte la questione – forse di mero interesse filologico – che è almeno discutibile attribuire proprio al marxismo il prevalere di «istanze etiche» nell’azione politica, rimane un punto su cui è bene essere assolutamente chiari: criticare una riforma non è necessariamente sintomo di un’opposizione a qualsiasi riforma. La discussione vivace in corso sugli interventi in materia di università e ricerca non è animata soltanto da disfattisti, o nostalgici di uno sterile radicalismo, desiderosi di coltivare il proprio passatempo preferito. Chi ha sostenuto, senza ulteriore qualificazione, che i provvedimenti approvati quando il Miur era guidato da Mariastella Gelmini avrebbero avuto l’effetto di ridurre «l’handicap dell’Italia nel formare studenti» dovrebbe – alla luce degli argomenti di Cassese, Baccini, Banfi e De Nicolao – prendersi un momento per riflettere. Chi ne è politicamente responsabile dovrebbe risponderne all’opinione pubblica. Tener conto delle critiche argomentate è un principio irrinunciabile di etica pubblica per la classe dirigente di una società liberale. Criticare una riforma non significa opporsi a qualsiasi progetto di riforma Non è mia intenzione negare che il sistema dell’università e della ricerca del nostro Paese avesse bisogno di una messa a punto per correggere le inefficienze di iniquità che sono state rilevate dagli addetti ai lavori negli ultimi anni. Alcune delle quali, specie per quel che riguarda il reclutamento, sono state anche denunciate con grande rilievo da parte della stampa. Tuttavia, non credo che l’immagine prevalente dell’università e della ricerca in Italia sia realistica. Oltre alle analisi rigorose e alle denunce fondate, circolano diversi miti e leggende che andrebbero sfatati per avere una visione più equilibrata di un settore di cui nessuno, fino a ora, ha negato apertamente il ruolo essenziale per lo sviluppo economico e la fioritura civile del Paese. Anche per questo, ritengo sia opportuno mettere in prospettiva ciò che sta avvenendo negli ultimi mesi, ricostruendo il contesto in cui sono maturati alcuni degli interventi legislativi di cui si discute, e risalendo alle origini e ai modelli stranieri – di frequente vagamente richiamati e poco studiati – cui nominalmente si ispirano i difensori dell’attuale quadro normativo. Invocare le best practices è uno dei mantra favoriti degli adoratori del nuovo. Raramente si dedica il tempo necessario a chiarire come funzionano effettivamente le pratiche cui si rimanda e in che senso esse siano le «migliori» possibili. Un buon punto di partenza per la ricostruzione che vorrei proporre al lettore è il sito del Council for the Defence of British Universities. Nella pagina iniziale si può leggere una succinta presentazione delle critiche che i promotori di tale iniziativa rivolgono a una serie di misure che hanno «radicalmente alterato» il «carattere delle università britanniche» mettendone in pericolo la qualità (tuttora molto alta) e minacciandone in prospettiva la stessa sopravvivenza in quanto istituzioni dotate di una distintiva identità come luoghi deputati allo studio e all’insegnamento. Credo che una visita al sito del Cdbu sia istruttiva. In primo luogo, perché alcuni dei problemi segnalati dai promotori hanno la propria origine in politiche che vengono menzionate come esempi nel nostro Paese, anche se qui da no sono state attuate talvolta in modo dilettantesco, come segnala Alberto Baccini nel suo intervento. Quindi dell’esperienza britannica sarebbe stato opportuno tener conto, come impone una massima (trial and error) del riformismo fallibilista difeso da Karl Popper. In secondo luogo, perché il sistema dell’università e della ricerca nel Regno Unito, pur avendo una storia e una struttura istituzionale diverse dal nostro, è prevalentemente pubblico. Sin dall’istituzione dell’University Grant Commitee, nel 1919, esso dipende economicamente dal governo e dal Parlamento, e il suo sviluppo, a partire dal secondo dopoguerra, è stato in larga misura finanziato con fondi pubblici, in ossequio a un principio politico che a lungo non è stato messo in discussione esplicitamente dai diversi governi che hanno retto il Paese, sia conservatori sia laburisti. Se oltre la Manica si è rilevata una tensione tra la natura pubblica formalmente attribuita all’università e politiche