Dato il clamore che sempre suscitano le rilevazioni Ocse-Pisa, il nuovo libro del suo direttore, Andreas Schleicher, è evidentemente una lettura importante per chi si occupa di scuola.

Le numerose questioni che vi vengono affrontate si giovano di un'esperienza internazionale che pochi possono vantare al livello di Schleicher. Attraverso confronti e aneddoti che danno agilità al libro, Schleicher propone un’interessante serie di punti qualificanti per l'istruzione mondiale (le ambizioni di Schleicher non sono affatto timide). Tra i più significativi, la dimostrazione che non basta spendere di più o tenere gli studenti per più tempo sui banchi per ottenere buoni risultati; l'inutilità delle classi di livello; la necessità di coltivare l'autonomia professionale dei docenti.

Schleicher inoltre spariglia con entusiasmo molti feticci ideologici che appesantiscono il dibattito sull'istruzione, mostrando come le principali necessità educative siano ormai patrimonio di tutti. E molti detrattori di Ocse-Pisa sarebbero sorpresi di scoprire che per Schleicher qualsiasi riforma scolastica dev’essere in primo luogo condivisa dai sindacati degli insegnanti, non calata dall'alto con un approccio «tecnocratico».

Se l'empito militante di Schleicher ha un difetto, piuttosto, è nel fatto che la sua visione di fondo dell'istruzione del XXI secolo finisce per essere ingenua, nonostante le molte proposte valide.

La sua premessa è che l'istruzione del XXI secolo dovrà essere molto diversa da quella del Novecento, poiché l'accelerazione tecnologica ha determinato un tale cambiamento socio-economico che anch'essa non può esimersi dall'evolvere. Il fattore di cambiamento più dirompente ovviamente è il digitale: poiché oggi ogni telefono è una porta su tutto lo scibile umano, la scuola non deve limitarsi a trasmettere saperi consolidati (che non esisterebbero più), ma la capacità di maneggiare e mettere in correlazione ambiti variegatissimi e cangianti.

La premessa è che l'istruzione del XXI secolo dovrà essere diversa da quella del Novecento, poiché l'accelerazione tecnologica ha determinato un cambiamento socio-economico Il problema è che la sottovalutazione delle conoscenze e la loro artata separazione dalle competenze è qualcosa che la ricerca pedagogica ha già superato. Daisy Christodoulou in Seven myths about education già nel 2013 affrontava questa problematica inserendola tra i miti da sfatare, scienza alla mano: non c'è competenza che non si basi su solide conoscenze e, ad esempio, anche la stessa capacità di comprensione di un testo dipende largamente dalle conoscenze pregresse. Schleicher certamente non dice che le conoscenze non servano, ma nondimeno per lui il cuore della questione è questo: «Tutti possono cercare – e di solito trovare – informazioni su internet; viene ricompensato solo chi sa cosa fare con quel sapere» (p.295).

Ciò viene così esemplificato: «[...] Gli studenti di Taiwan sono stati tra i migliori nella valutazione in scienze del 2015 ma, in termini relativi, erano significativamente più bravi nella riproduzione dei contenuti scientifici, piuttosto che nella capacità di dimostrare di saper pensare come scienziati» (p. 297). Schleicher trascura che non si può «pensare come scienziati» se non si hanno conoscenze ed esperienza da scienziati. In altre parole, Schleicher sta cercando una sorta di scorciatoia per far sì che gli studenti ragionino come esperti (sappiano cioè riconoscere schemi e analogie, trasferire il proprio sapere a nuovi contesti, inquadrare rapidamente un problema e avviarsi a risolverlo) senza però prima aver dovuto apprendere una disciplina in maniera sistematica (troppo novecentesco).

