L’ultima crisi economica di portata europea che ha preceduto quella innescata dall’emergenza Covid-19 – la cosiddetta “crisi del debito sovrano” del 2010-2012 – ha avuto in Europa pesanti ricadute sociali e politiche. Come è noto, le conseguenze avverse erano state più evidenti nei Paesi della cosiddetta “periferia” dell’Eurozona – come Italia, Spagna, Portogallo, Grecia, Irlanda – dove l’imposizione di condizionalità di policy legate alla ricezione di supporto fiscale e monetario avevano portato i governi ad implementare riforme spesso molto impopolari, introducendo misure di austerità e liberalizzazione dei sistemi di Welfare e della regolazione del mercato del lavoro.

Gli impatti diseguali tra i Paesi membri, esacerbati dalla governance economica dell’ultima crisi a livello europeo, avevano a loro volta contributo ad alimentare una narrazione, comune anche nel dibattito politico italiano, che sottolinea la divisione insormontabile di interessi tra i Paesi del Nord e del Sud all’interno dell’Eurozona. Questa contrapposizione è riemersa prepotentemente nelle recenti negoziazioni sulla risposta europea alla crisi del Covid-19, che hanno visto contrapposti i Paesi mediterranei a quelli del blocco dei cosiddetti Paesi “frugali”. Ma è proprio vero che gli interessi delle popolazioni dei Paesi del Nord e del Sud dentro all’Eurozona sono così fondamentalmente contrapposti? In realtà, se si adotta una prospettiva di classe piuttosto che una nazionale, il quadro che emerge è molto diverso.

I risultati di un nostro studio recentemente pubblicato sulla rivista di economia politica "Socio-Economic Review" evidenziano infatti come il quadro istituzionale di governance economica europea messo in piedi in seguito all’ultima crisi abbia conseguenze avverse per le classi lavoratrici e per le loro rappresentanze organizzate, cioè i movimenti sindacali, che trascendono le divisioni tra Sud e Nord Europa. Nei Paesi del Sud Europa, i sindacati sono stati chiaramente tra i grandi sconfitti dell’ultima crisi, avendo quasi del tutto perso la capacità di influenzare i processi di policy making. Ma questa perdita di potere e di influenza delle forze sindacali non è un fatto che riguarda solo i Paesi del Sud. Al contrario: la nostra ricerca evidenzia come anche sindacati di Paesi del Nord dell’Eurozona, quali Francia e Finlandia, abbiano perso negli ultimi anni potere ed influenza nei processi decisionali riguardanti le riforme del lavoro e del welfare, proprio a causa degli “effetti a catena” negativi innescati dalla logica di “svalutazione competitiva” che è insita nel sistema di governance economica europea.

Come funziona questo processo? La mancanza di strumenti di politica monetaria autonoma e i limiti sulla spesa pubblica hanno incentivato i Paesi dell’Eurozona a stimolare la crescita economica attraverso un abbassamento dei salari e dei prezzi. Il framework della nuova governance economica europea introdotto dopo la crisi dell’Eurozona, attraverso i suoi strumenti di sorveglianza sull’andamento dei salari e della spesa pubblica, ha poi intensificato queste pressioni, enfatizzando l’importanza per i Paesi membri di mantenere competitività di costi. Tali strumenti di sorveglianza hanno dunque spinto i governi a competere gli uni contro gli altri in materia di salari e di flessibilità del mercato del lavoro, così da mantenere maggiore competitività rispetto agli altri Stati membri: un processo che noi chiamiamo di “svalutazione interna competitiva”.

Anche i sindacati del Nord dell’Eurozona sono stati negativamente colpiti da queste pressioni per la svalutazione competitiva. I casi della Finlandia e della Francia sono assai rivelatori. Nel momento in cui, dal 2015 in poi, queste due economie hanno a loro volta subito un deterioramento della loro posizione di competitività relativa rispetto ad altri Paesi europei – Germania in primis – i loro governi hanno risposto con ricette molto simili a quelle implementate nel Sud Europa durante la crisi del debito sovrano, portando a una analoga perdita di influenza sui processi decisionali da parte dei sindacati. La posizione relativa dell’economia tedesca è stata centrale nel plasmare queste dinamiche, tanto che i costi del lavoro tedeschi sono diventati il valore di riferimento per i meccanismi europei di sorveglianza sull’andamento dei salari e per i processi di contrattazione collettiva a livello nazionale negli altri Stati membri. La presenza di strette regole fiscali e di meccanismi di sorveglianza sui salari all’interno di un’unione monetaria comune ha di conseguenza intensificato le pressioni per gli altri Stati membri di ridurre lo scarto di competitività nei costi e nei prezzi con la Germania. 