simili a quelle in corso di implementazione in Italia, la cosa dovrebbe avere un certo interesse anche per noi.Non dimentichiamo che il sistema dell’università e della ricerca nel Regno Unito è prevalentemente pubblico Infine, perché una breve visita al sito, e in particolare una rapida scorsa alla lista dei nomi dei membri del comitato promotore e a quelli di numerosissimi studiosi, cittadini e politici che ne stanno sostenendo l’attività, rivelerebbe che il Cdbu non è una cellula di marxisti o un collettivo di precari in cerca di assunzione, ma un’impressionante raccolta di «stelle» del firmamento accademico internazionale, che ogni università del mondo vorrebbe avere nel proprio corpo docente. Alla campagna promossa dal Council for the Defence of British Universities contribuiscono studiosi di varie discipline e di diverse opinioni politiche, molti dei quali sarebbero stati un tempo considerati veri e propri «pillars of the establishment». Lasciamo per un momento la parola ai promotori del Cdbu: «Per decenni, le università del Regno Unito sono state legate da pratiche manageriali sempre più restrittive, appesantite da adempimenti amministrativi in continuo aumento, e spinte virtualmente fino al punto di rottura […] Pur essendo stati pianificati nei dettagli prima delle ultime elezioni, nessun mandato democratico è stato richiesto per mettere in atto questi cambiamenti radicali. Nonostante siano stati contrastati da proteste studentesche, devastati da critiche provenienti dagli studiosi, e siano privi di supporto in base alle più elementari analisi dell’evidenza empirica, tali cambiamenti vengono portati avanti incessantemente senza il beneficio di un dibattito parlamentare o di un pubblico scrutinio». Gli estensori del testo alludono verosimilmente agli esiti del Browne Review, voluto da Lord Mendelson nel 2009, ma è evidente che il processo che criticano è in corso da tempo. In particolare, bisogna ricordare che, a fronte di una notevole espansione del sistema universitario (sia per numero di studenti, a partire dagli anni Sessanta, sia per numero delle sedi, a partire dal 1992, con l’equiparazione dei Polytechnics) il finanziamento pubblico del sistema universitario britannico è diminuito dai primi anni Ottanta di pari passo con la progressiva erosione dell’autonomia delle università. Molti dei pericoli denunciati vent’anni fa da Conra Russell, un esponente del partito liberaldemocratico nella House of Lords, si sono materializzati (Academic Freedom, Routledge, 1993). Di recente, la minaccia posta alla stabilità e alla stessa sopravvivenza del sistema universitario britannico dall’effetto cumulativo di queste politiche restrittive, che godono di sostegno sia da parte di ambienti legati al New Labour di Tony Blair e Gordon Brown sia da parte dei conservatori di Cameron, è stata riassunta da Simon Head in poche parole: «le università britanniche, Oxford e Cambridge incluse, sono sotto assedio da parte di un sistema di controllo statale che sta erodendo la cosa da cui dipende la loro reputazione mondiale il calibro della loro scholarship».

Come siamo arrivati a questo punto? Ricordiamo brevemente i passaggi principali del processo in corso, procedendo a ritroso a partire dal rapporto steso dalla commissione presieduta da Lord Browne (che non è un accademico, ma un ex chief executive di Bp). Stefan Collini riassume in questo modo il punto centrale di tale documento (What Are Universities For?, Penguin, 2012, pp.178-179): «Essenzialmente, Browne sostiene che non dobbiamo più pensare alla higher education come la fornitura di un bene pubblico, che si articola attraverso il giudizio degli esperti del settore ed è largamente finanziata da fondi pubblici (sia pure negli ultimi anni integrati da un relativamente piccolo elemento di contributo pagato dagli utenti). Invece, dovremmo pensarla come un mercato regolato in modo leggero in cui la domanda del consumatore, nella forma delle scelte degli studenti, è sovrana nel determinare cosa viene offerto dai fornitori del servizio (ovvero le università)». Gli interventi auspicati da Lord Brown nel suo rapporto sono lo sviluppo conseguente di un processo di trasformazione radicale dell’università britannica inaugurato dai conservatori con l’Education Reform Act promosso da Kenneth Baker, Education Secretary del