L'essere esperto, e quindi critico e creativo, richiede invece un lungo tirocinio in cui le attività di chi è ancora novizio sono diverse da quelle di un esperto. Non si può chiedere agli studenti di saltarle per arrivare subito ai risultati brillanti. Bisogna fornire le basi, proporre un sapere strutturato e materiali su cui riflettere ed esercitarsi criticamente: non si può affrettare tutto perché il XXI secolo incombe. Il fraintendimento nasce dalla già menzionata immagine dell'istruzione novecentesca che Schleicher propone, vista come «semplice erogazione di conoscenze accademiche» (p. 316). Con ciò egli banalizza profondamente l'importante ricerca didattica nella scuola otto-novecentesca (Schleicher non cita mai il metodo montessoriano, per dirne una).

È proprio Schleicher a fornirci un esempio dell'ingenuità del suo approccio: a p. 95 è lui stesso a rivelarci che top performer per l'educazione finanziaria è Shanghai, dove però questa non si studia. Come è possibile? Il fatto è che nel curriculum è previsto il tradizionale studio del calcolo combinatorio, non di un vago ma moderno skill finanziario.

Questa filosofia pone un problema nel design di fondo delle rilevazioni Ocse-Pisa: poiché vogliono essere trasversali e basate su soft skills, non tengono conto dei curricula nazionali. Non è questione da poco: per valutare un sistema scolastico dobbiamo in qualche modo verificare quanto di quello che si propone di insegnare venga effettivamente appreso. Se dalle rilevazioni eliminiamo proprio ciò che la scuola insegna, diventa difficile valutarne l'efficacia (come già ha fatto notare Sjøberg 2019, p. 17). Non si dimentichi che altre rilevazioni, come Timss, il curriculum invece lo tengono in considerazione eccome.

Schleicher vuole giocare d'anticipo, ma se poi le previsioni sono sbagliate? Se ci guardiamo indietro, troviamo che raramente le predizioni dei futurologi si sono rivelate giusteNell'enfasi sugli skill del XXI secolo c'è un altro problema: Schleicher vuole giocare d'anticipo, ma ciò significa fare opera di divinazione. E se poi le previsioni sono sbagliate? Se ci guardiamo indietro, troviamo che molto raramente le predizioni dei futurologi si sono rivelate giuste.

Ciò finisce  per collidere con un'altra questione su cui Schleicher pone giustamente molta enfasi: il lifelong learning. È vero che lo sviluppo tecnologico è assai rapido, per cui ha ragione a sottolineare che ogni lavoratore deve continuamente aggiornarsi. Ma se le cose stanno così, perché non dedicare l'istruzione scolastica a quei fondamentali che rimarranno comunque utili, invece di giocarsi tutto in una scommessa azzardata?

Questo tipo di contraddizioni sono spesso presenti nel libro, ed è un peccato, perché i molti passaggi interessanti finiscono per tralasciare qualche aspetto importante o per lasciare incompleto il discorso. Ad esempio, è molto utile che Schleicher insista molto sull'inclusione degli studenti svantaggiati e degli stranieri; manca però del tutto una riflessione sull'abbandono scolastico (che incide anche sui risultati dei test: il Vietnam da lui citato ha un ottimo ranking, ma tassi di abbandono stratosferici). Allo stesso modo, a p. 69 Schleicher ricava dai dati Ocse-Pisa che non serve reclutare insegnanti con i migliori voti di laurea, però a p. 98 traccia della figura docente un ritratto che mal si adatta a laureati mediocri.

In conclusione, gli stimoli nel libro sono tanti, spesso ottimi (ad esempio, ancora, su governance e autonomia, growth mindset, valutazione scolastica), ma il piglio garibaldino talora deborda e Schleicher finisce anche per non rispondere alle critiche che negli anni sono state rivolte ai test Ocse-Pisa. Alcune saranno troppo ideologiche, ma quelle ad esempio sul reale valore dei dati prodotti dal governo cinese meritavano delle risposte. Una pubblicazione come questa era la sede giusta per darle. Rimane un po' di amaro in bocca.