La Finlandia è un chiaro esempio di questa dinamica. Nonostante alti livelli di densità sindacale e istituzioni di stampo corporativo ben consolidate, negli ultimi anni anche in Finlandia si sono manifestate dinamiche di policy making simili a quelle osservate nei Paesi della periferia dell’Eurozona durante la crisi. Questo cambio di passo nella capacità dei sindacati finlandesi di affermare le proprie preferenze nei processi di riforma è avvenuto in seguito al marcato deterioramento della situazione macroeconomica finlandese nel periodo successivo alla crisi del debito sovrano, dal 2012 in poi. Ciò ha portato a ripetuti problemi economici finlandesi legati al problema di competitività, che andava affrontato tramite la svalutazione interna. In tutta risposta, il governo di destra del Primo ministro Sipilä ha minacciato le parti sociali di un intervento legislativo unilaterale per implementare la svalutazione salariale. Forti proteste da parte dei sindacati, incluso il primo sciopero generale in vent’anni, non sono state sufficienti a fermare i piani di riforma del governo. Alla fine, di fronte a una minaccia di intervento legislativo unilaterale, i sindacati finlandesi hanno acconsentito nel 2016 a sottoscrivere un accordo di concertazione sociale, il cd. “Patto di competitività”, che prevedeva un congelamento dei salari, estensioni dell’orario lavorativo, un accrescimento del peso dei contributi a carico degli impiegati rispetto ai datori, un impegno da parte dei sindacati ad accettare una decentralizzazione del livello predominante di contrattazione collettiva; senza ottenere in cambio alcuna concessione o compensazione significativa.

Ciò che accomuna le esperienze di Paesi come Finlandia e Francia a quella dei Paesi mediterranei è che i sindacati hanno uniformemente subito sconfitte importanti in seguito alle pressioni competitive acuite e politicizzate dal framework istituzionale della nuova governance economica europea. In sintesi, i nostri risultati empirici mostrano come le regole fiscali e di sorveglianza sull’andamento dei salari hanno avuto impatti avversi per quanto riguarda il rapporto di potere tra classi sociali; impatti avversi che trascendono la divisione tra centro e periferia o tra Nord e Sud della zona euro. Anche i Paesi del “core” che hanno beneficiato in passato di una bilancia di pagamento in surplus possono infatti arrivare a subire pressioni per implementare politiche di svalutazione interna simili a quelle dei Paesi del Sud, se il tasso di crescita rallenta e il loro vantaggio competitivo si esaurisce. I perdenti comuni di questo processo sono i lavoratori e le forze sindacali.

Le implicazioni politiche sono chiare. La capacità dei movimenti sindacali e dei lavoratori dell’Ue di difendere ed estendere diritti sociali, recuperare livelli salariali adeguati e prevenire lo smantellamento dei sistemi di Welfare dipende sempre di più dalla loro capacità di cooperare a livello transnazionale per contrastare gli effetti nefasti del framework della governance economica europea e spingere per un cambio di rotta. In un contesto in cui le divisioni all’interno dell’Eurozona sono riemerse durante il dibattito sulle risposte europee alla crisi del Covid-19, è dunque particolarmente importante che le forze sindacali del Nord e del Sud Europa riconoscano i propri interessi comuni e cooperino così da prevenire che i costi della crisi presente siano scaricati sui lavoratori. Da questo punto di vista, gli interventi della Confederazione europea dei sindacati (Ces) e l’iniziativa congiunta dei sindacati italiani, spagnoli e tedeschi del comparto industriale durante la crisi del Covid-19 per spingere Commissione e Stati membri verso una risposta europea alla crisi ispirata a principi di solidarietà e di superamento della logica dei vincoli fiscali sembra rappresentare un passo nella giusta direzione, a cui si spera ne seguano presto altri, ancora più sostanziali. L’alternativa, a quanto pare, sarebbe una regressiva e insostenibile corsa al ribasso.