secondo governo Thatcher, nel 1988. Alla fine degli anni Ottanta, però, la domanda da parte dei consumatori veniva ritenuta ancora insufficiente per un’adeguata programmazione delle politiche nel campo della higher education. Per questo, la riforma voluta da Baker disponeva che le politiche pubbliche in materia di università fossero guidate anche dall’esigenza di «formare manodopera altamente qualificata, stimolata in parte dalle politiche sociali ed economiche del governo». Questi obiettivi sarebbero stati assicurati da un monitoraggio costante dei risultati della ricerca da cui sarebbe di pesa anche l’allocazione di parte dei fondi pubblici. Così nasce, tra l’altro, il Rae, ovvero il Research Assessment Exercise, che costituisce il modello, imperfettamente imitato, della nostra Vqr. Rispetto alle misure approvate dal governo Thatcher nel 1988, quelle proposte da Browne appaiono persino più radicali in quanto comportano la quasi completa soppressione del contributo pubblico alle spese ordinarie di gestione delle università. Head riassume così il nuovo modo di concepire l’università che si è affermato a partire dagli anni dei governi Thatcher: «per fornire un valore per chi paga le tasse, l’accademia deve consegnare la sua ricerca “prodotto” con una velocità e un’affidabilità che assomigli a quella del mondo dell’impresa privata, e inoltre consegnare ricerca che in qualche modo risulterà utile per i settori pubblico e privato della società britannica, rafforzando le prestazioni che il secondo ha nel mercato globale».

Una rete di controlli, che cresce di anno in anno, soffocando le università

Nulla a che fare, dunque, con la cultura, l’identità nazionale o il progresso della conoscenza. Le tradizionali giustificazioni del sistema universitario, e in particolare de contributo pubblico al suo finanziamento, sono per i sostenitori di questo nuovo modo di concepire l’istruzione superiore e il suo ruolo nient’altro che foglie di fico servite per decenni a mascherare il desiderio di una corporazione di continuare a preservare i propri privilegi. Da questa esigenza di rottura col passato nasce una burocrazia opprimente, il cui compito è «misurare» il prodotto delle università attraverso «Key Performance Indicators» (l’acronimo è Kpis) ispirati dai metodi impiegati nelle imprese private. Questa rete di controlli cresce di anno in anno stringendo progressivamente le università in una morsa che ormai rischia di soffocarle. Sempre più spesso accade – come denunciato da Martha Nussbaum nel suo Non per profitto. Perché le democrazie hanno bisogno del- la cultura umanistica (trad. it. Il Mulino, 2011) – che gli accademici britannici modulino i propri progetti di ricerca e le proprie pubblicazioni avendo in vista le scadenze delle valutazioni da cui dipende il finanziamento pubblico. Così facendo, essi si adeguano alle pressioni del management delle università che – avendo il dovere di far quadrare i conti – è interessato soprattutto a risultati di breve periodo e scoraggia lavori che richiedono un impegno di diversi anni. Lascio al lettore l’approfondimento dei documenti presenti sul sito del Cdbu, e della crescente letteratura che illustra nei dettagli come e perché questa idea della «ricerca come prodotto» abbia innescato distorsioni sempre più gravi, per concentrarmi su alcune considerazioni generali. Mi limito a osservare che di contributi come questi – e dei tanti altri che negli ultimi anni cominciano a mettere in discussione la follia di applicare meccanicamente modelli costruiti per misurare la produzione di merci e servizi alla ricerca – non si è parlato, e non si parla, granché nel nostro Paese. Nemmeno da parte di chi ha criticato i provvedimenti recentemente approvati. Eppure ci sarebbe stato molto da imparare da ciò che è accaduto, e che sta accadendo, nel Regno Unito (la situazione degli Stati Uniti, per diverse ragioni, è difficilmente comparabile a quella del nostro Paese). Oggi sarebbe comunque auspicabile riflettere attentamente su politiche di riforma dell’università salutate dal suono assordante della fanfara delle libertà e del merito, che stanno generando invece anche da noi un apparato burocratico di tipo sovietico. In effetti, c’è un aspetto singolare nel lento soffocamento del sistema di higher education del Regno Unito inaugurato dai conservatori a partire dagli anni Ottanta e sostanzialmente portato avanti dai laburisti e ora dal governo di coalizione. Le università che furono no sottoposte dai governi Thatcher a un regime così stringente di controllo pubblico, e a una burocrazia così asfissiante, non avevano risultati cattivi, non erano centri di spesa fuori controllo, e non erano affette da vistosi fenomeni di corruzione. Al contrario. Nel 1979, commentando le prime proposte di tagli che sarebbero poi state implementate da Geoffrey Howe nel periodo 1980-82 (5% all’anno in meno del loro budget complessivo in termini reali, il taglio più massiccio di tutto il settore pubblico), Ralf Dahrendorf scriveva che «le 45 università britanniche sono attraenti, efficienti, e poco costose» (Conservative Policy and the Universities, «LBR», vol. 1, n. 1, 1979, pp.16-17). Qualche anno dopo, e nonostante i tagli, lo stesso Dahrendorf ribadiva il proprio giudizio positivo: «fino a oggi, l’Inghilterra, o piuttosto gli inglesi, non hanno avuto uguali quanto a prestazioni di punta e primati, quanto a premi Nobel, per esempio, anche sui fronti più avanzati della ricerca» (Reisen nach innen und aussen. Aspekte der Zeit, Deutsche Verlags-Anstalt GmbH, 1984). Un giudizio confermato di recente da Tony Judt nelle sue memorie, in cui l’autore sottolinea gli standard alti e lo straordinario contributo alla mobilità sociale dato dalle università britanniche nel dopo-guerra (The Memory Chalet, William Heinemann, 2010, pp. 135-146). Ma, allora, perché tanto accanimento? Come è noto, tra la signora Thatcher e le università, in particolare Oxford, non correva buon sangue. La spiegazione di questa antipatia è da rintracciarsi nell’insofferenza del primo ministro nei confronti di istituzioni abituate a una quasi totale autonomia organizzativa, e a un atteggiamento di sovrano disprezzo nei confronti dei valori middle class cui la figlia del droghiere di Grantham si richiamava continuamente. Ciò che la Thatcher trovava in particolare difficile da sopportare era l’idea di intellettuali foraggiati con il denaro pubblico, rinchiusi nei chiostri dei college, che passano il proprio tempo a denigrare i «produttori di ricchezza» del Regno Unito. Un oltraggio cui la signora era decisa a metter fine, estirpando la mala pianta dell’arroganza accademica. Per realizzare questo scopo bisognava far passare un diverso modo di considerare l’università rispetto a quello tradizionale, di cui Oxford e Cambridge erano sia la manifestazione più importante sia le custodi più gelose. Non è quindi l’economia, ma piuttosto l’ideologia a spiegare politiche che segnarono un’inversione di tendenza non solo rispetto ai governi laburisti ma anche rispetto a quelli conservatori del Novecento.È nota la scarsa simpatia della signora Thatcher per le
università, in particolare per Oxford
Un’ideologia che, come è stato osservato da un commentatore niente affatto ostile al conservatorismo come Simon Jenkins, costituisce l’altra eredità del thatcherismo. In quella che Jenkins chiama la «seconda rivoluzione» della Thatcher risiede un paradosso di cui vediamo emergere le avvisaglie anche nei provvedimenti recentemente adottati nel nostro Paese. Nello stesso momento in cui si segnalano i benefici dell’autonomia e della libera iniziativa per la crescita economica, si sottopone un settore della società a una forma di controllo irragionevole, che appare difficilmente compatibile con il sereno svolgimento del proprio lavoro da parte di chi in tale settore dovrebbe operare (Thatcher & Sons, Penguin, 2007). L’esperienza britannica ci dice che gli esiti di questo modo di procedere sono almeno preoccupanti. Noi saremmo ancora in tempo a cambiare strada, facendo tesoro degli errori altrui, ma per farlo avremmo bisogno di una visione non ideologica dell’università e della ricerca. Che presti la dovuta attenzione alla natura di queste attività, alle relazioni complesse che essi hanno sia con la crescita economica sia con la fioritura civile di un Paese, al contributo che un sistema universitario pubblico può dare all’eguaglianza di opportunità e alla mobilità sociale. Solo se saremo capaci di questa inversione di prospettiva faremo della valutazione uno strumento utile per il bene comune.

[Questo articolo è stato pubblicato sul fascicolo 1/2013, ed è acquistabile qui in pdf]